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2018-08-07
Berlusconi aveva detto due sì a Foa. Poi si è mosso l’asse Ue-Napolitano...
Ansa
«Via libera». L'intrigo dell'estate era cominciato con il più classico dei semafori verdi e Matteo Salvini non aveva fiutato la trappola. Tre giorni dopo quella frase pronunciata da Licia Ronzulli al telefono e ascoltata con rilassata serenità dal ministro dell'Interno, è scoppiato il caso Rai. Il presidente designato Marcello Foa è stato bocciato in Commissione di Vigilanza con l'astensione decisiva di Forza Italia, il governo ha subìto il primo stallo e l'alleanza di centrodestra non è mai stata così vicina a rompersi. L'ora più buia, quella dei lunghi coltelli e dell'illuminante frase di Luigi Di Maio: «Salvini mi aveva assicurato che era tutto a posto». Perché effettivamente lo era. Anzi lo sembrava. Ma nessuno poteva sospettare che, per la prima volta in 25 anni, un doppio «sì» di Silvio Berlusconi potesse trasformarsi in un doppio «no».
E allora, alla vigilia del prossimo cda della Rai, previsto per domani e con all'ordine del giorno gli highlights di Novantesimo minuto e il destino della fiction Un posto al sole, vale la pena ripercorrere i colpi di scena della scorsa settimana, ricostruire l'intrigo attorno alla poltrona più rappresentativa della Tv pubblica italiana. Per scoprire che il no a Foa somiglia in modo inquietante all'identico no che nei giorni di gestazione del governo di Giuseppe Conte era finito come un meteorite sul nome di Paolo Savona. Stesso mandante, l'europotere di Bruxelles con fortissimi addentellati a Parigi. Con una parte di Forza Italia, quella più irrequieta ed europeista, come esecutrice materiale del blitz. Imbeccata dall'ombra dell'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
La famosa telefonata preventiva, quella dell'indignazione di Forza Italia e del «non abbiamo neppure aperto il file Foa» perché mancava la precondizione dell'accordo, era stata fatta. Salvini si era comportato secondo i patti, aveva condiviso il nome e il curriculum, aveva ottenuto il via libera per ufficializzare il pretendente al trono. Un liberale, moderato, di area centrodestra, che per 20 anni aveva ricoperto il ruolo di caporedattore e inviato di Esteri nel Giornale della famiglia Berlusconi. Un candidato potenzialmente perfetto per il Cavaliere. Anche se un uomo competente, non manipolabile ed estraneo alle logiche di Palazzo, negli ultimi 30 anni non si era mai avvicinato così tanto alla stanza dei bottoni di viale Mazzini. Tutto a posto? No, perché la sera di domenica 29 luglio un flash di Dagospia ispirato dai colonnelli azzurri fa capire che qualcosa sta cambiando: si parla di un Berlusconi infuriato, di un clima burrascoso, di un Foa indigesto. Il Cavaliere è in clinica al San Raffaele per controlli non di routine, non può tessere le fila della vicenda, è irraggiungibile. Trascorrono 24 ore di forti fibrillazioni, così Salvini decide di non rischiare di giocare al buio e alle cinque di mattina di martedì 31 luglio parte da Milano Marittima per parcheggiare tre ore dopo davanti all'ospedale milanese fondato da don Luigi Verzè. Il colloquio è definito «molto cordiale», le tensioni sono considerate «scaramucce» e da Berlusconi arriva il secondo via libera. Il leader della Lega riparte, tranquillizza Di Maio e soprattutto Foa, nel frattempo preda di comprensibili apprensioni. Salvini tutto si aspetterebbe tranne che di ascoltare, la sera stessa, un Berlusconi di nuovo cupo dichiarare al TgCom24: «Noi non voteremo il candidato del governo».
