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2025-09-08
Gli Usa, la Francia, la Russia e la Cina. Berlino ha perso tutti i suoi «amici»
Friedrich Merz (Ansa)
La Germania si guarda intorno e non trova più gli amici di un tempo. Per decenni ha costruito la sua forza sull’export, con un’economia che cresceva vendendo automobili, macchinari e chimica al resto del mondo. Mentre in casa stringeva la cinghia (come dimenticare il mantra della stagione di Angela Merkel: «Fare i compiti a casa»), fuori cercava sbocchi per la sua esuberante produzione industriale. È stato un modello che ha consentito qualche vantaggio di breve termine, ma che ora sta crollando su sé stesso. Non solo perché ora l’economia soffre, ma anche perché la politica estera tedesca degli ultimi trent’anni è stata rasa al suolo.
Le linee di politica estera della Germania si basavano su quattro pilastri. Il primo era naturalmente l’Unione europea, mercato da aggredire e da disegnare a propria immagine e somiglianza. La moneta comune e le politiche di austerità erano gli strumenti di una politica verso i partner europei a base di sostanziali dumping (valutario, salariale, ambientale, energetico). Ora che il mercato interno è azzoppato dall’austerità, l’industria tedesca piange.
Il secondo pilastro era la Russia. Fino al 2021 ben più di metà del gas importato dalla Germania arrivava da lì. Una dipendenza voluta e pensata come garanzia di competitività per guadagnare spazio sui mercati internazionali, con partecipazioni incrociate in iniziative dalla chimica all’energia, sino alle automobili. Ma poi, ecco la questione Ucraina. Con l’invasione, la Germania si è trovata sul tavolo il conto di una alleanza geopolitica che aveva suscitato le ire del potente alleato americano. Da alleata silenziosa della Russia, la Germania è diventata uno dei principali sponsor militari e finanziari di Kiev. Un voltafaccia che ha irritato i Paesi dell’Est europeo, prima per aver stabilito contatti diretti in un abbraccio stretto, poi per aver ribaltato le posizioni quando punta sul vivo dei propri interessi.
La terza colonna della politica estera tedesca era Pechino. La Cina era il grande mercato che doveva fornire nuova benzina alla macchina industriale tedesca e al tempo stesso una enorme fabbrica a costi molto più bassi di quelli europei. Dalle prime fabbriche Volkswagen a Shanghai nel 1984 si è passati nel 2014 al partenariato strategico globale tra i due Paesi. Pochi hanno capito che è stata la Germania ad insegnare alla Cina l’idea del salto tecnologico. Il piano « Industrie 4.0» di Berlino, che risale al 2011, è stato lo spunto per il piano «Made in China 2025» di Pechino, che risale al 2015 ed è stato fortemente voluto da Xi Jinping. La Cina ha imparato a digitalizzare la manifattura, collegare macchine e sistemi, integrare dati e produzione, scalare le catene del valore, ed oggi è il rivale da battere per antonomasia.
Infatti oggi i conti non tornano e nel 2024 il deficit commerciale tedesco con la Cina ha toccato i 66 miliardi di euro. La Cina esporta di tutto in Europa e mette in difficoltà le imprese tedesche, sia in Germania che altrove. Bruxelles ha reagito con i dazi, almeno sulle auto, mentre il governo di Berlino ha pubblicato una «China-Strategie» che parla di ridurre i rischi. Intanto, nei sondaggi della Camera di commercio tedesca in Cina, cresce il pessimismo. La lezione è, purtroppo per la Germania, molto semplice. Mentre il blocco politico-finanziario-industriale tedesco vedeva in Pechino uno junior partner e un mercato da conquistare, Pechino vedeva in Berlino un laboratorio da cui imparare. Per fagocitarlo.
Il quarto pilastro della politica estera della Germania erano gli Stati Uniti. Washington resta la meta preferita dell’export tedesco: nel 2024 l’interscambio ha superato i 250 miliardi di euro. Ma sin dal Dieselgate gli Stati Uniti hanno reagito ai continuati surplus tedeschi, fino alla deflagrazione dei dazi imposti dal rieletto Donald Trump, che già al primo giro di Casa Bianca aveva aggrottato la fronte guardando a Berlino. Senza fare troppe distinzioni, Trump ha imposto un dazio generalizzato del 15% su gran parte delle merci europee, mentre sulle auto e sull’acciaio restano al 27,5% e al 50% rispettivamente.
