2025-10-06
«L’utopia come tensione al bene può ancora salvare l’Occidente»
Carlo Altini, professore di storia della filosofia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e direttore scientifico della Fondazione San Carlo di Modena
Carlo Altini, professore di storia della filosofia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia: «L’idea di costruire paradisi in terra, come ci ha insegnato il Novecento, sfocia in esiti totalitari. Tuttavia, è altrettanto sbagliato vivere ripiegati sul presente».Il Novecento più di ogni altro secolo ci ha mostrato l’orrore che può scaturire dal tentativo di creare il paradiso in terra. Le utopie di ogni colore si sono trasformate in inferni allucinanti, le strade lastricate di buone intenzioni e di sogni di benessere si sono presto coperte di sangue. Perfino l’utopia liberale e democratica della globalizzazione che avrebbe dovuto condurre alla fine della storia e al benessere globale sta mostrando da qualche tempo il suo lato più oscuro. Quanto all’ultima delle utopie, la rivoluzione tecnologica, è fin troppo scoperta nei suoi aspetti distopici e dispotici, che si manifestano soprattutto attraverso un asfissiante controllo sociale. Ma è possibile salvare qualcosa della spinta utopica? Forse sì. Carlo Altini insegna storia della filosofia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia ed è direttore scientifico della Fondazione San Carlo di Modena. Il suo nuovo libro edito da Carocci e intitolato Altri mondi. Utopie e distopie da Spinoza a Christopher Nolan si imbarca in una missione coraggiosa, nel tentativo cioè di non gettare il bambino con l’acqua sporca. Altini racconta le più grandi utopie di ogni tempo, ne scova anche qualcuna inaspettata (ad esempio quella naturalistico-spirituale proposta da Jack Kerouac in Big Sur) e tenta di trarne una lezione importante. Il sogno del paradiso in terra è pericolosissimo, ma dell’utopia si può forse conservare la forza propositiva, il fuoco della speranza che può muovere il cambiamento sociale.Professor Altini, iniziamo a delimitare il campo. Che cosa è l’utopia?«Devo dire che la lezione di Tommaso Moro non è passata, il tempo trascorso dal 1516 a oggi secondo me non ha tolto brillantezza alla sua definizione. Utopia è una parola inventata appunto da Moro nel 1516, che presenta una ambiguità tra eutopos o outopos. Eutopos il luogo del bene, outopos il luogo che non esiste. Quindi ci sono insieme queste due esperienze. Però vorrei evitare di pensare all’utopia come a una fantasticheria, al castello in aria, non è questo, questa è un’interpretazione volgare. L’utopia è ciò che ha a che vedere con le dimensioni più importanti della nostra esistenza umana: la speranza, l’amore, la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, che sono luoghi del bene. Sono questi i temi - che magari non sono mai esistiti fino in fondo nella nostra realtà quotidiana - che muovono la nostra esistenza individuale e sociale». Il luogo del bene è anche un luogo che non esiste. Sembra che dentro la parola ci sia già il seme del fallimento dell’utopia: un luogo che non solo non esiste ma non può esistere, che è lontano dalla realtà e dunque artificiale.«Certo, e l’utopia è stata in parte anche questo, e nel mio libro non lo nascondo. Il punto di partenza è che noi dobbiamo assolutamente essere consapevoli che come ogni impresa umana, anche quella di costruire una società migliore può volgersi nel suo esatto contrario. L’idea di costruire paradisi in terra è in qualche modo destinata al fallimento. Io sono fin da giovane uno studioso dell’opera di Leo Strauss, cioè un critico della secolarizzazione, un critico del messianismo secolarizzato. Quindi penso che ogni tentativo di realizzare il paradiso in terra sia sicuramente destinato al fallimento, ma questo non ci deve però far volgere gli occhi sull’esatto opposto, sul cinismo o sul cinismo politico, per cui tutto ciò che è reale è dato ora e per sempre. Dell’utopia credo che noi dobbiamo ovviamente eliminare l’aspetto distopico, cioè non credere di realizzare il paradiso in terra. L’abbiamo visto troppe volte, nel Novecento e anche recentemente: tutti i tentativi di realizzare il paradiso in terra creano dimensioni distopiche, totalitarie e autoritarie. Allo stesso tempo però non possiamo vivere solo ed esclusivamente ripiegati su ciò che è dato qui e ora come se fosse l’assoluto, perché questo è altrettanto sbagliato. Dell’utopia dobbiamo cogliere gli aspetti che ci spingono a pensare l’alterità, la diversità, senza però credere di essere onnipotenti, ecco questo assolutamente no». Tra le altre, lei cita due opere importanti: La città del Sole di Tommaso Campanella, scritta nei primi anni del Seicento, e poi L’anno 2440 di Louis-Sebastien Mercier, che risale al 1770. La prima immagina una sorta di teocrazia, la seconda proviene dal retroterra illuminista e dunque prospetta il dominio della ragione. In entrambi i casi troviamo limitazioni pesantissime dalla libertà di stampa, censura, compressione delle libertà individuali... Da due retroterra diversi si arriva allo stesso approdo totalitario, che sembra una costante di molte utopie. «Sì, in molte di queste opere l’approdo è chiaramente totalitario, infatti ripeto, il mio tentativo in questo libro non è quello di rivalutare le utopie del passato. Le utopie spesso e volentieri hanno prodotto, effetti contrari a quelli a cui miravano. In molte delle utopie di cui ho scritto io per primo non vorrei vivere. Le ricadute totalitarie senza dubbio ci sono state, però la valutazione storica deve essere onesta».Cioè?