Per la seconda volta in due giorni il fondatore di Forza Italia, l'ottantunenne politico più dominante della seconda Repubblica, viene messo in minoranza dai suoi. Il cerchio magico guidato dal vicepresidente del partito Antonio Tajani e composto da Mariastella Gelmini, Gianni Letta, Licia Ronzulli e Niccolò Ghedini ha la meglio, anche perché può contare su un alleato insospettabile, Fedele Confalonieri, preoccupato dalla possibile rivoluzione gialloblù dentro l'azienda pubblica con la quale giocoforza Mediaset ha da anni stabilito regole di non belligeranza. La pax pubblicitaria innanzitutto.
A scatenare la negatività di Tajani, dei suoi fedelissimi e della componente giornalistica vicina a Berlusconi non è soltanto una poco comprensibile gelosia interna, ma una strana telefonata in arrivo dall'estero, di cui stanno parlando da qualche giorno alcuni siti che si occupano di massoneria. A farla sarebbe stata una delle eminenze grigie più luciferine d'Europa, Jacques Attali, l'uomo che ha inventato Emmanuel Macron, nemico numero uno di euroscettici e sovranisti, preoccupato che questa sterzata mediatica dentro la Rai possa provocare un contagio anche in Francia, dove Marine Le Pen sta tornano in auge e il suo pupillo sta precipitando negli abissi dei sondaggi.
Attali avrebbe espresso perplessità per gli accadimenti italiani a una sua vecchia conoscenza, il presidente emerito Giorgio Napolitano, che a sua volta avrebbe consigliato di far intervenire Tajani. «Bisogna fermare l'operazione a tutti i costi». E chi meglio del presidente del Parlamento europeo, figlio politico di Bruxelles, europeista convinto, delfino designato da Berlusconi (ma non ancora plenipotenziario) poteva portare a termine la missione facendo saltare l'accordo e creando i presupposti per la bocciatura di Foa? È la fotocopia del caso Savona, se ne sono accorti anche Salvini e Di Maio, proprio per questo sono fermi come paracarri sul punto. Anche perché questa volta il Quirinale, ovviamente sondato, non ha opposto alcun veto. Superato con saggezza l'effetto del tweet di critica di Foa (per la verità di disgusto) e fatte le opportune verifiche sulla persona, questa volta Sergio Mattarella ha deciso di non farsi strumentalizzare dal partito trasversale degli indignados permanenti.
Ora si gioca a carte scoperte. Domani Foa, che non ha ancora chiesto le deleghe presidenziali su Comunicazione e Rappresentanza (quelle che fanno scattare il massimo compenso), presiederà il cda Rai come consigliere anziano. Salvini e Di Maio sperano che il clima si stemperi, che Berlusconi torni in sella e che Forza Italia cominci a contare gli amministratori e i parlamentari pronti a saltare sul carro della Lega, ma finora bloccati dalle porte chiuse imposte da Giancarlo Giorgetti per ottemperare a un gentleman agreement deciso in tempi di idillio.
Mentre il fronte dell'establishment e del vecchio potere lealista - con Forza Italia a braccetto del Pd - prepara ricorsi per paralizzare mamma Rai e renderla più immobile del destriero di Francesco Messina, insistendo sul candidato unico il governo vuole veramente mostrare un forte segnale di discontinuità. «Chi ha governato prima avrebbe cambiato cavallo un minuto dopo il voto della Commissione, ricominciando subito a inciuciare con la tarantella come colonna sonora. Noi no», spiegano dal quartiere generale della Lega. Da quello dei 5 stelle arriva la stessa musica: «Coesione e serietà, la cosa li sconvolge. Dovranno abituarsi».
Giorgio Gandola
Adesso la Vigilanza coinvolge Tria nel braccio di ferro
Si riunisce questa mattina alle ore 8 l'ufficio di presidenza della commissione di Vigilanza Rai per fare il punto sullo stallo ai vertici della tv pubblica, dopo che la nomina di Marcello Foa per la presidenza di Viale Mazzini non ha raggiunto il quorum dei 27 voti necessari ma soltanto 22 (1 in meno rispetto a quelli che aveva sulla carta tra Lega, M5s con l'appoggio di Fdi).
