2022-05-05
Budapest stronca la von der Leyen. Non c’è accordo sulle nuove sanzioni
Ursula von der Leyen (Ansa)
Intesa solo per le misure sul patriarca e Sberbank, ma Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca frenano sullo stop al greggio. Ira di Kiev: «Complici di Mosca». E Joe Biden promette: «Parlerò ai leader del G7».L’Unione europea va in frantumi sulle nuove sanzioni da imporre alla Russia. Uno smacco tremendo per Ursula von der Leyen e i burosauri di Bruxelles, che si trovano a fare i conti con la realtà dei governi di Paesi come Ungheria, Bulgaria, Slovacchia e non solo, per i quali l’embargo al petrolio russo comporterebbe il crollo delle rispettive economie. Budapest annuncia il veto, l’esito della riunione di ieri del Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri presso l’Ue (Coreper) si trasforma nella disfatta politica di Ursula. Giornata nerissima, per la von der Leyen, che in mattinata annuncia l’imminente varo del sesto pacchetto di sanzioni: «Proponiamo», proclama la presidente della Commissione Ue, «un divieto al petrolio russo. Sarà un divieto totale di importazione su tutto il petrolio russo, marittimo e da oleodotto, greggio e raffinato. Non sarà facile, alcuni Stati dipendono fortemente dal petrolio russo ma agiremo in modo ordinato, per consentire di garantire rotte di approvvigionamento alternative e ridurre al minimo l’impatto sui mercati globali. Questo è il motivo per cui elimineremo gradualmente la fornitura russa di petrolio greggio entro sei mesi», aggiunge la von der Leyen, «e di prodotti raffinati entro la fine dell’anno. Pertanto, massimizziamo la pressione sulla Russia, riducendo allo stesso tempo al minimo i danni collaterali a noi e ai nostri partner in tutto il mondo». La misura dell’embargo prevede una esenzione per Slovacchia e Ungheria, che dipendono rispettivamente per il 96% e per il 58% dal petrolio russo. Per questi due Paesi, lo stop all’import di petrolio da Mosca scatterebbe un anno dopo gli altri, alla fine del 2023. Come è inevitabile, però, a quel punto anche la Bulgaria, che dipende per il 90% dal petrolio russo, chiede di essere esentata: «Un conto è se si decide che tutti devono bloccare tutto», sottolinea il ministro delle Finanze bulgaro Assen Vassilev, «ma se ci saranno delle eccezioni chiederemo di farne parte». Si accoda anche la Repubblica Ceca. Perplessità anche sul divieto di trasporto del petrolio russo da parte di navi battenti bandiere europee. Gli ambasciatori si riuniscono, e alla fine del vertice il flop è ufficiale: niente accordo, il varo del sesto pacchetto di sanzioni è rinviato di 24 o 48 ore. La spiegazione di «fonti diplomatiche» vicine alla presidenza della Commissione è che il testo del pacchetto è stato consegnato agli Stati solo a tarda notte, e che quindi c’è bisogno di più tempo per esaminarlo. Una pietosa bugia, smentita pochi minuti dopo dal ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto: «L’Ungheria», dice in un video pubblicato su Facebook, «respinge la proposta di un graduale embargo europeo sul petrolio russo nella sua forma attuale, perché ritiene che tale misura distruggerebbe completamente la sicurezza energetica del paese. Il piano di Bruxelles», aggiunge l’esponente del governo di Budapest, «non può essere sostenuto nella sua forma attuale. Con tutta la responsabilità non possiamo votarlo. La consegna del petrolio russo, necessario per operare in Ungheria verrebbe vietata dalla fine del prossimo anno», sottolinea Szijjarto, una prospettiva a suo parere «inaccettabile». Il portavoce del governo di Budapest, Zoltan Kovacs, annuncia che l’Ungheria, nonostante la proroga di un anno che le sarebbe stata concessa, metterà il veto all’embargo sul petrolio russo: «L’Ue», dice Kovacs alla Bbc, «sa esattamente che quello che sta proponendo va contro gli interessi ungheresi e che se noi lo facciamo manderemo completamente in rovina l’economia ungherese». L’accordo nell’Ue c’è invece sulle sanzioni al patriarca ortodosso Kirill e sull’eliminazione dal sistema Swift di alcune banche russe, tra cui la Sberbank. La prende male il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba: «Se un Paese in Europa continua a opporsi all’embargo sul petrolio russo», attacca Kuleba, «ci saranno tutte le ragioni per dire che questo paese è complice dei crimini che la Russia sta commettendo in territorio ucraino». Vale la pena a questo punto riportare le parole di Wolfgang Schmidt, ministro federale tedesco per gli Affari speciali, che replicando a Galina Yanchenko, parlamentare ucraina che aveva accusato la Germania di non tagliare il gas russo, dice quello che tutti sanno ma quasi tutti dimenticano o fingono di dimenticare: «Diciamola tutta. Ogni giorno», sottolinea Schmidt, «il gas russo fluisce attraverso i gasdotti ucraini. Ogni giorno, il gas russo viene servito all’Ucraina. Quindi anche l’Ucraina non ha tagliato il gas russo». A proposito: ricorderete che la scorsa settimana la Russia ha bloccato il flusso di metano verso Polonia e Bulgaria, che non hanno pagato la fornitura in rubli. Da quel momento, la Polonia è stata rifornita di gas (russo, naturalmente) dalla Germania. Stando a quanto riferito ieri dal portavoce della compagnia energetica russa Gazprom, Sergej Kuprijanov, il 2 maggio scorso Berlino ha smesso di condividere il suo gas con Varsavia, che ora sta ricevendo metano (sempre russo) da Italia e Francia. «Siamo sempre aperti a nuove sanzioni contro la Russia», dice intanto il presidente degli Usa, Joe Biden, «parlerò con i leader del G7 questa settimana per vedere i prossimi passi da fare». «Gli Stati Uniti», spiega il segretario al tesoro, Janet Yellen, «hanno la capacità di imporre sanzioni forti perché il dollaro viene utilizzato ampiamente come valuta di riserva».
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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