2025-08-21
Blitz al Leoncavallo, sgomberato dopo un’occupazione di tre decenni
Il centro sociale, abusivo dal 1975, ha arrecato ai Cabassi, la famiglia proprietaria dello stabile, un danno di 30 milioniNel frattempo, lo spazio autogestito incassava 500.000 euro l’anno senza fatturazioneLo speciale contiene due articoliTrenta milioni di euro: tanto sarebbe costata, secondo stime ufficiose e molto più realistiche dei 3 milioni fissati dalla Corte d’appello di Milano, la lunga occupazione del Leoncavallo alla famiglia Cabassi. Una cifra che rende l’idea di quanto abbia inciso, sul piano economico, la vicenda giudiziaria e politica più longeva delle occupazioni milanesi. Anche perché stiamo parlando di un bene collocato in una delle aree oggi più ambite per lo sviluppo immobiliare: a ridosso della Maggiolina, in quella cintura Nord che negli ultimi Pgt ha visto crescere valori, con un indice di edificabilità capace di sostenere interventi di rigenerazione dal profilo industriale-residenziale.Per comprendere come si sia arrivati a un buco da 30 milioni bisogna tornare all’estate 1994. Dopo lo sgombero travagliato dalla sede di via Salomone, una sede temporanea dopo un altro sgombero in via Leoncavallo dove il centro fu fondato nel 1975, l’8 settembre il collettivo occupa l’ex cartiera di via Watteau, zona Greco, un complesso ampio e stratificato che nel tempo diventerà la «cittadella» del centro sociale. La proprietà è della L’Orologio srl, società della famiglia Cabassi, gruppo storico del mattone milanese. I Cabassi intraprendono la via maestra: si rivolgono ai giudici. Il 18 marzo 2003 il Tribunale di Milano condanna l’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo al rilascio; il 5 novembre 2004 la Corte d’appello conferma; il 2 settembre 2010 la Cassazione rende definitivo il titolo. Sul piano del diritto, la partita è chiusa. Sul terreno, invece, è appena cominciata.Già il 24 dicembre 2004 la proprietà notifica il titolo in forma esecutiva e l’atto di precetto; l’11 marzo 2005 l’ufficiale giudiziario effettua il primo accesso. Il 26 maggio 2005 l’esecuzione si infrange contro due parole che torneranno come un ritornello per due decenni: opposizione degli occupanti e assenza della forza pubblica. A segnare la traiettoria è un verbale di coordinamento del 28 settembre 2005: si riporta che «lo sgombero forzoso potrebbe creare verosimilmente problemi di ordine pubblico». A sottoscriverlo è il prefetto di allora, Bruno Ferrante, nominato durante il governo Berlusconi II. Un anno dopo Ferrante sarà candidato sindaco del centrosinistra a Milano. La sovrapposizione fra il funzionario che, per ragioni di ordine pubblico, certifica l’impraticabilità dello sgombero e il candidato di quell’area politica che negli anni seguenti sosterrà la convivenza con l’occupazione pesa come un macigno su tutta la vicenda.Da quel momento si apre la stagione dei rinvii. Nel gennaio 2011 il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza decide di mettere a disposizione le forze dell’ordine; a marzo, però, un nuovo verbale prende atto della necessità di un «rinvio lungo» per favorire un accordo tra Comune e proprietà. L’accordo non arriverà mai. Nel 2014, con la giunta Pisapia, s’affaccia l’ipotesi di una permuta: via Watteau al Comune, contropartite immobiliari ai Cabassi. Ma anche quella pista resta sulla carta. Quando nel novembre 2024 la Corte d’appello condanna il ministero dell’Interno (quindi lo Stato e i cittadini italiani) a pagare 3.039.150 euro per non aver garantito la presenza della forza pubblica (30 euro al metro quadrato, per 10.130 metri quadrati e per dieci anni dal 2014), i giudici affermano un principio semplice: una sentenza non può restare inapplicata solo perché le autorità scelgono di rinviare lo sgombero. La somma stabilita è un risarcimento «forfettario», calcolato con criteri standard, che serve a dare un minimo riconoscimento senza entrare nei dettagli del mercato immobiliare. Ma chi conosce Milano e il settore edilizio sa che il danno reale è molto più alto, confermato anche dalle precedenti sentenze. In 30 anni i Cabassi non hanno potuto affittare, vendere o trasformare quell’area, che si trova in una zona vicina alla Maggiolina, una delle più interessanti dal punto di vista urbanistico. Non solo: il fatto stesso che l’immobile sia rimasto occupato così a lungo (con persino un vincolo della sovrintendenza per i murales all’interno) lo ha reso meno appetibile e ha bruciato occasioni di sviluppo. Per questo, tra gli operatori immobiliari circolano stime più pesanti: non 3, ma circa 30 milioni di euro di perdita. In pratica, l’equivalente di un intero progetto di riqualificazione urbana. Anche perché l’area, se fosse stata disponibile e valorizzata a prezzi di mercato residenziali, avrebbe oggi un valore compreso fra 50 e 55 milioni di euro.Alla fine, si è arrivati all’estate del 2025. Dopo oltre 130 rinvii, ieri, il 21 agosto, alle prime ore del mattino, la polizia ha eseguito lo sgombero. Trentun anni dopo l’ingresso in via Watteau, 15 anni dopo la Cassazione, con i Cabassi che hanno collezionato verbali, rinvii