Nel pomeriggio è in programma anche un incontro fra i capigruppo del Pd Graziano Delrio e Andrea Marcucci e i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico ed Elisabetta Casellati. Al centro della riunione in Vigilanza, però, c'è l'attesa della disponibilità del ministro dell'Economia Giovanni Tria per fissare la data dell'audizione in commissione per sentire il suo parere, in quanto azionista della tv pubblica, sul caso Foa. Alberto Barachini, senatore di Fi e presidente della Commissione, aveva già invitato il ministro Tria e quello dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio in audizione in Vigilanza sulla Rai «prima di procedere alle nomine di competenza dell'esecutivo». Oggi però il presidente forzista ritiene necessario ascoltare Tria per il suo ruolo e avere da lui «delucidazioni sul percorso da seguire» sul caso Rai, dopo che per la prima volta si è verificata una «crisi tra cda e Vigilanza» considerato che Foa, senza quorum in commissione, era stato votato a maggioranza dal Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini.
Una convocazione del ministro piuttosto pretestuosa considerato che il caso si è verificato per un vuoto legislativo: la riforma Rai voluta dal governo Renzi non ha previsto una prassi in caso di un voto diverso tra cda e Vigilanza. Ed è proprio il buco della legge che consente le varie interpretazioni di diversi costituzionalisti o esperti di diritto che si dividono tra «Foa può essere ripresentato in Vigilanza» e «Foa non può diventare presidente». Secondo motivo per cui chiamare Tria in audizione appare demagogico, è che il Mef sarà pure l'azionista di maggioranza della più grande azienda culturale italiana, ma mentre il Tesoro indica l'amministratore delegato (e Fabrizio Salini è in carica) il presidente viene indicato dal governo, viene votato dal cda e ratificato in Vigilanza. Non Tria dunque ma Lega-M5s o, meglio, Matteo Salvini deve sciogliere il nodo Foa, cosa possibile soltanto se riesce a «ricucire» con Forza Italia: la partita politica è tutta interna al centrodestra e il leader del Carroccio e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti sperano in un «pentimento» di Fi e Berlusconi.
Domenica da Cervia il ministro dell'Interno è stato chiaro: «Foa resta. Io guardo al merito, guardo se una persona vale. Mi devono dare una giustificazione valida per dire no». In realtà, anche Foa si era rimesso nelle mani del Mef dopo il voto a Palazzo San Macuto: «Sono in attesa di indicazioni dell'azionista e nel frattempo continuerò, nel pieno rispetto di leggi e regolamenti, a coordinare i lavori del cda come consigliere anziano». E così domani Foa presiederà il cda di Viale Mazzini che ha all'ordine del giorno «la scadenza dei diritti sportivi e il rinnovo del contratto per la ventiquattresima stagione di Un posto al sole». Come aveva già annunciato il consigliere Rai Rita Borioni (in quota Pd), «all'inizio della riunione, prima di qualsiasi decisione, chiederò una dichiarazione formale sui poteri del consigliere anziano e sulle funzioni del consiglio in questa situazione». Pronti ad impugnare gli atti illegittimi del cda Fnsi e Usigrai, perché «Foa come consigliere anziano può esclusivamente convocare, e con urgenza, il cda per dare finalmente alla Rai un presidente di garanzia». Come dire, il cda non deve fare nulla perché senza presidente che, invece, c'è ed è regolare come lo fu Alberto Alberoni, dopo le dimissioni di Lucia Annunziata, che fu presidente facente funzioni senza passare per la Vigilanza per un anno e mezzo.
Forse sindacato e opposizioni intendono che il cda non deve fare le nomine dei direttori di testate e di tg, cosa che per opportunità il nuovo consiglio non farà prima di settembre. Eppure in Rai c'è chi si muove. «Piovono promozioni. Qualcuno avvisi Ida Colucci, direttore del Tg2 dal 2016 e l'ultima giapponese renziana, che determinare nuove conduzioni di prima fascia senza attendere le nomine Rai da parte della nuova governance risulta essere una forzatura inaccettabile», ha dichiarato Federico Mollicone, deputato di Fdi e componente della Vigilanza Rai. «Un colpo di coda dell'apparato renziano che ancora impera dentro la Rai. Oltretutto ci risulta che anche il Cdr l'abbia sconsigliata».
