Blitz al Leoncavallo, sgomberato dopo un’occupazione di tre decenni

- Il centro sociale, abusivo dal 1975, ha arrecato ai Cabassi, la famiglia proprietaria dello stabile, un danno di 30 milioni
- Nel frattempo, lo spazio autogestito incassava 500.000 euro l’anno senza fatturazione
Lo speciale contiene due articoli
Trenta milioni di euro: tanto sarebbe costata, secondo stime ufficiose e molto più realistiche dei 3 milioni fissati dalla Corte d’appello di Milano, la lunga occupazione del Leoncavallo alla famiglia Cabassi. Una cifra che rende l’idea di quanto abbia inciso, sul piano economico, la vicenda giudiziaria e politica più longeva delle occupazioni milanesi. Anche perché stiamo parlando di un bene collocato in una delle aree oggi più ambite per lo sviluppo immobiliare: a ridosso della Maggiolina, in quella cintura Nord che negli ultimi Pgt ha visto crescere valori, con un indice di edificabilità capace di sostenere interventi di rigenerazione dal profilo industriale-residenziale.
Per comprendere come si sia arrivati a un buco da 30 milioni bisogna tornare all’estate 1994. Dopo lo sgombero travagliato dalla sede di via Salomone, una sede temporanea dopo un altro sgombero in via Leoncavallo dove il centro fu fondato nel 1975, l’8 settembre il collettivo occupa l’ex cartiera di via Watteau, zona Greco, un complesso ampio e stratificato che nel tempo diventerà la «cittadella» del centro sociale. La proprietà è della L’Orologio srl, società della famiglia Cabassi, gruppo storico del mattone milanese. I Cabassi intraprendono la via maestra: si rivolgono ai giudici. Il 18 marzo 2003 il Tribunale di Milano condanna l’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo al rilascio; il 5 novembre 2004 la Corte d’appello conferma; il 2 settembre 2010 la Cassazione rende definitivo il titolo. Sul piano del diritto, la partita è chiusa. Sul terreno, invece, è appena cominciata.
Già il 24 dicembre 2004 la proprietà notifica il titolo in forma esecutiva e l’atto di precetto; l’11 marzo 2005 l’ufficiale giudiziario effettua il primo accesso. Il 26 maggio 2005 l’esecuzione si infrange contro due parole che torneranno come un ritornello per due decenni: opposizione degli occupanti e assenza della forza pubblica. A segnare la traiettoria è un verbale di coordinamento del 28 settembre 2005: si riporta che «lo sgombero forzoso potrebbe creare verosimilmente problemi di ordine pubblico». A sottoscriverlo è il prefetto di allora, Bruno Ferrante, nominato durante il governo Berlusconi II. Un anno dopo Ferrante sarà candidato sindaco del centrosinistra a Milano. La sovrapposizione fra il funzionario che, per ragioni di ordine pubblico, certifica l’impraticabilità dello sgombero e il candidato di quell’area politica che negli anni seguenti sosterrà la convivenza con l’occupazione pesa come un macigno su tutta la vicenda.
Da quel momento si apre la stagione dei rinvii. Nel gennaio 2011 il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza decide di mettere a disposizione le forze dell’ordine; a marzo, però, un nuovo verbale prende atto della necessità di un «rinvio lungo» per favorire un accordo tra Comune e proprietà. L’accordo non arriverà mai. Nel 2014, con la giunta Pisapia, s’affaccia l’ipotesi di una permuta: via Watteau al Comune, contropartite immobiliari ai Cabassi. Ma anche quella pista resta sulla carta.
Quando nel novembre 2024 la Corte d’appello condanna il ministero dell’Interno (quindi lo Stato e i cittadini italiani) a pagare 3.039.150 euro per non aver garantito la presenza della forza pubblica (30 euro al metro quadrato, per 10.130 metri quadrati e per dieci anni dal 2014), i giudici affermano un principio semplice: una sentenza non può restare inapplicata solo perché le autorità scelgono di rinviare lo sgombero. La somma stabilita è un risarcimento «forfettario», calcolato con criteri standard, che serve a dare un minimo riconoscimento senza entrare nei dettagli del mercato immobiliare. Ma chi conosce Milano e il settore edilizio sa che il danno reale è molto più alto, confermato anche dalle precedenti sentenze. In 30 anni i Cabassi non hanno potuto affittare, vendere o trasformare quell’area, che si trova in una zona vicina alla Maggiolina, una delle più interessanti dal punto di vista urbanistico. Non solo: il fatto stesso che l’immobile sia rimasto occupato così a lungo (con persino un vincolo della sovrintendenza per i murales all’interno) lo ha reso meno appetibile e ha bruciato occasioni di sviluppo. Per questo, tra gli operatori immobiliari circolano stime più pesanti: non 3, ma circa 30 milioni di euro di perdita. In pratica, l’equivalente di un intero progetto di riqualificazione urbana. Anche perché l’area, se fosse stata disponibile e valorizzata a prezzi di mercato residenziali, avrebbe oggi un valore compreso fra 50 e 55 milioni di euro.
Alla fine, si è arrivati all’estate del 2025. Dopo oltre 130 rinvii, ieri, il 21 agosto, alle prime ore del mattino, la polizia ha eseguito lo sgombero. Trentun anni dopo l’ingresso in via Watteau, 15 anni dopo la Cassazione, con i Cabassi che hanno collezionato verbali, rinvii e cause senza mai rientrare in possesso del loro bene. Il buco politico è enorme: né Giuliano Pisapia né Beppe Sala, in oltre dieci anni di giunte di centrosinistra, nonostante ci fosse anche una certa affinità politica con parte degli occupanti, hanno saputo o voluto risolvere la questione.
Come anticipato dalla Verità, le carte dell’inchiesta urbanistica avevano già mostrato messaggi e cautele dentro Palazzo Marino. Il tema Leoncavallo compare già nel novembre 2021, quando il dg Christian Malangone scrive all’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi sull’ipotesi di un accordo con i Cabassi, seguito dalla Prefettura. Nel 2022 Tancredi mette a verbale la sua linea: niente riconoscimento diretto di interesse pubblico. Dopo la condanna del novembre 2024, Tancredi accelera: teme fughe di notizie e propone la ricollocazione in una cascina, indicando Nosedo. Nei messaggi con Malangone insiste per «risolvere un problema», chiede un feedback a Daniele Farina (storico leader e già parlamentare) e un incontro col prefetto entro Natale. Un compromesso cercato fuori tempo massimo.