Già nel 1978 il cancelliere Helmut Schmidt, parlando con la Bundesbank, spiegava che per la Germania il legame con Washington non era una scelta ma una necessità: gli Stati Uniti garantivano sicurezza militare e stabilità economica. E aggiungeva che la Nato e la Comunità europea funzionavano come un «mantello» che proteggeva la Germania e la faceva accettare dagli altri, trasformando l’ex potenza aggressiva in un partner civile. Quell’equilibrio durava perché l’America tollerava l’attivo commerciale tedesco in cambio di fedeltà strategica. Ma quando Berlino si è voltata con maggiore decisione verso Est, gli Stati Uniti sono intervenuti. Meno surplus e più allineamento è ciò che oggi pretende Washington. Può non piacere, ma per molto tempo Berlino ha finto che i rapporti di forza non contassero nulla.
In questo scenario pesa come un’incudine l’eredità di Angela Merkel. La cancelliera, rimasta in carica sedici anni, ha incarnato la continuità del modello tedesco che arrivava dall’impostazione degli anni Novanta. Fu soprattutto lei a spingere sull’Ostpolitik energetica, difendendo il Nord Stream 2 anche dopo l’annessione della Crimea nel 2014, quando altri mettevano in guardia sui rischi geopolitici di una eccessiva dipendenza da Mosca. E fu sempre sotto il suo governo che la simbiosi con la Cina si rafforzò, mentre in Europa la Germania si presentava come lo sponsor dell’allargamento selettivo dell’Unione e dell’accoglienza. Tutto ciò in omaggio ad una tendenza storica di allargamento ad Est, che la Germania ha trapiantato anche nell’Ue (molto ansiosa di espandersi nell’est europeo).
La vicenda del Nord Stream è emblematica del disastro diplomatico tedesco. Oggi sappiamo che del sabotaggio del gasdotto, che ha tagliato il cordone ombelicale energetico tra Russia e Germania, è accusato un gruppo di ucraini, di cui la Germania è in teoria alleata. L’imbarazzo diplomatico di Berlino è sin troppo evidente, considerato il silenzio politico con cui la notizia è stata accolta.
Oggi che i pilastri esterni sono caduti, l’atterraggio sarà molto duro, come dimostra la vicenda della Francia. Parigi è alle prese con una annunciata stagione di austerità, che la porterà ad una recessione certa, mentre l’immaginario asse franco-tedesco è al suo punto più basso nel secondo dopoguerra. Il rapporto con la Francia è segnato dalle divergenze, nonostante gli incontri a base di sorrisi e strette di mano tra il cancelliere Friedrich Merz e il sempre meno gradito (dai francesi) Emmanuel Macron.
L’attuale governo sta ponendo un forte accento sugli investimenti a debito in armamenti, tanto da ripristinare la leva obbligatoria. Le maggiori spese per la difesa servono, nell’idea di Berlino, a riconquistare un ruolo militare di primo piano in Europa, più in competizione che in collaborazione con la Francia e gli altri Paesi. Questo sforzo non basterà a colmare la solitudine di Berlino, una potenza economica che ha scoperto di avere molti clienti e ben pochi amici.
Debito e aiuti di Stato per uscire dalla crisi. E l’Ue chiude gli occhi
Spendere. Dopo decenni di manica stretta, ora per Berlino è diventata una necessità, a tutti i costi. La parola d’ordine, a Berlino, da Schwarze null (zero netto) è diventata ausgeben, spendere.
Non è certo la prima volta che per salvare capra e cavoli Berlino rinnega ciò che ha fatto fino a cinque minuti prima. Dopo decenni di investimenti zero, ora Friedrich Merz vuole indebitarsi come se non ci fosse un domani, con l’obiettivo di ritornare ad essere una potenza militare. Annunciati centinaia di miliardi di euro di nuovo debito, tutti da investire. Il nuovo fondo sarà destinato per 400 miliardi nei prossimi 12 anni ad investimenti in infrastrutture, trasporti, sanità, digitale, energia, ricerca e istruzione. Altri 100 miliardi saranno destinati al fondo per il clima e la transizione, formula che nasconde una massiccia dose di sussidi alle imprese per abbassare i costi dell’energia.