Sarina Biraghi
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Riduci
Dopo una corsa notturna dal Cav in ospedale, Matteo Salvini era sereno. In poche ore, però, Jacques Attali, «padrino» di Emmanuel Macron, avrebbe allertato Re Giorgio. Da lui, il messaggio sarebbe arrivato ad Antonio Tajani. Il resto è lo stallo attuale. Adesso la Vigilanza coinvolge Giovanni Tria nel braccio di ferro. L'organismo di garanzia chiederà l'intervento dell'azionista. Domani Marcello Foa guiderà il cda su diritti sportivi e «Un posto al sole». Lo speciale contiene due articoli. «Via libera». L'intrigo dell'estate era cominciato con il più classico dei semafori verdi e Matteo Salvini non aveva fiutato la trappola. Tre giorni dopo quella frase pronunciata da Licia Ronzulli al telefono e ascoltata con rilassata serenità dal ministro dell'Interno, è scoppiato il caso Rai. Il presidente designato Marcello Foa è stato bocciato in Commissione di Vigilanza con l'astensione decisiva di Forza Italia, il governo ha subìto il primo stallo e l'alleanza di centrodestra non è mai stata così vicina a rompersi. L'ora più buia, quella dei lunghi coltelli e dell'illuminante frase di Luigi Di Maio: «Salvini mi aveva assicurato che era tutto a posto». Perché effettivamente lo era. Anzi lo sembrava. Ma nessuno poteva sospettare che, per la prima volta in 25 anni, un doppio «sì» di Silvio Berlusconi potesse trasformarsi in un doppio «no». E allora, alla vigilia del prossimo cda della Rai, previsto per domani e con all'ordine del giorno gli highlights di Novantesimo minuto e il destino della fiction Un posto al sole, vale la pena ripercorrere i colpi di scena della scorsa settimana, ricostruire l'intrigo attorno alla poltrona più rappresentativa della Tv pubblica italiana. Per scoprire che il no a Foa somiglia in modo inquietante all'identico no che nei giorni di gestazione del governo di Giuseppe Conte era finito come un meteorite sul nome di Paolo Savona. Stesso mandante, l'europotere di Bruxelles con fortissimi addentellati a Parigi. Con una parte di Forza Italia, quella più irrequieta ed europeista, come esecutrice materiale del blitz. Imbeccata dall'ombra dell'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano. La famosa telefonata preventiva, quella dell'indignazione di Forza Italia e del «non abbiamo neppure aperto il file Foa» perché mancava la precondizione dell'accordo, era stata fatta. Salvini si era comportato secondo i patti, aveva condiviso il nome e il curriculum, aveva ottenuto il via libera per ufficializzare il pretendente al trono. Un liberale, moderato, di area centrodestra, che per 20 anni aveva ricoperto il ruolo di caporedattore e inviato di Esteri nel Giornale della famiglia Berlusconi. Un candidato potenzialmente perfetto per il Cavaliere. Anche se un uomo competente, non manipolabile ed estraneo alle logiche di Palazzo, negli ultimi 30 anni non si era mai avvicinato così tanto alla stanza dei bottoni di viale Mazzini. Tutto a posto? No, perché la sera di domenica 29 luglio un flash di Dagospia ispirato dai colonnelli azzurri fa capire che qualcosa sta cambiando: si parla di un Berlusconi infuriato, di un clima burrascoso, di un Foa indigesto. Il Cavaliere è in clinica al San Raffaele per controlli non di routine, non può tessere le fila della vicenda, è irraggiungibile. Trascorrono 24 ore di forti fibrillazioni, così Salvini decide di non rischiare di giocare al buio e alle cinque di mattina di martedì 31 luglio parte da Milano Marittima per parcheggiare tre ore dopo davanti all'ospedale milanese fondato da don Luigi Verzè. Il colloquio è definito «molto cordiale», le tensioni sono considerate «scaramucce» e da Berlusconi arriva il secondo via libera. Il leader della Lega riparte, tranquillizza Di Maio e soprattutto Foa, nel frattempo preda di comprensibili apprensioni. Salvini tutto si aspetterebbe tranne che di ascoltare, la sera stessa, un Berlusconi di nuovo cupo dichiarare al TgCom24: «Noi non