2021-07-03
Le delizie di Capri trovarono d’accordo Lenin e Mussolini
Dall’antipasto globalizzato mozzarella-pomodoro-basilico ai ravioli ai totani. Tanti i Vip innamorati della cucina isolanaLe sue origini sono di antica nobiltà. L’isola degli dèi con una corona di regine, le sirene descritte da Omero nell’Odissea. Con il loro canto ipnotico distraevano i naviganti dalla retta via. Lo scoglio a loro dedicato tuttora in bella vista a Marina piccola. L’Imperatore Tiberio, il secondo della dinastia romana, la elesse a sede del cuore. Presso Villa Jovis si tenevano sontuosi banchetti tanto che Capri divenne la capitale del gusto dell’Impero. Seguirono secoli di oblio per tornare a nuova vita sul finire dell’Ottocento, meta di artisti e poeti e poi via via ad entrare nell’Olimpo del jet set internazionale. Capri bipartisan, all’inizio del secolo breve vi sbarcò Vladimir Lenin, ospite di Maxsim Gorkij, per seminare il verbo della rivoluzione russa prossima ventura. L’eco delle sue parole si spandeva nei giardini del lussuoso Quisisana dove il magnate delle acciaierie germaniche Alfred Krupp si rilassava mentre la produzione degli armamenti in patria creava le basi del prossimo conflitto mondiale. Via Krupp, ancora oggi, è una delle strade più famose dell’isola di Capri, che collega il centro storico con la zona balneare di Marina Piccola, voluta e finanziata dal re dell’acciaio. Con queste premesse non resta che gettare l’ancora, freschi dei peccati di gola nell’Elba di Napoleone, e approfondire quanto ci attende tra calette e trattorie golose. Capri è un luogo dove si sono fuse al meglio, tra loro, contaminazioni diverse. Una caratteristica di base: i prodotti del territorio sono i protagonisti di un percorso… caprese che va dall’antipasto, ai primi, per finire in dolce compagnia. Quando il turismo internazionale iniziò a prendere piede i cuochi degli alberghi venivano dal continente, con scarsa cultura del prodotto locale e la noblesse ospite (prevalentemente austro ungarica e anglosassone) nutriva una certa diffidenza per alcuni ingredienti, l’olio in primis. Ancel Keys e il mito della cucina mediterranea arrivarono dopo, negli anni Cinquanta. Lo scambio di gusti e retrogusti avveniva in realtà nelle poche trattorie e osterie a conduzione familiare. La cucina della memoria isolana si confrontava con artisti e archeologi foresti, generalmente squattrinati, in un confronto di emozioni con i residenti, carrettieri, operai. La caprese è un antipasto oramai globalizzato. Sulle sue origini tesi diverse. Quella intellettuale vede coinvolti gli ambasciatori del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti ed Enrico Prampolini. Erano gli anni in cui si tuonava contro la pasta alla Pulcinella, era un dovere lottare contro il dilagante «peso, pancismo e obesità». Et voilà che, all’onnipresente Quisisana (forse nomen omen?), compare nel menù un’intrigante rilettura tricolore del meglio del territorio. Pomodoro (cuore di bue), mozzarella di bufala e basilico. Il meglio del meglio, per l’occhio ed il gusto, in lambada ideale. Vi è poi la versione proletaria. Subito dopo il secondo conflitto un operaio impegnato nella ricostruzione delle macerie nazionali volle esibire un segno di orgogliosa appartenenza, ed ecco papparsi il tricolore in pausa pranzo. A ruota la versione regale. Nel 1951 re Farouk, debilitato da una lunga passeggiata, chiese un pasto veloce, ma leggero. Conseguente pensare cosa gli abbiano servito. Caprese che poi ha trovato innumerevoli rielaborazioni alla luce anche di una modernità targata nouvelle cousine con creatività associate. Ambasciatori il locale Paolo Gramaglia con un astice alla caprese e non poteva certo mancare il catodico (e onnipresente) Jamie Oliver con una creativa zuppa caprese. Cambia l’architettura edibile, non cambia la sostanza. Sulle tenere caciotte isolane non mancò il tocco d’autore a renderle immemori, alias un certo Gabriele D’Annunzio. «Candido tenero, umido formaggio che serba la più fresca verginità del latte