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2019-02-21
Sanders torna a gareggiare per la Casa Bianca e pensa di vestire i panni del populista
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Ansa
All'epoca, Sanders si era candidato senza troppo scalpore. Tantissimi analisti lo ritenevano nulla di più che un estremista invasato, perso in avulse discussioni sui massimi sistemi. Si dovettero ricredere. L'arzillo senatore dimostrò di avere una formidabile abilità dal punto di vista organizzativo: dalla raccolta fondi alla gestione della comunicazione. Improvvisamente quel vecchietto balzano che amava (e ama tutt'ora) definirsi «socialista» ha iniziato a vincere svariate competizioni elettorali nel corso delle primarie, destando preoccupazione tra le alte sfere del Partito democratico. Un campanello d'allarme pericolosissimo per la front runner, Hillary Clinton, che era partita credendo di avere (non senza una certa sicumera) la nomination già in tasca. E – guarda caso – i vertici dell'Asinello decisero di intervenire attraverso metodi non esattamente ortodossi: come hanno dimostrato le rivelazioni diffuse dalla piattaforma Wikileaks nel 2016, il comitato nazionale del partito mise deliberatamente i bastoni tra le ruote alla campagna elettorale del senatore. Tanto che – una volta venuto alla luce lo scandalo – l'allora presidentessa del partito, Debbie Wasserman Schultz, fu costretta alle dimissioni. Alla fine ci fu comunque ben poco da fare. Hillary vinse la nomination e decise di puntare al centro, ignorando di fatto le battaglie sandersiane contro lo strapotere di Wall Street e i trattati internazionali di libero scambio. Battaglie che fu, al contrario, Trump ad intestarsi, riuscendo così a conquistare la Casa Bianca nel novembre di quell'anno.
La strada di Sanders oggi non è esattamente in discesa. La sua strategia è indubbiamente quella di volersi presentare, ancora una volta, come la bandiera in grado di federare l'intera sinistra dem. Strategia al momento assai ardua da realizzare: rispetto al 2016, infatti, i candidati che ambiscono a rappresentare quel mondo sono già al momento numerosissimi. Un elemento che prevedibilmente finirà col disarticolare il fronte radicale: fronte che potrebbe quindi dividersi, smarrendosi dietro a una miriade di leader rissosi. La situazione interna al Partito democratico è attualmente abbastanza caotica: il centro latita, mentre la sinistra risulta sovrarappresentata. Sovrarappresentata assai spesso da fighetti settari e aleatori, più interessati alle pose mediatiche che ai problemi concreti degli elettori. Sanders – che di limiti ne ha tanti – ha comunque sempre avuto il merito di aver compreso come la debacle di Hillary fosse principalmente dovuta al fatto che la classe operaia della rust belt avesse abbandonato il Partito democratico, per passare tra le file di Trump. Eppure, nonostante la correttezza di quest'analisi, tutto ciò potrebbe non bastare per emergere dalla pletora dei suoi vanitosi (e spesso inconcludenti) avversari, in un contesto mediatico – quello americano – sempre più schiacciato su questioni a dir poco desolanti: le pornostar di Trump, gli hacker russi, il politically correct e via dicendo. Senza poi trascurare un ulteriore elemento interessante: come già parzialmente affermato, è stato proprio l'attuale presidente ad intestarsi alcune battaglie storicamente vicine alla sinistra dem. Dal protezionismo economico alle riforme infrastrutturali. Fattori che mettono inevitabilmente in difficoltà una candidatura come quella di Sanders, che – pur risultando politicamente più solido dei suoi competitor – si ritrova evidentemente con margini di manovra piuttosto stretti.
Infine, c'è un ulteriore aspetto da sottolineare. Quello che sta accadendo nel Partito democratico americano evidenzia una vera e propria chiamata alle armi di quell'area che i media hanno spesso definito "populista": non solo Bernie Sanders ma anche altri candidati (come la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar) risultano strenui avversari dell'alta finanza, oppositori dei trattati internazionali di libero scambio e tendenzialmente isolazionisti in politica estera. Segno di come – pur con tutti i suoi limiti – l'esempio dato dallo stesso Sanders nel 2016 ha portato una parte crescente dell'Asinello a spostarsi su posizioni politiche ed economiche sempre più lontane dalla "presentabilissima" terza via di clintoniana memoria. Insomma pare proprio che, al di là dell'oceano, si stia iniziando a capire che la classe operaia vada elettoralmente recuperata e non considerata un'anticaglia inesorabilmente fagocitata dalla storia. Certo: l'Asinello ci ha messo un po' a capirlo e non è detto che gli sia ancora del tutto chiaro. Ma qualcosa si sta muovendo. E il vituperato populismo non sembra più adesso una parolaccia. Un fattore – questo – che, del resto, sta caratterizzando anche gran parte della sinistra europea. Meno che in Italia. Il Partito democratico resta infatti ben aggrappato all'elitismo pariolino, mentre il suo garrulo ex segretario ha pochi giorni fa rivendicato di appartenere con orgoglio alla tradizione dei Clinton e dei Blair. Quando il mondo gira ormai completamente da un'altra parte. Auguri vivissimi.
