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Nel 1990 l’Italia giocava i Mondiali di calcio in casa. Il Muro era appena caduto, al governo c’era Giulio Andreotti, in agosto Saddam Hussein invadeva il Kuwait e a ottobre sarebbe ufficialmente iniziata la riunificazione tra le due Germanie. Molto tempo fa, certo, ma neppure troppo. In quell’anno, in Friuli Venezia Giulia, erano attivi e funzionanti un discreto numero di fortificazioni e bunker Nato voluti in chiave difensiva durante la Guerra fredda.
In totale parliamo di oltre mille strutture che lo Stato maggiore dell’Esercito italiano ha gestito e manutenuto per decenni in tempo di pace: in parte sono vecchie fortificazioni erette dal regime fascista e «convertite» dopo il 1945, ma la grande maggioranza (oltre un migliaio) sono state appositamente costruite per rafforzare le posizioni difensive in caso di attacco da parte di Paesi del Patto di Varsavia. Il confine Est dell’Italia, infatti, non era solo quello tra il nostro Paese e l’allora Jugoslavia, ma anche e soprattutto la frangia Sud della Cortina di ferro. Una faglia che è sempre stata ritenuta teoricamente violabile, anche e soprattutto per la presenza decennale di un fortissimo Partito comunista.
L’università di Udine
Ora, grazie allo straordinario lavoro di ricerca e coordinamento svolto dall’Università di Udine e dall’Associazione Friuli Storia, è possibile avere una visione di insieme di questa realtà di enorme interesse storico ma anche turistico.
Sarà infatti online domani, sabato 4 dicembre, il portale Frontiera Est (www.frontieraest.it), realizzato dall’Università di Udine e dall’Associazione Friuli Storia, con il contributo e la collaborazione della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, della Fondazione Friuli e della Fondazione Carigo. (Per info: frontieraest@uniud.it). Per la prima volta permetterà una ricognizione visiva della impressionante «dorsale» difensiva, apprezzabile nella mappa qui riprodotta. Delle oltre 1.300 strutture realizzate sul confine, quattro (anch’esse evidenziate nella figura) sono state rese sicure e visitabili ad opera di associazioni di volontari, per quella che diventa un’occasione preziosissima per addentrarsi fisicamente in un pezzo di storia nel Novecento.
Non solo infatti c’è la possibilità di entrare in queste strutture, spesso protette da accessi camuffati nell’ambiente montuoso e ramificate per chilometri sotto terra, ma viene tolto il velo - grazie a una capillare e lunga attività accademica, divulgativa e istituzionale durata anni - a uno spaccato sotterraneo (in ambo i sensi) di una vicenda che il crollo del Muro ha di colpo spazzato via. Eppure queste fortificazioni, un po’ come le reti di Gladio, hanno funzionato per decenni (come detto, le ultime a essere abbandonate sono state chiuse nei primi anni Novanta): manutenzione, munizioni, presidi militari continui. In una drammatica occasione, questi rifugi sono stati usati militarmente, anche se non sono mai stati protagonisti di situazioni belliche vere e proprie. Occorre risalire a 70 anni fa: autunno 1953, la tensione attorno al destino della città di Trieste sale fino a occupare queste fortificazioni probabilmente con intenti di deterrenza tattica: non verrà comunque mai sparato un colpo.
Tuttavia le strutture, presidiate e tenute attive, rimangono ancora per quasi 40 anni: sul territorio regionale del Friuli Venezia Giulia se ne stimano oltre 1.300, tra quelle realizzate negli anni Trenta e Quaranta (Vallo alpino del Littorio) e poi parzialmente riconvertite, e quelle approntate ex-novo dalla Nato in posizioni strategiche contro un’invasione da Est. Nella zona alpina le aree interessate furono principalmente la Carnia e il Tarvisiano. Nella pianura friulana, invece, dopo il 1945 si procedette alla realizzazione di un sistema difensivo ex-novo lungo il fiume Tagliamento (da San Michele al Tagliamento a Bordano), e nelle Valli del Torre, del Natisone e dello Judrio, più il Goriziano e la zona del Carso. Se gli sbarramenti di montagna erano costituiti da strutture molto grandi, che contenevano più postazioni per mitragliatrice e per pezzo controcarro, le opere di pianura avevano una struttura differente: erano composte da un complesso di postazioni singole, alcune per mitragliatrice e altre per pezzo controcarro.
I quattro siti visitabili
Ecco quali sono le quattro recuperate e valorizzate: una è parte del citato Vallo alpino del Littorio (Invillino, presso il Comune di villa Santina, oggi è gestita dall’Associazione Friuli Storia e Territorio), due sono del Vallo alpino riadattate dalla Nato negli anni ‘50 (Ugovizza-Nebria, comune di Malborghetto-Valbruna e Passo monte Croce Carnico, comune di Paluzza, rispettivamente gestite da Associazione Landscapes e Assfn-e) e una struttura originale Nato (Bunker San Michele, comune di Savogna d’Isonzo, curato dall’Associazione Nazionale Fanti d’Arresto). Tutte queste associazioni operano da anni sul territorio, ma oggi per la prima volta sono parte di un progetto comune con una potenzialità didattica e divulgativa enorme, anche perché possono essere collegate con un patrimonio storico rilevantissimo. Il Friuli-Venezia Giulia è infatti l’unica regione in Europa dove sono presenti artefatti riconducibili ai tre grandi conflitti del Novecento: le due guerre mondiali e quella fredda. Una vera finestra su tutta la storia del secolo scorso, in un frangente in cui il rapporto con ciò che sta a Est è di tragica attualità.



