voteremo il candidato del governo». Per la seconda volta in due giorni il fondatore di Forza Italia, l'ottantunenne politico più dominante della seconda Repubblica, viene messo in minoranza dai suoi. Il cerchio magico guidato dal vicepresidente del partito Antonio Tajani e composto da Mariastella Gelmini, Gianni Letta, Licia Ronzulli e Niccolò Ghedini ha la meglio, anche perché può contare su un alleato insospettabile, Fedele Confalonieri, preoccupato dalla possibile rivoluzione gialloblù dentro l'azienda pubblica con la quale giocoforza Mediaset ha da anni stabilito regole di non belligeranza. La pax pubblicitaria innanzitutto. A scatenare la negatività di Tajani, dei suoi fedelissimi e della componente giornalistica vicina a Berlusconi non è soltanto una poco comprensibile gelosia interna, ma una strana telefonata in arrivo dall'estero, di cui stanno parlando da qualche giorno alcuni siti che si occupano di massoneria. A farla sarebbe stata una delle eminenze grigie più luciferine d'Europa, Jacques Attali, l'uomo che ha inventato Emmanuel Macron, nemico numero uno di euroscettici e sovranisti, preoccupato che questa sterzata mediatica dentro la Rai possa provocare un contagio anche in Francia, dove Marine Le Pen sta tornano in auge e il suo pupillo sta precipitando negli abissi dei sondaggi. Attali avrebbe espresso perplessità per gli accadimenti italiani a una sua vecchia conoscenza, il presidente emerito Giorgio Napolitano, che a sua volta avrebbe consigliato di far intervenire Tajani. «Bisogna fermare l'operazione a tutti i costi». E chi meglio del presidente del Parlamento europeo, figlio politico di Bruxelles, europeista convinto, delfino designato da Berlusconi (ma non ancora plenipotenziario) poteva portare a termine la missione facendo saltare l'accordo e creando i presupposti per la bocciatura di Foa? È la fotocopia del caso Savona, se ne sono accorti anche Salvini e Di Maio, proprio per questo sono fermi come paracarri sul punto. Anche perché questa volta il Quirinale, ovviamente sondato, non ha opposto alcun veto. Superato con saggezza l'effetto del tweet di critica di Foa (per la verità di disgusto) e fatte le opportune verifiche sulla persona, questa volta Sergio Mattarella ha deciso di non farsi strumentalizzare dal partito trasversale degli indignados permanenti. Ora si gioca a carte scoperte. Domani Foa, che non ha ancora chiesto le deleghe presidenziali su Comunicazione e Rappresentanza (quelle che fanno scattare il massimo compenso), presiederà il cda Rai come consigliere anziano. Salvini e Di Maio sperano che il clima si stemperi, che Berlusconi torni in sella e che Forza Italia cominci a contare gli amministratori e i parlamentari pronti a saltare sul carro della Lega, ma finora bloccati dalle porte chiuse imposte da Giancarlo Giorgetti per ottemperare a un gentleman agreement deciso in tempi di idillio. Mentre il fronte dell'establishment e del vecchio potere lealista - con Forza Italia a braccetto del Pd - prepara ricorsi per paralizzare mamma Rai e renderla più immobile del destriero di Francesco Messina, insistendo sul candidato unico il governo vuole veramente mostrare un forte segnale di discontinuità. «Chi ha governato prima avrebbe cambiato cavallo un minuto dopo il voto della Commissione, ricominciando subito a inciuciare con la tarantella come colonna sonora. Noi no», spiegano dal quartiere generale della Lega. Da quello dei 5 stelle arriva la stessa musica: «Coesione e serietà, la cosa li sconvolge. Dovranno abituarsi». 