«Se il nostro mondo è diverso, allora anche la nostra politica deve essere diversa». Così Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco, ha presentato al Bundestag la svolta della Germania sotto il cancelliere Olaf Scholz. Dopo aver di fatto sepolto il gasdotto Nord stream 2, Berlino ha deciso di cambiare la sua politica estera e di Difesa, stanziando fondi speciali per la Bundeswehr e investimenti da 100 miliardi di euro (l’intero bilancio nel 2021 è stato di 47 miliardi di euro) per raggiungere nel più breve tempo possibile l’obiettivo Nato della spesa militare al 2% del prodotto interno lordo: probabile, dunque, l’acquisto dei jet F-35 in medio periodo.
È pare della risposta all’invasione russa dell’Ucraina. «Non ci poteva essere altra risposta all’aggressione di Vladimir Putin», ha dichiarato Scholz. Il pacchetto comprende anche massicci aiuti all’Ucraina.
Il governo tedesco ha autorizzato l’invio di 1.000 armi anticarro e 500 di quei missili Stinger che in questi giorni, nelle mani delle forze di Kiev, hanno creato non poche difficoltà alla flotta aerea russa. Inoltre, ha sbloccato alcuni invii da Paesi terzi che necessitavano l’autorizzazione di Berlino: i Paesi Bassi possono così inviare all’Ucraina 400 lanciagranate e l’Estonia nove obici. Ironia della sorte: questi ultimi sono dei D.30 con un calibro di 122 millimetri sviluppati in Unione sovietica a metà degli anni Cinquanta. I Paesi Bassi, inoltre, intendono consegnare 200 missili antiaerei Stinger oltre a pistole, munizioni e sistemi radar. In precedenza, il governo olandese aveva deciso di donare 4.000 proiettili di artiglieria.
A questi si aggiunge il Belgio, che fornirà all’Ucraina 2.000 mitragliatrici e 3.800 tonnellate di carburante per i mezzi dell’esercito. Lo ha annunciato su Twitter il primo ministro Alexander de Croo, precisando che «un’analisi più approfondita delle richieste» militari di Kiev «continua». Dunque, altri aiuti militari potrebbero arrivare.
La Danimarca ha annunciato di voler inviare 2.000 giubbotti antiproiettile e 700 borse mediche.
La Francia invierà più armamenti, ha annunciato venerdì sera il presidente Emmanuel Macron, senza specificare le consegne.
Il Regno Unito ha fornito finora all’Ucraina circa 2.000 missili anticarro. Ben Wallace, ministro della Difesa, ha però escluso l’ipotesi di un supporto aereo: «Significherebbe che la Nato dichiara guerra alla Russia», ha dichiarato.
In Europa centrale si segnalano la Repubblica Ceca, che ha inviato munizioni per un valore di 1,5 milioni di euro e altre armi per 7,6 milioni di euro sono attese a breve. La Polonia ha promesso munizioni difensive. La Slovacchia, invece, ha annunciato l’esportazione di forniture mediche e due kit per lo sminamento per un valore totale di 1,7 milioni di euro.
Infine, ci sono gli Stati Uniti, che sul piatto hanno messo 350 milioni di dollari in aiuti militari «per aiutare l’Ucraina ad affrontare le minacce corazzate, aeree e di altro tipo», ha spiegato Antony Blinken, segretario di Stato. Il Pentagono e il dipartimento di Stato hanno spiegato che il pacchetto include missili anticarro, armi leggere, equipaggiamento, varie munizioni e anche sistemi antiaerei.
«L’Italia manderà armi non letali cioè mezzi di equipaggiamento, giubbotti, elmetti», ha dichiarato Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa. La decisione verrà presa probabilmente domani. In ogni caso, per spedire gli Stinger serve un decreto legge alla luce di una legge del 1990 che prevede il divieto di esportare armi verso Paesi in guerra salvo «diverse deliberazioni» del Consiglio dei ministri (da ratificare comunque in Parlamento).
Dall’inizio dell’invasione russa, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sta facendo ampio uso di Twitter per raccontare sia la guerra sia i suoi contatti con i leader del mondo. In quest’ultimo caso lo fa per riportare i colloqui, spesso scrivendo prima della controparte.