e cause senza mai rientrare in possesso del loro bene. Il buco politico è enorme: né Giuliano Pisapia né Beppe Sala, in oltre dieci anni di giunte di centrosinistra, nonostante ci fosse anche una certa affinità politica con parte degli occupanti, hanno saputo o voluto risolvere la questione.Come anticipato dalla Verità, le carte dell’inchiesta urbanistica avevano già mostrato messaggi e cautele dentro Palazzo Marino. Il tema Leoncavallo compare già nel novembre 2021, quando il dg Christian Malangone scrive all’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi sull’ipotesi di un accordo con i Cabassi, seguito dalla Prefettura. Nel 2022 Tancredi mette a verbale la sua linea: niente riconoscimento diretto di interesse pubblico. Dopo la condanna del novembre 2024, Tancredi accelera: teme fughe di notizie e propone la ricollocazione in una cascina, indicando Nosedo. Nei messaggi con Malangone insiste per «risolvere un problema», chiede un feedback a Daniele Farina (storico leader e già parlamentare) e un incontro col prefetto entro Natale. Un compromesso cercato fuori tempo massimo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/blitz-al-leoncavallo-sgomberato-dopo-unoccupazione-di-tre-decenni-2673909120.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="particle-1" data-post-id="2673909120" data-published-at="1755809166" data-use-pagination="False"> Milano si è svegliata con un paradosso: il Leoncavallo, occupato da 31 anni, è stato sgomberato all’alba, ma il sindaco Beppe Sala si è lamentato di «non essere stato avvisato» in tempo dalla Prefettura. Eppure, pochi giorni prima, parlando del campo rom di via Selvanesco, proprio il primo cittadino aveva ricordato lui stesso come la competenza sugli sgomberi fosse del Viminale e dello stesso prefetto. E ancora più sorprendente è lo scarto con le parole di chi, al Leoncavallo, ha speso la vita: le Mamme antifasciste, memoria storica del centro, hanno detto apertamente che si aspettavano lo sfratto, solo che speravano avvenisse a settembre. Loro non si illudevano, il sindaco forse sì, dal momento che le sue promesse di regolarizzare lo spazio sono rimaste solo sulla carta.E così, da un lato il Viminale ripristina una legalità attesa da decenni: «Per 30 anni quell’immobile è stato occupato abusivamente. E al danno si è aggiunta la beffa: lo Stato costretto persino a risarcire i danni dell’occupazione. Oggi finalmente viene ristabilita la legalità», spiega il ministro Matteo Piantedosi. Dall’altro, Palazzo Marino, che mercoledì era presente al Comitato per l’ordine e la sicurezza con un delegato, sostiene che nella riunione non si sia fatto «alcun cenno» allo sfratto esecutivo. Quando è arrivato il momento di decidere, lo Stato c’era. Il Comune no.Qui sta la contraddizione che rende la vicenda milanese più che un fatto di ordine pubblico. Perché, se è vero che il Leoncavallo è anche un pezzo di storia sociale - e in questi mesi l’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi, nelle conversazioni finite agli atti del Riesame, riconosceva come la struttura fosse «molto diversa da quella di anni fa» e ragionava di una ricollocazione «protetta» - è altrettanto vero che negli ultimi 15 anni (con ben due giunte di centrosinistra) il Comune non abbia mai portato a termine un percorso di regolarizzazione. Si è affacciata l’idea dell’asservimento urbanistico per «indirizzare» un bando, si è persino cercata una cascina alternativa (Nosedo), si è fatto cenno a via San Dionigi e si è parlato di un accordo con i Cabassi. Ma nulla è stato formalizzato. Alla fine, l’unica decisione è arrivata dai giudici prima e dal Viminale poi. Il punto è che un’amministrazione può decidere di accompagnare una transizione, oppure subirla. A Zurigo, per esempio, la Rote Fabrik nacque tra le occupazioni ai tempi di Züri brännt (gli scontri degli anni Ottanata), ma fu trasformata in centro culturale con un percorso politico trasparente, sostegni pubblici e un referendum che ne blindò il futuro. Oggi è un’istituzione: programmazione, contratti, contributi della città, regole chiare. Il Leoncavallo in questi anni, secondo un dossier di Fratelli d’Italia, ha incassato 500.000 euro di entrate annue senza fatturazione. Concerti e feste a pagamento sono stati portati avanti senza licenze, Siae o autorizzazioni Asl. Tra ristoranti e bar in nero. Proprio per questo il Comune avrebbe dovuto scegliere anni fa: o un percorso di regolarizzazione con regole o la linea d’ordine pubblico che non lasciasse appigli. Ha scelto, invece, di tenere tutto in equilibrio: un dialogo permanente (utile per i voti alle elezioni) senza un risultato. E allora il conto politico ricade su chi governa la città. «Sala non sapeva dello sgombero? Da chi non vede i grattacieli “cresciuti” a Milano non c’è da aspettarsi che veda un’operazione di polizia», ricorda il deputato di Fdi Riccardo De Corato. Per Enrico Marcora, di Fdi, «Sala si conferma il peggior sindaco di Milano dal dopoguerra». Nel frattempo, gli attivisti fanno sapere che è prevista una manifestazione nazionale in difesa del Leoncavallo. L’ipotesi è per sabato 6 settembre.
