2019-11-22
C’è un piano per indottrinarci tutti sul clima
Chi osa ipotizzare che Greta Thunberg sia un'invenzione mediatica viene tacciato di eresia. Ma dal Guardian a Repubblica, da Vanity Fair a El Paìs, 323 influenti testate di tutto il mondo si sono accordate al fine di convertirci al credo ambientalista.Greta Thunberg invenzione mediatica? Chi osa anche solo avanzare questo dubbio viene, ancora oggi, tacciato di complottismo. Eppure un piano dei grandi media planetari per agitare gli spauracchi della catastrofe climatica non solo esiste, ma è operativo da mesi. Stiamo parlando di «Covering climate now» un progetto lanciato dalla Columbia journalism review, rivista dell'omonima e celebre scuola di giornalismo americana. Si tratta di un'iniziativa nata allo scopo, ufficialmente, di «rompere il silenzio sul cambiamento climatico» e sul vertice Onu sul clima tenutosi a New York a settembre. Ammesso che un «silenzio» sul tema prima ci fosse, a giudicare dalla risonanza quotidiana, quasi ossessiva avuta dall'evento, si può concludere che l'idea ha funzionato.Ma come funziona esattamente «Covering climate now»? Da quanto è dato capire, il progetto si proponeva - e si propone, dato che è tutto fuorché esaurito - di orientare i media su quanto tempo, spazio e risalto dare a servizi riguardanti il cambiamento globale «anche modificando il linguaggio con cui l'informazione ne parla». Altro che «rompere il silenzio sul cambiamento climatico», insomma: dietro il piano della Columbia university school of journalism si cela ben di più della volontà di creare un semplice think tank ecologista. Sembra esserci invece un'esplicita volontà di indottrinamento al credo ambientalista. Il che, tutto sommato, sarebbe di relativa importanza se «Covering climate now» avesse un seguito editoriale limitato. Cosa che invece non è affatto, anzi: tutto il contrario.Come la stessa Columbia journalism review spiega sul suo sito, infatti, il vertice Onu di settembre ha avuto una copertura mediatica strabiliante, grazie alla collaborazione di 323 tra testate, agenzie di stampa, radio e siti internet. Un lunghissimo elenco con tanti colossi dell'informazione americana e internazionale: Bloomberg, Cbs News, Newsweek, Rolling Stone, Vanity Fair, Agence France presse, The Times of India, El Paìs, Asahi Shimbun Nature, HuffPost, National Observer, Harvard Business Review e Scientific American. A dare man forte alla cordata mediatica ambientalista, c'è stata perfino Al Jazeera, la note rete televisiva con sede in Qatar. In totale, il progetto «Covering climate now» ha assicurato al summit una copertura in 47 Paesi, raggiungendo oltre un miliardo di persone, la gran parte delle quali nel mondo occidentale.Tutto ciò è stato possibile grazie a un martellamento mediatico determinato da oltre 3.600 servizi e interventi e quasi 70.000 tweet. Un'azione coordinata nella quale ciascuno ha fatto la propria parte, e alla grande. Basti pensare che il Guardian, da solo, ha pubblicato oltre 150 articoli relativi al clima nelle sue edizioni negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e all'estero. Tra le testate più celebri solo il Washington Post e il New York Times, a quanto pare, si sono chiamati fuori da questa iniziativa; in compenso, da noi ha aderito Repubblica, che non è esattamente un quotidiano tra tanti. Il successo planetario dell'iniziativa della Columbia university fa capire come mai, sui media e non solo, le colpe dell'uomo nel riscaldamento del globo siano state elevate a dogma.Allo stesso modo, ciò spiega perché non abbiano visibilità scoperte come quella di Ian Rutherford Plimer, geologo dell'università di Melbourne, il quale ha evidenziato come il «97% degli scienziati concordi sulla matrice antropica del riscaldamento globale» - mantra che si sente spesso ripetere - sia in realtà l'esito in un'indagine eseguita inviando questionari a 10.527 esperti del clima, solo 3.146 dei quali ha risposto e da cui, alla fine, si sono considerati i pareri di appena 77 personalità, con 75 di esse risultate favorevoli alla tesi cara alla Thunberg. 75 scienziati, peraltro arbitrariamente selezionati, possono forse essere rappresentativi del 97% della comunità scientifica? Certo che no. Eppure è questo che l'armata mediatica guidata dalla Columbia journalism review vuole farci credere.Degno di nota, infine, è il fatto che, nonostante il vertice Onu sia ora alle spalle, «Covering climate now» non solo prosegue la sua attività, ma la vuole intensificare. Sul sito della rivista della Columbia university, in un post dell'8 novembre, si legge infatti della ricerca di un «giornalista d'eccezione che possa ricoprire il duplice ruolo di caporedattore e direttore dei social media» perché il titano ecologista è «un'organizzazione giovane e in rapida crescita». Ed ora «oltre a facilitare altre collaborazioni congiunte di copertura» intende «convocare incontri in cui i giornalisti possano discutere e condividere le migliori strategie». Questo significa che per una rappresentazione equilibrata del dibattito scientifico sul clima - che in Italia vede studiosi del calibro di Franco Prodi, Carlo Rubbia, Nicola Scafetta tutt'altro che appiattiti sugli slogan ecologisti - toccherà aspettare ancora un po'. Perché la propaganda spaventa tutti, ma se è green allora va bene. Nell'era del climaticamente corretto il pluralismo inquina.