Venerdì l’ha fatto con Mario Draghi, dopo una telefonata per chiarire quello che è stato definito un «malinteso di comunicazioni» avvenuto venerdì e in cui il presidente del Consiglio ha ribadito «che l’Italia appoggia e appoggerà in pieno la linea dell’Unione europea sulle sanzioni alla Russia, incluse quelle nell’ambito Swift». E l’ha fatto anche con Recep Tayyip Erdogan. «Ringrazio il mio amico, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il popolo turco per il loro forte sostegno», ha scritto Zelensky su Twitter. «Il divieto di passaggio delle navi da guerra russe nel Mar Nero e un significativo supporto militare e umanitario per l’Ucraina sono oggi estremamente importanti. Il popolo ucraino non lo dimenticherà mai!».
Ma dopo quel tweet si è verificata una corsa dei diplomatici turchi a chiarire: Erdogan, che ieri ha invitato l’omologo russo Vladimir Putin ad Ankara per discutere la situazione in Ucraina, non ha affatto promesso a Zelensky che la Turchia avrebbe chiuso alle navi da guerra russe gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo che portano al Mar Nero, nei cui porti le forze russe sono sbarcate nei giorni scorsi.
Ieri sera, mentre La Verità andava in stampa, una decisione non era stata ancora presa, scrivevano i giornali turchi. La partita per la Turchia è complessa: basti pensare che è membro della Nato ma ogni anno importa 26 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia sui 60 totali.
Secondo il portale web Middle East Eye, il tweet di Zelensky potrebbe essere stato un modo per forzare la mano alla Turchia, che in base alla Convenzione di Montreux del 1936 ha il controllo sul passaggio delle navi tra il Mediterraneo e il Mar Nero.
Venerdì Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco, aveva dichiarato che la Turchia non può impedire alle navi da guerra russe di accedere al Mar Nero attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli come ha richiesto l’Ucraina, proprio a causa di una clausola della Convenzione di Montreux, che consente alle navi di tornare alla loro base.
Il ministro degli Esteri turco aveva aggiunto un dettaglio, che rappresenta la chiave di volta della questione degli stretti: gli esperti legali turchi stanno ancora cercando di determinare se il conflitto in Ucraina possa essere definito una guerra. In quel caso, infatti, Ankara potrebbe invocare i mandati della convenzione. Tradotto: se la Turchia dichiara che quella in Ucraina è una guerra, allora può chiudere Bosforo e Dardanelli.
Ciò, però, potrebbe innescare un pericolosissimo effetto domino - ed Erdogan lo sa bene. Mosca potrebbe identificare una simile decisione come atto di guerra. Ma dichiarare guerra alla Turchia, cioè un Paese Nato, farebbe scattare l’articolo 5 del Patto atlantico, che regola la risposta militare collettiva e congiunta di tutti i membri nel caso in cui uno di loro sia sotto attacco. E allora ci troveremmo in una situazione di conflitto globale. Siamo - o almeno speriamo di essere - nel terreno della fantageopolitica.
Per sopperire alle carenze di personale, le aziende sanitarie si rivolgono alla Fenice, accusata di irregolarità in mezza Italia.- La Corte suprema dello Stato di New York blocca l’obbligo delle mascherine in scuole e luoghi pubblici voluto dai dem. Intanto l’Olanda riapre tutto e la Danimarca declassa il Covid: «Non è più emergenza».
Lo speciale contiene due articoli.
In ogni Regione continuano a mancare anestesisti e rianimatori, che spesso vengono forniti da cooperative. Servizi pagati tanto all’ora e ottenuti attraverso appalti, ma che possono far dubitare sulla qualità della prestazione professionale offerta. Una segnalazione venne fatta già nell’agosto scorso, al direttore generale dell’Azienda sanitaria regionale del Molise (Asrem), da parte della presidente dell’Ordine provinciale dei medici chirurghi della provincia di Campobasso, Carolina De Vincenzo, che esprimeva «grande preoccupazione per criticità e disservizi verificatisi a seguito del reclutamento di personale sanitario dalla cooperativa La Fenice di Sassuolo per conto dell’Asrem, che con essa ha stipulato contratti ad hoc».
La dottoressa era perplessa per «l’affidamento di turni pur in assenza dei titoli e delle specializzazioni necessari per svolgere tale lavoro» e chiedeva se «oltre la parte economica, siano stati individuati indicatori per salvaguardare l’efficienza e la qualità dei servizi sanitari aziendali». La Fenice è una cooperativa conosciuta dai vertici delle Asl, nel bene e nel male.