A ciò si aggiunge una spesa stimata in 300 miliardi per la difesa, esente dai limiti costituzionali del freno al debito, voluto in Costituzione da Angela Merkel a suo tempo e ammorbidito la scorsa primavera dal Bundestag in scadenza. La Ue, sempre molto solerte quando si tratta di addolcire le regole per favorire Berlino, ha già steso il tappeto rosso agli aiuti di Stato, che in teoria i trattati europei vietano, modificando il cosiddetto quadro temporaneo. Nel frattempo, il nuovo Patto di stabilità è oggetto di critiche da Berlino, perché limiterebbe la capacità di indebitamento, e il Paese è in esercizio provvisorio fino alla approvazione della nuova manovra finanziaria.
Del resto, la casa (tedesca) brucia, e allora vale tutto. Doppia manovra del cancelliere Friedrich Merz, che prima ha convinto il vecchio Parlamento tedesco, a due giorni dalla sostituzione con il nuovo, a modificare la Costituzione, poi ha convinto Bruxelles a chiudere un occhio sugli aiuti di Stato. Nel frattempo, la coalizione con la Spd è ad alta tensione, perché Berlino si è accorta che mancano denari. Arrivano proposte per innalzare l’età pensionabile, alzare le tasse, tagliare il welfare state. Un film che in Italia abbiamo già visto.
Nel frattempo, le storiche ferrovie tedesche sono alla frutta. Nel primo semestre del 2025, il gruppo Deutsche Bahn – escludendo il provento straordinario derivante dalla vendita di DB Schenker – ha registrato una perdita netta di 760 milioni di euro. Il ministro dei Trasporti Patrick Schnieder (Cdu) ha silurato l’ad delle ferrovie, Richard Lutz, ma pare sia difficile trovare il sostituto. DB Cargo è in gravi difficoltà (2.600 esuberi) con un passivo di centinaia di milioni e se non si troverà una soluzione sarà smontata e venduta a pezzi l’anno prossimo. Il prestigioso «Stuttgard 21», un maxi-progetto di trasformazione dell’attuale capolinea di Stoccarda in una stazione passante sotterranea a 8 binari (con 4 nuove stazioni, 11 nuovi tunnel, 42 nuovi ponti e 100 km di nuove linee), ha sforato il budget: costerà 11,5 miliardi di euro anziché i preventivati 4,5 miliardi. La messa in servizio era prevista nel 2019 ma sarà pronta (forse) solo nel 2027. Un disastro.
Le infrastrutture carenti e la domanda fiacca sono conseguenza delle politiche di austerità, consacrate al totem del pareggio di bilancio e dell’indebitamento ridotto ai minimi termini (oggi al 64% del Pil). Gli investimenti zero e i risparmi sul costo del lavoro hanno depresso anche la produttività, stagnante da anni. Esiste una correlazione negativa tra la produttività e il tasso di occupazione part time. Infatti, a fine 2023 risultavano occupati in Germania 46 milioni di persone, ma con ben 12 milioni di lavoratori part time (il 26%).
La formazione netta reale di capitale fisso della Germania nel settore pubblico è stata in media solo dello 0,1% del Pil all’anno negli ultimi tre decenni. Praticamente, nulla. Per fare un paragone, gli Stati Uniti hanno investito in media l’1,3% del Pil, la Spagna l’1,2% del Pil, il gruppo di Paesi europei con rating tripla A come la Germania (Austria, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera) ha investito in media l’1% del Pil. Se gli investimenti fossero stati in linea con quelli delle economie con rating AAA, il governo tedesco avrebbe dovuto investire 300 miliardi di euro solo negli ultimi dieci anni, 30 miliardi l’anno.
Una cifra che oggi, in ritardo di trent’anni, Berlino cerca di far digerire a cittadini e partner europei, nella speranza di dare ossigeno ad un organismo in asfissia. Il ritardo tedesco è grave e gli artifici contabili non basteranno a colmarlo. Un sondaggio tra i tedeschi in questi giorni segnala che solo l’11% dei tedeschi ritiene che gli investimenti necessari in istruzione, infrastrutture, difesa e digitalizzazione debbano essere realizzati attraverso aumenti delle tasse, e il 16% attraverso nuovo debito. Il 65% chiede al governo federale di finanziare questi investimenti attraverso tagli in altre aree di bilancio. Ricetta sicura per una recessione.
