2019-02-21
Sanders torna a gareggiare per la Casa Bianca e pensa di vestire i panni del populista
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Bernie Sanders colpisce ancora. Con una tigna non indifferente, il senatore del Vermont ha annunciato ieri la sua candidatura alla nomination democratica del 2020. Lo ha fatto, pronunciando parole durissime, con cui ha definito il presidente americano, Donald Trump, un «razzista» e un «bugiardo». Una sfida in piena regola. Una sfida che punta alla conquista della Casa Bianca, dopo il tentativo fallito del 2016. Stavolta intestandosi le battaglie contro le elite. All'epoca, Sanders si era candidato senza troppo scalpore. Tantissimi analisti lo ritenevano nulla di più che un estremista invasato, perso in avulse discussioni sui massimi sistemi. Si dovettero ricredere. L'arzillo senatore dimostrò di avere una formidabile abilità dal punto di vista organizzativo: dalla raccolta fondi alla gestione della comunicazione. Improvvisamente quel vecchietto balzano che amava (e ama tutt'ora) definirsi «socialista» ha iniziato a vincere svariate competizioni elettorali nel corso delle primarie, destando preoccupazione tra le alte sfere del Partito democratico. Un campanello d'allarme pericolosissimo per la front runner, Hillary Clinton, che era partita credendo di avere (non senza una certa sicumera) la nomination già in tasca. E – guarda caso – i vertici dell'Asinello decisero di intervenire attraverso metodi non esattamente ortodossi: come hanno dimostrato le rivelazioni diffuse dalla piattaforma Wikileaks nel 2016, il comitato nazionale del partito mise deliberatamente i bastoni tra le ruote alla campagna elettorale del senatore. Tanto che – una volta venuto alla luce lo scandalo – l'allora presidentessa del partito, Debbie Wasserman Schultz, fu costretta alle dimissioni. Alla fine ci fu comunque ben poco da fare. Hillary vinse la nomination e decise di puntare al centro, ignorando di fatto le battaglie sandersiane contro lo strapotere di Wall Street e i trattati internazionali di libero scambio. Battaglie che fu, al contrario, Trump ad intestarsi, riuscendo così a conquistare la Casa Bianca nel novembre di quell'anno.La strada di Sanders oggi non è esattamente in discesa. La sua strategia è indubbiamente quella di volersi presentare, ancora una volta, come la bandiera in grado di federare l'intera sinistra dem. Strategia al momento assai ardua da realizzare: rispetto al 2016, infatti, i candidati che ambiscono a rappresentare quel mondo sono già al momento numerosissimi. Un elemento che prevedibilmente finirà col disarticolare il fronte radicale: fronte che potrebbe quindi dividersi, smarrendosi dietro a una miriade di leader rissosi. La situazione interna al Partito democratico è attualmente abbastanza caotica: il centro latita, mentre la sinistra risulta sovrarappresentata. Sovrarappresentata assai spesso da fighetti settari e aleatori, più interessati alle pose mediatiche che ai problemi concreti degli elettori. Sanders – che di limiti ne ha tanti – ha comunque sempre avuto il merito di aver compreso come la debacle di Hillary fosse principalmente dovuta al fatto che la classe operaia della rust belt avesse abbandonato il Partito democratico, per passare tra le file di Trump. Eppure, nonostante la correttezza di quest'analisi, tutto ciò potrebbe non bastare per emergere dalla pletora dei suoi vanitosi (e spesso inconcludenti) avversari, in un contesto mediatico – quello americano – sempre più schiacciato su questioni a dir poco desolanti: le pornostar di Trump, gli hacker russi, il politically correct e via dicendo. Senza poi trascurare un ulteriore elemento interessante: come già parzialmente affermato, è stato proprio l'attuale presidente ad intestarsi alcune battaglie storicamente vicine alla sinistra dem. Dal protezionismo economico alle riforme infrastrutturali. Fattori che mettono inevitabilmente in difficoltà una candidatura come quella di Sanders, che – pur risultando politicamente più solido dei suoi competitor – si ritrova evidentemente con margini di manovra piuttosto stretti.Infine, c'è un ulteriore aspetto da sottolineare. Quello che sta accadendo nel Partito democratico americano evidenzia una vera e propria chiamata alle armi di quell'area che i media hanno spesso definito "populista": non solo Bernie Sanders ma anche altri candidati (come la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, la deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, la senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar) risultano strenui avversari dell'alta finanza, oppositori dei trattati internazionali di libero scambio e tendenzialmente isolazionisti in politica estera. Segno di come – pur con tutti i suoi limiti – l'esempio dato dallo stesso Sanders nel 2016 ha portato una parte crescente dell'Asinello a spostarsi su posizioni politiche ed economiche sempre più lontane dalla "presentabilissima" terza via di clintoniana memoria. Insomma pare proprio che, al di là dell'oceano, si stia iniziando a capire che la classe operaia vada elettoralmente recuperata e non considerata un'anticaglia inesorabilmente fagocitata dalla storia. Certo: l'Asinello ci ha messo un po' a capirlo e non è detto che gli sia ancora del tutto chiaro. Ma qualcosa si sta muovendo. E il vituperato populismo non sembra più adesso una parolaccia. Un fattore – questo – che, del resto, sta caratterizzando anche gran parte della sinistra europea. Meno che in Italia. Il Partito democratico resta infatti ben aggrappato all'elitismo pariolino, mentre il suo garrulo ex segretario ha pochi giorni fa rivendicato di appartenere con orgoglio alla tradizione dei Clinton e dei Blair. Quando il mondo gira ormai completamente da un'altra parte. Auguri vivissimi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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