Il 24 febbraio 2020, l’Azienda Ulss 9 Scaligera che aveva cercato supporto anestesiologico per il Pronto soccorso dell’ospedale di Bussolengo, in provincia di Verona, esclude dalla gara La Fenice e la società di Patrizia Serafini perché «vi è un intreccio parentale tra gli organi rappresentativi» e perché hanno presentato «il documento relativo ai cv dei medici anestesisti che eseguiranno il servizio oggetto dell’appalto, praticamente identico».
L’Ulss conclude che ci sia «un unico centro decisionale».
All’azienda sanitaria tenta di replicare il 6 marzo Artemio Serafini, allora presidente della Fenice nonché fratello di Patrizia e Simonetta Serafini. Quest’ultima, nel giugno 2021 subentrerà come presidente del consiglio di amministrazione della cooperativa che nel frattempo da Catania si era trasferita a Sassuolo, provincia di Modena, in via Tien An Men 4. Serafini, nel marzo 2020, spiega che «La Fenice ha la propria sede e fissa il luogo principale dell’esecuzione delle proprie attività societarie in Sicilia», mentre «la Serafini Patrizia opera come ditta individuale in provincia di Modena».
La spiegazione non convince, la gara viene aggiudicata a una terza società. Venti giorni prima, sempre nel febbraio 2020, il Serafini otteneva invece il servizio di assistenza medica al Pronto soccorso e il servizio notturno di guardia ostetrico ginecologica del presidio ospedaliero di Melzo per circa 350.000 euro l’anno. Ma di che cosa si occupa La Fenice? Dal settembre 2019 opera nel campo dell’assistenza sociale e in un’infinità di altri settori, dai centri per anziani a quelli per extracomunitari. Si dice pure in grado di assicurare «lo svolgimento di servizi medici presso servizi di Pronto soccorso o reparti di degenza, attività ambulatoriale, riguardanti le varie specializzazioni».
Dietro a questa cooperativa e dietro ad Artemio Serafini c’è la cooperativa Solaris, fallita, e la cooperativa sociale La Cometa, «con la quale ha stipulato un contratto di affitto di azienda», come spiega all’Ulss 8 Iberica che il 7 luglio 2021 respinge la domanda di partecipazione della Fenice alla fornitura di prestazioni mediche, per una serie di gravi inadempienze segnalate nella banca dati tenuta dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e inviate dalle Marche, dal Trevigiano, da Melzo.
Nello stesso mese, due giorni prima, l’Azienda socio sanitaria della Valle Olona, provincia di Varese, pur prendendo atto delle stesse annotazioni Anac, «stante l’emergenza da Covid-19 in corso e lo stato di emergenza» deliberava di affidare alla Fenice il servizio di 365 turni diurni e 365 turni notturni di anestesia e rianimazione per l’importo complessivo di 991.237 euro. Come dire, non convinceva ma altri non erano in grado di fornire medici. L’Asl1 Liguria, invece, il 17 settembre 2021 decide la risoluzione del contratto con La Fenice per «mancato avvio del servizio e la conseguente mancata copertura dei turni» dei medici.
Ma torniamo ad Artemio Serafini, classe 1970, originario di Carpi. Si dà da fare in diverse cooperative rosse, eppure nel 2012 la prefettura di Brindisi lo esclude dal bando di gara riguardante l’affidamento del servizio di gestione del centro accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Restinco. La motivazione è che «la documentazione agli atti non permette di conoscere l’attuale rappresentante legale della cooperativa Solaris, né di converso la legittimità di tutta la documentazione sottoscritta e presentata dal signor Artemio Serafini quale dichiarante rappresentante legale/presidente».
Il carpigiano non si dà molta pena, continuerà ad occuparsi di migranti come al centro di Eraclea in Veneto dove è il referente della cooperativa Solaris. Nel 2015 viene accusato di non pagare gli operatori, a luglio di quell’anno un centinaio di migranti ospiti al residence Mimose gettano in strada i vassoi con la cena per protestare sulla gestione del centro. L’anno prima, furono i dodici dipendenti di un centro diurno sempre gestito dalla Solaris a protestare perché non ricevevano lo stipendio.
