2024-07-24
Il cambio di strategia di Big pharma: fiumi di denaro a media e istituzioni
John Ioannidis, epidemiologo dell’università di Stanford
Dopo il flop dell’influenza «A», i colossi hanno abbandonato gli informatori. E hanno puntato tutto sui politici e sulle riviste scientifiche. Una distorsione denunciata dall’epidemiologo John Ioannidis, nel silenzio generale.Capire se sono nati prima i conflitti d’interessi nella classe medica o le sovvenzioni che questa riceve da decenni dall’industria farmaceutica è come voler capire se è nato prima l’uovo o la gallina. Una cosa è certa: l’arrivo dell’influenza «A», la temibile H1N1 o «suina», ha comunque rappresentato un cambio di passo nei rapporti che legano i medici a quella che oggi è chiamata Big pharma, ma che all’epoca non era ancora così tanto «big». Scoppiata nel 2009 in Messico, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che aveva messo in piedi misure restrittive alimentando una psicosi generalizzata, la suina doveva mietere milioni di vittime, in realtà ha causato circa 18.000 morti accertate («di» suina, e non «con» suina) nel mondo, contagiando 482.000 persone. Unico danno collaterale: centinaia di milioni di dosi di vaccini, pagati dai contribuenti, mandati al macero. Dove aveva sbagliato Big pharma? Semplice: la classe medica e i media non avevano abboccato. Un imperdibile Michele Serra, nella sua Amaca dell’8 giugno 2010, lamentava che l’allarme fosse stato «artatamente esagerato, per gonfiare lo smisurato business dei vaccini». Business che però l’editorialista di Repubblica anni dopo, nel 2021, accoglie con supina rassegnazione.Tornando alla suina, è stato allora che l’industria farmaceutica è corsa ai ripari, mettendo in soffitta la lobbying «al dettaglio» sugli informatori medici, pesci ormai troppo piccoli, per indirizzarla direttamente agli organismi di controllo, ai politici, alle riviste scientifiche. Quel cambio di passo lo coglie immediatamente l’autorevole epidemiologo dell’università di Stanford, John Ioannidis, che nel 2011, appena due anni dopo il falso allarme della suina, denuncia: «I conflitti d’interesse abbondano e influenzano i risultati. L’industria adatta i progetti per soddisfare le sue esigenze», scrive, «e le riviste scientifiche forniscono alle autorità sanitarie le cosiddette “evidenze”, che consentono l’adozione di alcune misure sanitarie anziché altre. L’oligopolio delle riviste ad alto impatto ha un effetto distorsivo sui finanziamenti, sulle carriere accademiche e sulle quote di mercato», punta il dito Ioannidis. Il fenomeno, insomma, si era strutturato fino a diventare «sistema». I watchdog dell’informazione si attivano e lo denunciano, mentre la politica prova ad attrezzarsi per arginare l’enorme flusso di denaro che l’industria farmaceutica comincia a riversare sui conti di medici e politici. Nell’anno della suina il Massachusetts, prendendo atto che la somma totale pagata dall’industria farmaceutica ai medici nei 30 mesi precedenti era stata di oltre 76 milioni di dollari (oggi sono molto più rilevanti) elargiti a quasi 12.000 medici sotto forma di cibo, borse di studio o «buoni educativi», vara una legge che obbliga a dichiarare tutti i pagamenti superiori a 50 dollari. Il primo agosto 2013 negli Stati Uniti entra in vigore lo storico Sunshine Act, che stabilisce che ogni transazione finanziaria in denaro o in natura che superi i 10 dollari tra un medico o gruppo di medici e uno o più produttori di farmaci debba essere notificata e inserita in un registro pubblico, contenente anche informazioni sulle proprietà e sugli investimenti di ogni singolo medico e dei suoi familiari più stretti. In Italia, i medici prendono atto dell’aria che tira: ad aprile 2013 il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, segnala che «i trial sponsorizzati da finanziamenti governativi riportano esiti positivi nel 50 per cento delle pubblicazioni, rispetto al 71,9 per cento di quelli finanziati da organizzazioni no profit e all’85,4 per cento dei trial sponsorizzati dall’industria». La stessa industria farmaceutica con la quale, anni dopo, Gimbe intrattiene importanti collaborazioni: Abbott, Abbvie, Astrazeneca, Beigene, Biogen, Celgene, GlaxoSmithKline, Janssen, Mad (Merck), Pfizer Italia, Roche... non manca nessuno. Nel 2014 anche la Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) vara gli indirizzi sul conflitto d’interessi: «I medici non possono percepire direttamente finanziamenti allo scopo di favorire la loro partecipazione a eventi formativi». Peccato che, nella riga successiva, si specifichi che «eventuali finanziamenti possono essere erogati alla società scientifica organizzatrice dell’evento o all’azienda sanitaria presso la quale opera il medico». È, in nuce, quello che diventerà il metodo Covid: medici, università, fondazioni, associazioni, case editrici, ospedali ed enti pubblici non disdegnano sovvenzioni dirette e donazioni, ma sono le società di congressi scientifici a fare il pienone delle generose donazioni di Big pharma. Anche i media si sono attrezzati: ricondotti in un batter di ciglia a più miti consigli, oggi i contributi delle aziende farmaceutiche arrivano dritti nei bilanci sotto forma di pubblicità, come fossero inserzionisti; in cambio non ci sono spot ma suggerimenti camuffati da news in tutti i talk show. Nessun gruppo televisivo è tenuto a renderli pubblici, Big pharma gongola e fattura.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)