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Nel pomeriggio è in programma anche un incontro fra i capigruppo del Pd Graziano Delrio e Andrea Marcucci e i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico ed Elisabetta Casellati. Al centro della riunione in Vigilanza, però, c'è l'attesa della disponibilità del ministro dell'Economia Giovanni Tria per fissare la data dell'audizione in commissione per sentire il suo parere, in quanto azionista della tv pubblica, sul caso Foa. Alberto Barachini, senatore di Fi e presidente della Commissione, aveva già invitato il ministro Tria e quello dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio in audizione in Vigilanza sulla Rai «prima di procedere alle nomine di competenza dell'esecutivo». Oggi però il presidente forzista ritiene necessario ascoltare Tria per il suo ruolo e avere da lui «delucidazioni sul percorso da seguire» sul caso Rai, dopo che per la prima volta si è verificata una «crisi tra cda e Vigilanza» considerato che Foa, senza quorum in commissione, era stato votato a maggioranza dal Consiglio di amministrazione di Viale Mazzini. Una convocazione del ministro piuttosto pretestuosa considerato che il caso si è verificato per un vuoto legislativo: la riforma Rai voluta dal governo Renzi non ha previsto una prassi in caso di un voto diverso tra cda e Vigilanza. Ed è proprio il buco della legge che consente le varie interpretazioni di diversi costituzionalisti o esperti di diritto che si dividono tra «Foa può essere ripresentato in Vigilanza» e «Foa non può diventare presidente». Secondo motivo per cui chiamare Tria in audizione appare demagogico, è che il Mef sarà pure l'azionista di maggioranza della più grande azienda culturale italiana, ma mentre il Tesoro indica l'amministratore delegato (e Fabrizio Salini è in carica) il presidente viene indicato dal governo, viene votato dal cda e ratificato in Vigilanza. Non Tria dunque ma Lega-M5s o, meglio, Matteo Salvini deve sciogliere il nodo Foa, cosa possibile soltanto se riesce a «ricucire» con Forza Italia: la partita politica è tutta interna al centrodestra e il leader del Carroccio e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti sperano in un «pentimento» di Fi e Berlusconi. Domenica da Cervia il ministro dell'Interno è stato chiaro: «Foa resta. Io guardo al merito, guardo se una persona vale. Mi devono dare una giustificazione valida per dire no». In realtà, anche Foa si era rimesso nelle mani del Mef dopo il voto a Palazzo San Macuto: «Sono in attesa di indicazioni dell'azionista e nel frattempo continuerò, nel pieno rispetto di leggi e regolamenti, a coordinare i lavori del cda come consigliere anziano». E così domani Foa presiederà il cda di Viale Mazzini che ha all'ordine del giorno «la scadenza dei diritti sportivi e il rinnovo del contratto per la ventiquattresima stagione di Un posto al sole». Come aveva già annunciato il consigliere Rai Rita Borioni (in quota Pd), «all'inizio della riunione, prima di qualsiasi decisione, chiederò una dichiarazione formale sui poteri del consigliere anziano e sulle funzioni del consiglio in questa situazione». Pronti ad impugnare gli atti illegittimi del cda Fnsi e Usigrai, perché «Foa come consigliere anziano può esclusivamente convocare, e con urgenza, il cda per dare finalmente alla Rai un presidente di garanzia». Come dire, il cda non deve fare nulla perché senza presidente che, invece, c'è ed è regolare come lo fu Alberto Alberoni, dopo le dimissioni di Lucia Annunziata, che fu presidente facente funzioni senza passare per la Vigilanza per un anno e mezzo. Forse sindacato e opposizioni intendono che il cda non deve fare le nomine dei direttori di testate e di tg, cosa che per opportunità il nuovo consiglio non farà prima di settembre. Eppure in Rai c'è chi si muove. «Piovono promozioni. Qualcuno avvisi Ida Colucci, direttore del Tg2 dal 2016 e l'ultima giapponese renziana, che determinare nuove conduzioni di prima fascia senza attendere le nomine Rai da parte della nuova governance risulta essere una forzatura inaccettabile», ha dichiarato Federico Mollicone, deputato di Fdi e componente della Vigilanza Rai. «Un colpo di coda dell'apparato renziano che ancora impera dentro la Rai. Oltretutto ci risulta che anche il Cdr l'abbia sconsigliata». Sarina Biraghi
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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