Dai migranti agli anestesisti, Serafini sembra occuparsi di tutto e si aggiudica appalti. «Non c’è più tempo. Troppo scarsa la dotazione organica di anestesisti e rianimatori negli ospedali del Padovano per continuare a garantire i servizi essenziali, pena il rischio di interruzione di pubblico servizio», scriveva qualche giorno fa Il Mattino di Padova. A vincere la gara è stata ancora una volta La Fenice, che per un mese garantirà 110 turni al costo di 135.960 euro, una cifra superiore a quella proposta da un altro concorrente che partecipava all’appalto ma, scrive sempre il quotidiano locale, «secondo la valutazione dell’Uls 6 Euganea, questa cooperativa “evidenzia una maggiore esperienza nell’effettuazione di servizi medici di vario genere presso strutture sanitarie diverse, con un’organizzazione maggiormente consolidata”».
Mascherine bocciate a New York
«Seppur le intenzioni del commissario Mary Bassett e del governatore Kathy Hochul appaiano mirate a fare ciò che credono sia giusto per proteggere i cittadini dello Stato di New York, devono portare il caso all’Assemblea dello Stato di New York». È in queste poche righe il succo della motivazione con cui Thomas Rademaker, giudice della Corte suprema della contea di Nassau, ha bocciato l’obbligo di mascherina imposto dal governatore e dal commissario alla Salute dello Stato di New York. È stato fatto scattare nelle scuole e nei luoghi pubblici lo scorso 13 dicembre con l’obiettivo di frenare la diffusione della variante Omicron.
Il punto è semplice: secondo il giudice il governo statale non ha l’autorità di imporre un tale obbligo senza il via libera dei deputati. «Per essere chiari», si legge nella motivazione, «questa Corte non intende mettere in discussione in alcun modo questa decisione o comunque opinare sull’efficacia, sulla necessità o sull’obbligo di mascherina come mezzo o strumento per affrontare il virus Covid-19». Piuttosto, il giudice ha giudicato «se la norma in questione è stata promulgata correttamente e, in tal caso, se può essere applicata». Risposta: no. Per questo,«se i parlamentari dello Stato, che rappresentano e sono stati votati dai cittadini di New York, dopo un dibattito aperto al pubblico, decidessero di promulgare leggi che impongono protezioni per il viso nelle scuole e in altri luoghi pubblici, il commissario avrebbe sicuramente un buon fondamento nelle regole correttamente promulgate ed emanate per integrare tali leggi», continua il giudice Rademaker.
Ma il governatore dem e i suoi non ci stanno. Hochul ha detto di essere «fortemente» in disaccordo con la sentenza: «La mia responsabilità come governatore è di proteggere i newyorchesi in questa difficile situazione per la salute pubblica, e queste misure aiutano a prevenire la diffusione del Covid-19 e a salvare vite», ha detto.
E così il suo esecutivo ha deciso di sfidare la sentenza. Le scuole «devono continuare a seguire la regola della mascherina», si legge in una nota inviata dal dipartimento dell’Educazione agli istituti e pubblicata dall’emittente Cnn. Il dipartimento della Salute farà appello, «il che comporterà una sospensione automatica che ripristinerà inequivocabilmente la regola della mascherina fino al momento in cui una Corte d’appello emetterà una nuova sentenza», recita ancora il documento.
Nelle scorse settimane Bruce Blakeman, a capo della contea di Nassau, aveva firmato un ordine esecutive che attribuiva ai consigli scolastici della contea di Long Island la facoltà di decidere se gli studenti debbano o meno indossare le mascherine a scuola. Dopo la decisione del giudice Rademaker ha scritto su Twitter: «Questa è una vittoria importante per studenti e genitori».
Ma è anche la vittoria del Partito repubblicano, che infatti festeggia.
Intanto, anche in Europa, l’aria rispetto al Covid sembra stia cambiando. Nei Paesi Bassi, da oggi, bar, ristoranti e teatri - chiusi da metà dicembre - possono riaprire, come annunciato ieri dal primo ministro Mark Rutte. I locali potranno ora aprire dalle 5 alle 22, a capienza ridotta e con regole di distanziamento sociale. In Danimarca, invece, la premier Mette Frederiksen dovrebbe annunciare oggi che le restrizioni scadranno il 31 gennaio. Il Covid-19, inoltre, non sarà più classificato come una minaccia critica per la società, con conseguente diminuzione delle possibilità di intervento sulla vita sociale del governo.