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Riduci
I quattro pilastri sui cui si fondava la politica estera tedesca sono venuti meno. Pechino da junior partner è diventata una rivale. L’Europa non offre più un mercato di sbocco. E il riarmo annunciato fa paura a Parigi.La parola d’ordine ora è «ausgeben»: spendere. Merz rinnega il pareggio di bilancio e annuncia investimenti per 800 miliardi.Lo speciale contiene due articoli.La Germania si guarda intorno e non trova più gli amici di un tempo. Per decenni ha costruito la sua forza sull’export, con un’economia che cresceva vendendo automobili, macchinari e chimica al resto del mondo. Mentre in casa stringeva la cinghia (come dimenticare il mantra della stagione di Angela Merkel: «Fare i compiti a casa»), fuori cercava sbocchi per la sua esuberante produzione industriale. È stato un modello che ha consentito qualche vantaggio di breve termine, ma che ora sta crollando su sé stesso. Non solo perché ora l’economia soffre, ma anche perché la politica estera tedesca degli ultimi trent’anni è stata rasa al suolo.Le linee di politica estera della Germania si basavano su quattro pilastri. Il primo era naturalmente l’Unione europea, mercato da aggredire e da disegnare a propria immagine e somiglianza. La moneta comune e le politiche di austerità erano gli strumenti di una politica verso i partner europei a base di sostanziali dumping (valutario, salariale, ambientale, energetico). Ora che il mercato interno è azzoppato dall’austerità, l’industria tedesca piange.Il secondo pilastro era la Russia. Fino al 2021 ben più di metà del gas importato dalla Germania arrivava da lì. Una dipendenza voluta e pensata come garanzia di competitività per guadagnare spazio sui mercati internazionali, con partecipazioni incrociate in iniziative dalla chimica all’energia, sino alle automobili. Ma poi, ecco la questione Ucraina. Con l’invasione, la Germania si è trovata sul tavolo il conto di una alleanza geopolitica che aveva suscitato le ire del potente alleato americano. Da alleata silenziosa della Russia, la Germania è diventata uno dei principali sponsor militari e finanziari di Kiev. Un voltafaccia che ha irritato i Paesi dell’Est europeo, prima per aver stabilito contatti diretti in un abbraccio stretto, poi per aver ribaltato le posizioni quando punta sul vivo dei propri interessi.La terza colonna della politica estera tedesca era Pechino. La Cina era il grande mercato che doveva fornire nuova benzina alla macchina industriale tedesca e al tempo stesso una enorme fabbrica a costi molto più bassi di quelli europei. Dalle prime fabbriche Volkswagen a Shanghai nel 1984 si è passati nel 2014 al partenariato strategico globale tra i due Paesi. Pochi hanno capito che è stata la Germania ad insegnare alla Cina l’idea del salto tecnologico. Il piano « Industrie 4.0» di Berlino, che risale al 2011, è stato lo spunto per il piano «Made in China 2025» di Pechino, che risale al 2015 ed è stato fortemente voluto da Xi Jinping. La Cina ha imparato a digitalizzare la manifattura, collegare macchine e sistemi, integrare dati e produzione, scalare le catene del valore, ed oggi è il rivale da battere per antonomasia.Infatti oggi i conti non tornano e nel 2024 il deficit commerciale tedesco con la Cina ha toccato i 66 miliardi di euro. La Cina esporta di tutto in Europa e mette in difficoltà le imprese tedesche, sia in Germania che altrove. Bruxelles ha reagito con i dazi, almeno sulle auto, mentre il governo di Berlino ha pubblicato una «China-Strategie» che parla di ridurre i rischi. Intanto, nei sondaggi della Camera di commercio tedesca in Cina, cresce il pessimismo. La lezione è, purtroppo per la Germania, molto semplice. Mentre il blocco politico-finanziario-industriale tedesco vedeva in Pechino uno junior partner e un mercato da conquistare, Pechino vedeva in Berlino un laboratorio da cui imparare. Per fagocitarlo.Il quarto pilastro della politica estera della Germania erano gli Stati Uniti. Washington resta la meta preferita dell’export tedesco: nel 2024 l’interscambio ha superato i 250 miliardi di euro. Ma sin dal Dieselgate gli Stati Uniti hanno reagito ai continuati surplus tedeschi, fino alla deflagrazione dei dazi imposti dal rieletto Donald Trump, che già al primo giro di Casa Bianca aveva aggrottato la fronte