
Studio pubblicato sulla prestigiosa «Environmental Harzards» dimostra che casi e vittime di calamità naturali sono in costante diminuzione da 20 anni. E che il riscaldamento climatico non c’entra nulla con questi eventi.Al cambiamento climatico si attribuiscono così tante colpe che, quale capro espiatorio del maltempo, esso ha ormai superato il proverbiale «governo ladro». Persino i piromani sono stati oscurati dal global warming. Eppure, a dispetto di profezie di sventura e cronache martellanti, le catastrofi naturali, nonché le vittime di tali sciagure, sono in diminuzione da vent’anni. E come se non bastasse, sembra proprio che, con l’innalzamento delle temperature, i disastri non c’entrino nulla.Lo hanno messo nero su bianco, in un articolo pubblicato su Environmental Harzards, rivista del prestigioso editore Taylor & Francis, due studiosi italiani: Gianluca Alimonti, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e della Statale di Milano; e Luigi Mariani, prof all’Università di Brescia.Gli autori hanno spulciato l’Emergency events database, inaugurato nel 1988 dal Center for research on the epidemiology of disasters (Cred) della Cattolica di Lovanio: si tratta di un meticoloso censimento di frane, smottamenti, alluvioni, cicloni, tornando e altre calamità. Osservando i numeri a partire dal 1900, emerge un chiaro trend: i disastri iniziano ad aumentare attorno alla metà del secolo, crescono velocemente dagli anni Settanta, segnando un picco improvviso dagli anni Novanta. Poi, alla faccia dei vaticini delle agenzie Onu, prendono a diminuire nel ventennio 2002-2022. Così come le vittime.La spiegazione proposta dagli scienziati è piuttosto intuitiva: negli anni, sono state approntate tecnologie avanzate e sono stati perfezionati i meccanismi di segnalazione. Dunque, non è che fino agli anni Cinquanta regnasse la calma; solo che era più difficile individuare un evento e inserirlo in un archivio. È un’idea suggerita dagli stessi tecnici del Cred, che hanno più volte richiamato l’attenzione sull’«evoluzione» dei sistemi a disposizione degli esperti, scrivendo: «Parte dell’apparente aumento nella frequenza dei disastri nello scorso cinquantennio è, senza dubbio, dovuto a una migliorata capacità di registrazione». I morti sono calati per motivi simili: benché ci siano ancora tante contromisure da prendere e nonostante, specie in Italia, la manutenzione del territorio sia trascurata, siamo comunque diventati più bravi a reagire alle emergenze e a proteggerci dalla furia della leopardiana natura matrigna. Ma se ciò non fosse sufficiente, è eloquente la statistica riferita all’ultimo ventennio: la tendenza è a una diminuzione, non a un incremento delle sciagure. Un risultato, sottolineano Alimonti e Mariani, che si pone «in marcata contraddizione rispetto alle precedenti analisi di due organismi delle Nazioni Unite (Fao e Undrr), le quali predicono un numero crescente di disastri naturali». Manco a dirlo, connessi al cambiamento climatico. Ecco. Il clima. Non saremo di fronte a tragedie quotidiane, la percezione distorta avrà alterato la realtà, però si trova sempre il testimone che giura, come un giovane di Bardonecchia sentito dal Tg3, di non aver mai assistito prima a fenomeni come lo «tsunami di fango» di domenica sera. L’innalzamento delle temperature medie - un fatto incontestabile, al di là della discussione sulle sue cause - c’entra o non c’entra? La risposta che danno gli autori è inequivoca: non c’entra. E un fortissimo indizio arriva dal paragone con le devastazioni provocate da terremoti, eruzioni vulcaniche e vari sussulti del pianeta, sui quali sarebbe surreale sostenere che siano influenzati dal caldo e dal freddo. Tutti questi fenomeni, che nelle stringhe dell’ateneo di Lovanio sono definiti «disastri geofisici», mostrano un andamento perfettamente sovrapponibile a quello degli eventi che si sospettano connessi alle emissioni di CO2: più rari e stabili dal 1900 alla metà del secolo, in repentina crescita fino al Duemila, poi di nuovo in discesa fino ad oggi. Diventa davvero difficile tirare in ballo i combustibili fossili, le auto a gasolio, o le flatulenze delle vacche. Toccherà considerare un’ipotesi alternativa: magari, con buona pace dei disfattisti ambientali, non c’è alcuna emergenza. Almeno, non tale da giustificare la desertificazione industriale in Europa e il depauperamento delle classi medie, per giunta mentre Cina, India, Sudafrica e America latina continuano a sparare anidride carbonica nell’atmosfera. L’allarme verde si smorza ulteriormente se si esamina, decennio per decennio, il bilancio delle vittime delle calamità: meno di 100 persone l’anno dal 1980, con un calo sensibile e ininterrotto (da 84 a 22) tra il 2000 e il 2022. A scendere è stato pure il costo, già limitato rispetto ad altre piaghe sociali, dei danni provocati dall’inquinamento: lo aveva calcolato l’esperto e attivista danese Bjorn Lomborg, stimandone l’impatto in percentuale sul Pil del mondo. A beneficio degli ecocatastrofisti impenitenti, a questo punto, possiamo citare il telegeologo Mario Tozzi: la scienza ha chiuso il dibattito.