«Deve considerare che molte di queste opere utopiche avevano le migliori intenzioni, cioè quelle di promuovere spazi di giustizia sociale, di libertà, di uguaglianza. Lei ha citato giustamente l’opera di Mercier nel 1770, è chiaro che io non vorrei vivere nella Parigi del 2440 che lui delinea. Ma in realtà il punto di partenza da cui muove Mercier è la corruzione, è l’ingiustizia, è la miseria, è la povertà della Parigi del 1770 che lui ha sotto i suoi occhi. Quindi dobbiamo essere onesti e dire sì, è vero, gli esiti delle utopie sicuramente sono totalitari, ma la società che gli utopisti hanno sotto i loro occhi non è certo il migliore dei possibili».Insomma in tutte le utopie c’è un elemento di critica sociale che va salvato. «Assolutamente sì, la critica sociale è ciò che muove l’utopia». Veniamo all’oggi. Apparentemente viviamo in una società che, come lei scrive, sta nell’eterno presente, non guarda al futuro, anzi se guarda al futuro lo fa con un certo scoramento. Una società in cui le grandi narrazioni o le ideologie sembrano tramontate. Eppure, osservando meglio, notiamo che ci troviamo all’interno di una sorta di utopia che è quella tecnologica. La rivoluzione digitale promette un paradiso in terra creato grazie all’innovazione, al progresso...«Certo. La realizzazione diciamo meccanica delle utopie non produce altro che distopie, questo vale anche e soprattutto per la nostra società digitale. Vorrei citare un altro pensatore che nel Novecento si è occupato dei processi di globalizzazione, ovvero Alexandre Kojéve. Mi riferisco all’idea di stato universale e omogeneo, che egli definiva come la fine della storia: una realtà globale all’interno della quale tutti i cittadini del mondo si sarebbero ritenuti soddisfatti. Questa utopia a mio parere però non è altro che una distopia». Ed è il caso della rivoluzione digitale?«Sì. L’innovazione digitale ci fa pensare di vivere in un paradiso terrestre in cui accendendo il nostro computer possiamo viaggiare, ordinare beni da tutte le parti del mondo, cambiare il nostro aspetto estetico... A me questo non sembra l’esito di un’utopia buona, sembra davvero il rovesciamento di un’utopia in una distopia. La caratteristica della nostra contemporaneità mi sembra questa: manca l’elemento di critica sociale. Mentre in passato le ingiustizie, la povertà, la miseria erano evidenti ed erano il motore dell’utopia che poi magari si trasformava in distopia, oggi manca questo elemento di critica sociale. Sto parlando ovviamente dell’Occidente in cui tutti sostanzialmente ci sentiamo soddisfatti e riconosciuti. Bene o male abbiamo delle possibilità economiche che non ci impediscono di realizzare i nostri desideri narcisistici, soprattutto attraverso il digitale. E questo rende impossibile una critica sociale, una critica della tirannide tecnologica contemporanea. Questo mi sembra il dato che differenzia la nostra trasformazione da utopia in distopia oggi rispetto all’Ottocento o al Settecento».Il pensiero di Kojéve e l’idea della fine della storia erano al centro del famosissimo libro di Francis Fukuyama, molto citato e forse poco letto, che in qualche modo è diventato il vessillo di un altro tentativo utopico, quello della conclusione della storia, della sua evaporazione nel nuovo ordine americano, nella globalizzazione. Ecco, la globalizzazione è stata in effetti una grande utopia, che forse si sta rivelando una distopia. «Sì. Era l’utopia dell’avvento della democrazia liberale a livello planetario e questo purtroppo non si è realizzato. È bastato aspettare il 2001, le Torri Gemelle... Samuel Huntington aveva già sottolineato aspetti che facevano intravedere come la dimensione del conflitto politico non fosse eliminata dall’avvento della globalizzazione liberale democratica. Ancora oggi noi viviamo in un contesto in cui la globalizzazione domina imperterrita, perché i processi globali certamente si sono modificati rispetto all’epoca pre Covid, ma continuano a esistere. Quello che non si è realizzato è il fatto che i governi del mondo diventassero democrazie liberali. Al contrario, mi sembra che attualmente le democrazie liberali siano in grande recessione rispetto a molti anni fa, perché rivediamo crisi al di qua e al di là dell’Atlantico, crisi che sono piuttosto evidenti agli occhi di tutti. Siamo in questo momento all’interno di un’utopia globale che però non prevede gli spazi delle libertà civili, politiche, economiche, sociali, culturali, su cui con grande fatica e attraverso grandi tragedie l’Occidente per secoli ha cercato di muoversi». Possiamo, in conclusione, dire che il lato migliore dell’utopia sia quello della tensione? Cioè se l’utopia diventa e rimane una tensione al miglioramento sociale, alla speranza nel futuro, allora ha una forza positiva?«È questa l’idea. Il fatto che l’utopia è un potente antidoto a ogni forma di naturalizzazione dell’esistente, soprattutto nella nostra epoca in cui in questa connessione tra globale e digitale ci fa pensare di aver costruito la società migliore. Non credo che questo sia accaduto, non credo che viviamo nella società migliore. Anzi probabilmente la società migliore non esiste in terra. Ma l’utopia ci richiama al fatto che noi non dobbiamo dare per scontate queste forme di naturalizzazione, credo che questo sia il suo grande valore. È chiaro che l’utopia presa da questo punto di vista diventa più critica sociale, e non qualcosa che rinvia alla realizzazione del paradiso in terra, perché altrimenti la possibilità della trasformazione in distopia è dietro l’angolo».
Francesco Paolo Capone (Imagoeconomica)
Silvia Sardone (Imagoeconomica)
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