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Riduci
Bernie Sanders colpisce ancora. Con una tigna non indifferente, il senatore del Vermont ha annunciato ieri la sua candidatura alla nomination democratica del 2020. Lo ha fatto, pronunciando parole durissime, con cui ha definito il presidente americano, Donald Trump, un «razzista» e un «bugiardo». Una sfida in piena regola. Una sfida che punta alla conquista della Casa Bianca, dopo il tentativo fallito del 2016. Stavolta intestandosi le battaglie contro le elite. All'epoca, Sanders si era candidato senza troppo scalpore. Tantissimi analisti lo ritenevano nulla di più che un estremista invasato, perso in avulse discussioni sui massimi sistemi. Si dovettero ricredere. L'arzillo senatore dimostrò di avere una formidabile abilità dal punto di vista organizzativo: dalla raccolta fondi alla gestione della comunicazione. Improvvisamente quel vecchietto balzano che amava (e ama tutt'ora) definirsi «socialista» ha iniziato a vincere svariate competizioni elettorali nel corso delle primarie, destando preoccupazione tra le alte sfere del Partito democratico. Un campanello d'allarme pericolosissimo per la front runner, Hillary Clinton, che era partita credendo di avere (non senza una certa sicumera) la nomination già in tasca. E – guarda caso – i vertici dell'Asinello decisero di intervenire attraverso metodi non esattamente ortodossi: come hanno dimostrato le rivelazioni diffuse dalla piattaforma Wikileaks nel 2016, il comitato nazionale del partito mise deliberatamente i bastoni tra le ruote alla campagna elettorale del senatore. Tanto che – una volta venuto alla luce lo scandalo – l'allora presidentessa del partito, Debbie Wasserman Schultz, fu costretta alle dimissioni. Alla fine ci fu comunque ben poco da fare. Hillary vinse la nomination e decise di puntare al centro, ignorando di fatto le battaglie sandersiane contro lo strapotere di Wall Street e i trattati internazionali di libero scambio. Battaglie che fu, al contrario, Trump ad intestarsi, riuscendo così a conquistare la Casa Bianca nel novembre di quell'anno.La strada di Sanders oggi non è esattamente in discesa. La sua strategia è indubbiamente quella di volersi presentare, ancora una volta, come la bandiera in grado di federare l'intera sinistra dem. Strategia al momento assai ardua da realizzare: rispetto al 2016, infatti, i candidati che ambiscono a rappresentare quel mondo sono già al momento numerosissimi. Un elemento che prevedibilmente finirà col disarticolare il fronte radicale: fronte che potrebbe quindi dividersi, smarrendosi dietro a una miriade di leader rissosi. La situazione interna al Partito democratico è attualmente abbastanza caotica: il centro latita, mentre la sinistra risulta sovrarappresentata. Sovrarappresentata assai spesso da fighetti settari e aleatori, più interessati alle pose mediatiche che ai problemi concreti degli elettori. Sanders – che di limiti ne ha tanti – ha comunque sempre avuto il merito di aver compreso come la debacle di Hillary fosse principalmente dovuta al fatto che la classe operaia della rust belt avesse abbandonato il Partito democratico, per passare tra le file di Trump. Eppure, nonostante la correttezza di quest'analisi, tutto ciò potrebbe non bastare per emergere dalla pletora dei suoi vanitosi (e spesso inconcludenti) avversari, in un contesto mediatico – quello americano – sempre più schiacciato su questioni a dir poco desolanti: le pornostar di Trump, gli hacker russi, il politically correct e via dicendo. Senza poi trascurare un ulteriore elemento interessante: come già parzialmente affermato, è stato proprio l'attuale presidente ad intestarsi alcune battaglie storicamente vicine alla sinistra dem. Dal protezionismo economico alle riforme infrastrutturali. Fattori che mettono inevitabilmente in difficoltà una candidatura come quella di Sanders, che – pur risultando politicamente più solido dei suoi competitor – si ritrova evidentemente con margini di manovra piuttosto stretti.Infine, c'è un ulteriore aspetto da sottolineare. Quello che sta accadendo nel Partito democratico americano evidenzia una vera e propria chiamata alle armi di quell'area che i media hanno spesso definito "populista": non solo Bernie Sanders ma anche altri candidati (come la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar) risultano strenui avversari dell'alta finanza, oppositori dei trattati internazionali di libero scambio e tendenzialmente isolazionisti in politica estera. Segno di come – pur con tutti i suoi limiti – l'esempio dato dallo stesso Sanders nel 2016 ha portato una parte crescente dell'Asinello a spostarsi su posizioni politiche ed economiche sempre più lontane dalla "presentabilissima" terza via di clintoniana memoria. Insomma pare proprio che, al di là dell'oceano, si stia iniziando a capire che la classe operaia vada elettoralmente recuperata e non considerata un'anticaglia inesorabilmente fagocitata dalla storia. Certo: l'Asinello ci ha messo un po' a capirlo e non è detto che gli sia ancora del tutto chiaro. Ma qualcosa si sta muovendo. E il vituperato populismo non sembra più adesso una parolaccia. Un fattore – questo – che, del resto, sta caratterizzando anche gran parte della sinistra europea. Meno che in Italia. Il Partito democratico resta infatti ben aggrappato all'elitismo pariolino, mentre il suo garrulo ex segretario ha pochi giorni fa rivendicato di appartenere con orgoglio alla tradizione dei Clinton e dei Blair. Quando il mondo gira ormai completamente da un'altra parte. Auguri vivissimi.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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