Jean-Eudes Gannat
L’attivista francese Jean-Eudes Gannat: «È bastato documentare lo scempio della mia città, con gli afghani che chiedono l’elemosina. La polizia mi ha trattenuto, mia moglie è stata interrogata. Dietro la denuncia ci sono i servizi sociali. Il procuratore? Odia la destra».
Jean-Eudes Gannat è un attivista e giornalista francese piuttosto noto in patria. Nei giorni scorsi è stato fermato dalla polizia e tenuto per 48 ore in custodia. E per aver fatto che cosa? Per aver pubblicato un video su TikTok in cui filmava alcuni immigrati fuori da un supermercato della sua città.
«Quello che mi è successo è piuttosto sorprendente, direi persino incredibile», ci racconta. «Martedì sera ho fatto un video in cui passavo davanti a un gruppo di migranti afghani che si trovano nella città dove sono cresciuto. Sono lì da alcuni anni, e ogni sera, vestiti in abiti tradizionali, stanno per strada a chiedere l’elemosina; non si capisce bene cosa facciano.
Emanuele Orsini (Ansa)
Dopo aver proposto di ridurre le sovvenzioni da 6,3 a 2,5 miliardi per Transizione 5.0., Viale dell’Astronomia lamenta la fine dei finanziamenti. Assolombarda: «Segnale deludente la comunicazione improvvisa».
Confindustria piange sui fondi che aveva chiesto lei di tagliare? La domanda sorge spontanea dopo l’ennesimo ribaltamento di fronte sul piano Transizione 5.0, la misura con dote iniziale da 6,3 miliardi di euro pensata per accompagnare le imprese nella doppia rivoluzione digitale ed energetica. Dopo mesi di lamentele sulla difficoltà di accesso allo strumento e sul rischio di scarse adesioni, lo strumento è riuscito nel più classico dei colpi di scena: i fondi sono finiti. E subito gli industriali, che fino a ieri lo giudicavano un fallimento, oggi denunciano «forte preoccupazione» e chiedono di «tutelare chi è rimasto in lista d’attesa».
Emmanuel Macron (Ansa)
L’intesa risponderebbe al bisogno europeo di terre rare sottraendoci dal giogo cinese.
Il tema è come rendere l’Ue un moltiplicatore di vantaggi per le nazioni partecipanti. Mettendo a lato la priorità della sicurezza, la seconda urgenza è spingere l’Ue a siglare accordi commerciali nel mondo come leva per l’export delle sue nazioni, in particolare per quelle che non riescono a ridurre la dipendenza dall’export stesso aumentando i consumi interni e con il problema di ridurre i costi di importazione di minerali critici, in particolare Italia e Germania. Tra i tanti negoziati in corso tra Ue e diverse nazioni del globo, quello con il Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay ed Uruguay) è tra i più maturi (dopo 20 anni circa di trattative) e ha raggiunto una bozza abbastanza strutturata.