Xi Jinping (Getty Images)
(Guardia di Finanza)
Coordinati dall'EPPO (Procura europea) di Bologna, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Prato hanno dato esecuzione a provvedimenti emessi dai Tribunali di Ferrara e Trani, indirizzati a colpire un’associazione criminale dedicata alla vendita di auto di lusso di origine tedesca. Il profitto del reato ricostruito dalle Fiamme Gialle pratesi ammonta complessivamente a circa 43 milioni di euro, cifra confermata dagli organi giudicanti nell’ambito delle ordinanze che hanno disposto l’applicazione di misure cautelari reali sui capitali sociali di 8 società, 7 appezzamenti di terreno, 3 immobili residenziali, un concessionario auto, 41 automobili (tra le quali spiccano Ferrari, Lamborghini e Porsche) per un valore di mercato complessivo di circa 3,5 milioni di euro ed oltre 50 conti bancari con disponibilità liquide complessive, al momento, di oltre € 1,2 milioni di euro. Contestualmente alla notifica dei provvedimenti sono state eseguite perquisizioni locali di oltre 15 siti tra residenze, sedi di imprese attive ed altre unità locali nella disponibilità degli indagati.
Le attività investigative condotte dai Finanzieri del Gruppo di Prato sono partite da un esposto presentato da un cliente che lamentava difficoltà nelle pratiche dell’immatricolazione di un'auto usata acquistata tramite un concessionario multimarca da un venditore tedesco. Le preliminari prove raccolte hanno permesso di individuare l’esistenza di un contesto criminale di proporzioni ben più ampie, tali da interessare l’area di competenza della Procura Europea. Sotto la direzione della citata autorità sono stati svolti accertamenti di polizia giudiziaria, con esecuzione di intercettazioni telefoniche, indagini bancarie, perquisizioni presso agenzie di pratiche auto, ricostruzione dei flussi di vendita di oltre 1.700 automobili, oltre ad iniziative di cooperazione internazionale con le autorità tedesche e lo sviluppo di indagini transfrontaliere. Il quadro probatorio ha evidenziato l’esistenza di un sistema profondamente organizzato di raccolta degli ordini di acquisto tramite concessionarie multimarca compiacenti, l’individuazione dei veicoli «target» presso grandi rivenditori di usato tedeschi e la definizione di pratiche di importazione tali da permettere l’immatricolazione in Italia dei veicoli senza il pagamento dell’IVA, ricorrendo a società di comodo estere, intestate a prestanome e flussi di falsa fatturazione.
Inoltre, per rendere ulteriormente difficoltosa la riconducibilità dello schema evasivo alle concessionarie coinvolte, gli indagati hanno escogitato schemi di periodica cessazione e riapertura delle partite IVA usate per l’acquisto delle auto, senza tuttavia variare l’ubicazione degli showroom e l’insegna commerciale utilizzata, così da continuare a beneficiare della visibilità commerciale acquisita nel tempo.
Il risparmio fiscale indebitamente realizzato costituiva la base per l’attuazione di strategie di pricing aggressivo, immettendo nel mercato vetture di fascia alta e medio-alta a prezzi molto concorrenziali.
Il castello accusatorio composto dai Finanzieri di Prato, sotto il coordinamento della Procura Europea di Bologna si è tradotto in due richieste di adozione di misure cautelari reali trasmesse ai competenti tribunali di Ferrara e Trani. Le autorità interessate hanno condiviso totalmente le tesi accusatorie formulate restituendo due provvedimenti di sequestro finalizzati alla confisca per un importo complessivo di circa 43 milioni di euro, la cui esecuzione è stata accompagnata da mirate attività di perquisizione domiciliare a carico degli indagati e delle sedi delle imprese coinvolte.
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