guardando a Berlino. Senza fare troppe distinzioni, Trump ha imposto un dazio generalizzato del 15% su gran parte delle merci europee, mentre sulle auto e sull’acciaio restano al 27,5% e al 50% rispettivamente.Già nel 1978 il cancelliere Helmut Schmidt, parlando con la Bundesbank, spiegava che per la Germania il legame con Washington non era una scelta ma una necessità: gli Stati Uniti garantivano sicurezza militare e stabilità economica. E aggiungeva che la Nato e la Comunità europea funzionavano come un «mantello» che proteggeva la Germania e la faceva accettare dagli altri, trasformando l’ex potenza aggressiva in un partner civile. Quell’equilibrio durava perché l’America tollerava l’attivo commerciale tedesco in cambio di fedeltà strategica. Ma quando Berlino si è voltata con maggiore decisione verso Est, gli Stati Uniti sono intervenuti. Meno surplus e più allineamento è ciò che oggi pretende Washington. Può non piacere, ma per molto tempo Berlino ha finto che i rapporti di forza non contassero nulla.In questo scenario pesa come un’incudine l’eredità di Angela Merkel. La cancelliera, rimasta in carica sedici anni, ha incarnato la continuità del modello tedesco che arrivava dall’impostazione degli anni Novanta. Fu soprattutto lei a spingere sull’Ostpolitik energetica, difendendo il Nord Stream 2 anche dopo l’annessione della Crimea nel 2014, quando altri mettevano in guardia sui rischi geopolitici di una eccessiva dipendenza da Mosca. E fu sempre sotto il suo governo che la simbiosi con la Cina si rafforzò, mentre in Europa la Germania si presentava come lo sponsor dell’allargamento selettivo dell’Unione e dell’accoglienza. Tutto ciò in omaggio ad una tendenza storica di allargamento ad Est, che la Germania ha trapiantato anche nell’Ue (molto ansiosa di espandersi nell’est europeo).La vicenda del Nord Stream è emblematica del disastro diplomatico tedesco. Oggi sappiamo che del sabotaggio del gasdotto, che ha tagliato il cordone ombelicale energetico tra Russia e Germania, è accusato un gruppo di ucraini, di cui la Germania è in teoria alleata. L’imbarazzo diplomatico di Berlino è sin troppo evidente, considerato il silenzio politico con cui la notizia è stata accolta.Oggi che i pilastri esterni sono caduti, l’atterraggio sarà molto duro, come dimostra la vicenda della Francia. Parigi è alle prese con una annunciata stagione di austerità, che la porterà ad una recessione certa, mentre l’immaginario asse franco-tedesco è al suo punto più basso nel secondo dopoguerra. Il rapporto con la Francia è segnato dalle divergenze, nonostante gli incontri a base di sorrisi e strette di mano tra il cancelliere Friedrich Merz e il sempre meno gradito (dai francesi) Emmanuel Macron.L’attuale governo sta ponendo un forte accento sugli investimenti a debito in armamenti, tanto da ripristinare la leva obbligatoria. Le maggiori spese per la difesa servono, nell’idea di Berlino, a riconquistare un ruolo militare di primo piano in Europa, più in competizione che in collaborazione con la Francia e gli altri Paesi. Questo sforzo non basterà a colmare la solitudine di Berlino, una potenza economica che ha scoperto di avere molti clienti e ben pochi amici.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/berlino-perde-i-suoi-amici-2673969348.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="debito-e-aiuti-di-stato-per-uscire-dalla-crisi-e-lue-chiude-gli-occhi" data-post-id="2673969348" data-published-at="1757324247" data-use-pagination="False"> Debito e aiuti di Stato per uscire dalla crisi. E l’Ue chiude gli occhi Spendere. Dopo decenni di manica stretta, ora per Berlino è diventata una necessità, a tutti i costi. La parola d’ordine, a Berlino, da Schwarze null (zero netto) è diventata ausgeben, spendere.Non è certo la prima volta che per salvare capra e cavoli Berlino rinnega ciò che ha fatto fino a cinque minuti prima. Dopo decenni di investimenti zero, ora Friedrich Merz vuole indebitarsi come se non ci fosse un domani, con l’obiettivo di ritornare ad essere una potenza militare. Annunciati centinaia di miliardi di euro di nuovo debito, tutti da investire. Il nuovo fondo sarà destinato per 400 miliardi nei prossimi 12 anni ad investimenti in infrastrutture, trasporti, sanità, digitale, energia, ricerca e istruzione. Altri 100 miliardi saranno destinati al