sotto la sua buccia», Capri, 1909. Caciotta che ritroviamo, stavolta grattugiata, a dare farcia, assieme a maggiorana complice, ai ravioli, naturalmente alla caprese, ricoperti da pomodoro e basilico d’ordinanza. A dir la verità un’anagrafe evolutasi nel tempo. Prima traccia nel 1922, voluti dal sindaco Edwin Cervo quali testimonial a un convegno sul paesaggio. Recitavano all’anagrafe ravioli caprioti. Poco tempo dopo ambasciatori al tavolo di Benito Mussolini, stavolta al singolare, raviolo alla caprese, per poi evolversi al plurale, come li conosciamo oggi. Attratto dalle elegie dannunziane sulla caciotta li provò Claude Debussy, ospite nel 1919 di Ottorino Respighi, ma, al contrario di Marguerite Yourcenar che ne divenne dipendente, non ne fu conquistato, tanto da consolarsi componendo a futura memoria il suo celebre preludio ad Anacapri. Una salsa simbolo dell’isola è la chiummentana, talmente radicata nel territorio che già dall’altra parte del golfo devono cliccare su google per capire cos’è. Un sugo al pomodoro messo in jam session golosa con aglio, olio, origano, basilico. Tra i suoi testimonial recidivi tale Totò, in una trattoria con vista faraglioni. Etimo dibattuto, per taluni da chiummenza, ovvero la ciurma a terra che, in attesa di reclutamento per salpare l’ancora, si consolava con quanto raccoglieva nei campi d’intorno. Per altri da chiummo, ovvero il piombo con il quale si appendevano sotto i pergolati i pomodorini una volta raccolti. Condimento per la pasta, ma anche sparring partner con carne e pesce. Tra le calette come al largo re Nettuno è generoso nel concedere un po’ di tutto, ma da queste parti il totano regna sovrano. Per diversi motivi. In un’economia rurale tempo e risorse erano preziose. Il totano si può pescare tutto l’anno, di notte c’est plus facile. Di giorno si lavorava di zappa l’orto. Quando i pescatori tornavano al chiaro di luna, il primo ad attenderli Curzio Malaparte che se li pappava «pugnuti», cioè a morso vivo, tra gli applausi dei presenti. Coinvolse amici quali Jean Luc Godard ed un’esordiente Brigitte Bardot quando, nel 1953, nella sua villa a punta Massullo registrarono alcune scene de Il Disprezzo. Totano goloso anche perché, grazie alla salinità del mare non solo è piacevole al gusto, ma pure dura meglio di altro pescato nella dispensa. Se non siete devoti emuli di Malaparte ve li potete gustare con le patate oppure ripieni (di uova, caciotta e parmigiano). Qui entra in gioco l’orgoglio di campanile. I «tiberiani», ovvero quelli del capoluogo e dintorni, se li pappano rigorosamente rossi, cioè conditi con pomodoro. I «ciamurri» (così sbrigativamente definiti quelli di Anacapri), solo bianchi (vade retro pummarò), ma in due versioni, fritti o al forno. Su una regola vanno tutti d’accordo, come suggeriscono i totan chef, ovvero gli specialisti di settore. Il totano, salvo testa e qualche cartilagine, non va ripulito troppo, perché proprio tra i suoi anfratti si trovano le eccellenze che lo rendono unico. Della pezzogna, altro regalo di Nettuno, piccola creatura saporita valgono le parole di Alberto Savinio, scritte nel 1926 a Marina grande. «Alcune barche riposavano sul fianco come foche che allattano i loro piccini… le reti si asciugano al sole, all’odore misto di pesce fresco e pezzogne». Ideali con l’acqua pazza, detta così perché i pescatori non potevano permettersi il costoso sale e, quindi, utilizzavano direttamente le acque saline del golfo. Le castagne mpest erano il cibo invernale dei poveri. Essiccate e pestate, poi bollite e magari accompagnate a riso e latte. Si conclude in festa, ovviamente con la caprese, in versione dolce. Mandorle e cioccolato. Leggenda vuole sia frutto maldestro di Carmine Di Fiore, noto pasticcere degli anni Venti che, a fronte di un tavolo con insoliti avventori, emissari di Al Capone, preso da… ansia da prestazione, si dimenticò di aggiungere la farina nell’impasto. Ne uscì una creatura intrigante, morbida al gusto, croccante al morso. Un successo che dura ancora oggi.