fondo per il clima e la transizione, formula che nasconde una massiccia dose di sussidi alle imprese per abbassare i costi dell’energia.A ciò si aggiunge una spesa stimata in 300 miliardi per la difesa, esente dai limiti costituzionali del freno al debito, voluto in Costituzione da Angela Merkel a suo tempo e ammorbidito la scorsa primavera dal Bundestag in scadenza. La Ue, sempre molto solerte quando si tratta di addolcire le regole per favorire Berlino, ha già steso il tappeto rosso agli aiuti di Stato, che in teoria i trattati europei vietano, modificando il cosiddetto quadro temporaneo. Nel frattempo, il nuovo Patto di stabilità è oggetto di critiche da Berlino, perché limiterebbe la capacità di indebitamento, e il Paese è in esercizio provvisorio fino alla approvazione della nuova manovra finanziaria.Del resto, la casa (tedesca) brucia, e allora vale tutto. Doppia manovra del cancelliere Friedrich Merz, che prima ha convinto il vecchio Parlamento tedesco, a due giorni dalla sostituzione con il nuovo, a modificare la Costituzione, poi ha convinto Bruxelles a chiudere un occhio sugli aiuti di Stato. Nel frattempo, la coalizione con la Spd è ad alta tensione, perché Berlino si è accorta che mancano denari. Arrivano proposte per innalzare l’età pensionabile, alzare le tasse, tagliare il welfare state. Un film che in Italia abbiamo già visto.Nel frattempo, le storiche ferrovie tedesche sono alla frutta. Nel primo semestre del 2025, il gruppo Deutsche Bahn – escludendo il provento straordinario derivante dalla vendita di DB Schenker – ha registrato una perdita netta di 760 milioni di euro. Il ministro dei Trasporti Patrick Schnieder (Cdu) ha silurato l’ad delle ferrovie, Richard Lutz, ma pare sia difficile trovare il sostituto. DB Cargo è in gravi difficoltà (2.600 esuberi) con un passivo di centinaia di milioni e se non si troverà una soluzione sarà smontata e venduta a pezzi l’anno prossimo. Il prestigioso «Stuttgard 21», un maxi-progetto di trasformazione dell’attuale capolinea di Stoccarda in una stazione passante sotterranea a 8 binari (con 4 nuove stazioni, 11 nuovi tunnel, 42 nuovi ponti e 100 km di nuove linee), ha sforato il budget: costerà 11,5 miliardi di euro anziché i preventivati 4,5 miliardi. La messa in servizio era prevista nel 2019 ma sarà pronta (forse) solo nel 2027. Un disastro.Le infrastrutture carenti e la domanda fiacca sono conseguenza delle politiche di austerità, consacrate al totem del pareggio di bilancio e dell’indebitamento ridotto ai minimi termini (oggi al 64% del Pil). Gli investimenti zero e i risparmi sul costo del lavoro hanno depresso anche la produttività, stagnante da anni. Esiste una correlazione negativa tra la produttività e il tasso di occupazione part time. Infatti, a fine 2023 risultavano occupati in Germania 46 milioni di persone, ma con ben 12 milioni di lavoratori part time (il 26%). La formazione netta reale di capitale fisso della Germania nel settore pubblico è stata in media solo dello 0,1% del Pil all’anno negli ultimi tre decenni. Praticamente, nulla. Per fare un paragone, gli Stati Uniti hanno investito in media l’1,3% del Pil, la Spagna l’1,2% del Pil, il gruppo di Paesi europei con rating tripla A come la Germania (Austria, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera) ha investito in media l’1% del Pil. Se gli investimenti fossero stati in linea con quelli delle economie con rating AAA, il governo tedesco avrebbe dovuto investire 300 miliardi di euro solo negli ultimi dieci anni, 30 miliardi l’anno.Una cifra che oggi, in ritardo di trent’anni, Berlino cerca di far digerire a cittadini e partner europei, nella speranza di dare ossigeno ad un organismo in asfissia. Il ritardo tedesco è grave e gli artifici contabili non basteranno a colmarlo. Un sondaggio tra i tedeschi in questi giorni segnala che solo l’11% dei tedeschi ritiene che gli investimenti necessari in istruzione, infrastrutture, difesa e digitalizzazione debbano essere realizzati attraverso aumenti delle tasse, e il 16% attraverso nuovo debito. Il 65% chiede al governo federale di finanziare questi investimenti attraverso tagli in altre aree di bilancio. Ricetta sicura per una recessione.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Merito-Dicembre-2025.pdf
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