2024-04-08
Gli autoproclamatisi «risvegliati» in guerra per l’egemonia culturale
Il politically correct ha continuato a espandersi, dando vita al «wokismo»: minoranze sempre più aggressive ossessionate dalla redenzione altrui. Un virus che infesta educazione e politica, arrivato in Europa dagli Usa.Nonostante tutti gli allarmi lanciati negli anni, il politically correct ha continuato a espandersi, a metastatizzare, e alla fine ha prodotto una cultura cancerosa nota appunto come «wokismo». In origine, la parola woke (risvegliato) era utilizzata all’interno della comunità nera per indicare coloro che stavano all’erta, attenti a non irritare i bianchi, al fine di evitare pesantissime ripercussioni. Nel corso del tempo, tuttavia, il termine ha assunto tutto un altro significato. Oggi indica sostanzialmente i progressisti che si ritengono «risvegliati» nel senso di «illuminati», capaci di sollevare il velo dell’apparenza per cogliere il senso pieno della realtà. I woke si considerano in grado di smascherare i meccanismi nascosti dell’oppressione ai danni delle minoranze, sostengono di aver capito le cause del «razzismo sistemico» e della «eteronormatività». In virtù di questa conoscenza segreta e superiore, agiscono per rieducare il resto dell’umanità. C’è, alla base di questa convinzione, una innegabile matrice religiosa, gnostica. A cui si sommano altre storture tipiche della «mentalità progressista» e della cultura americana. Come scrive Giuseppe De Ruvo sull’ultimo numero di Limes, che contiene una sezione interamente dedicata al wokismo, «l’idea di fondo è che la storia è semplicemente un significante vuoto. Una costruzione ideologica nata per nascondere le storie di marginalizzazione, repressione e discriminazione che hanno portato l’Occidente (in particolare l’America) a essere quel che è. Recuperando elementi gramsciani, i wokisti ritengono che al centro delle storie vi sia una molteplicità di lotte per l’egemonia, finora sistematicamente perse da quelle minoranze (neri, latini, omosessuali e donne) che hanno dovuto sopportare un dominio eteronomo. Essere woke, dunque, significa calarsi in queste lotte per l’egemonia, decostruendone la presunta oggettività storica e cercando di promuovere sia una maggiore rappresentanza delle categorie storicamente oppresse sia una decolonizzazione (o liberazione) delle loro forme di vita». Alle suggestioni gramsciane si unisce, in un fatale connubio, la cosiddetta «politica delle identità» di cui, sempre su Limes, coglie perfettamente i tratti Tiziano Bonazzi, professore emerito dell’Università di Bologna. Il fenomeno dell’identity politics nasce da una «superficiale filosofia del sé che ha portato a fare del proprio inner self, il proprio io autentico, il metro su cui misurare ogni scelta di vita. Si pensi alla therapeutic culture, la ricerca dei modi per vivere in pieno accordo con sé stessi, di cui è stata ed è immagine una personalità dall’enorme influenza come Oprah Winfrey, icona dei media all’insegna della spiritualità, che per molte persone ha sostituito la religione. Si pensi, su un altro versante. alla predicazione dei pastori televisivi degli anni Novanta e di quelli delle mega-church odierne, evangelici o pentecostali, in grado di far giungere i fedeli a una liberazione di fede primigenia ed estatica. In tutti questi casi è il benessere individuale a essere al centro di un universo culturale fondato sul singolo e su comunità nelle quali si entra e si esce in base a scelte personali. Espressione dell’eredità degli anni Sessanta, queste correnti puntano a un volontarismo liberatorio che, in campo politico, si è tradotto nella difesa dell’identità del gruppo, sia esso di matrice etnica, religiosa, di genere, di orientamento sessuale o di collocazione geografica». I risultati li abbiamo sotto gli occhi: piccole comunità sempre più aggressive che competono per conquistare l’egemonia. Sette fanatiche ossessionate dalla redenzione, dalla salvezza individuale, che impongono feroci cammini di purificazione a quanti sono intenzionati a ottenere il paradiso in Terra. Come sempre accade in questi casi, ciò che si raggiunge è soltanto una più subdola (perché mascherata) variante dell’inferno dantesco. Queste minoranze godono dell’appoggio esterno - del favoreggiamento, potremmo dire - del ceto intellettuale, composto per lo più da una élite bianca e di sinistra, che per lo più non appartiene ai gruppi sociali in lotta ma che si sente in dovere - in quanto illuminata e magnanima - di supportarne le battaglie e di individuare soluzioni strepitose per portarle a compimento. Attuando quest’opera di rieducazione, i membri dell’élite ribadiscono nei fatti la propria superiorità. La proliferazione di questi maestri del pensiero ha contribuito a trasformare, dagli anni Novanta a oggi, le università americane in un delirante calderone di risentimento che sfocia in una bestiale orgia censoria, per lo più di marca liberal. Lo racconta Jonathan Zimmerman (professore di Storia dell’Educazione alla University of Pennsylvania) in uno straordinario articolo pubblicato sempre da Limes e dedicato al «suicidio dell’accademia». Egli, da intellettuale di sinistra, punta il dito contro i repubblicani che si oppongono ad esempio alla discussione nelle scuole di tematiche Lgbt (e trascura - ci permettiamo di notare - che queste azioni della destra sono in realtà reazioni all’offensiva woke, ma sorvoliamo).Epperò non trascura affatto le responsabilità della «sua» parte, anzi le affronta con coraggio. «Noi professori urliamo a squarciagola contro le leggi che impongono la censura nei nostri corsi. E tuttavia non facciamo altro che censurarci a vicenda. La verità è che ci troviamo oramai dinnanzi a una vera e propria paura pedagogica (Ed Scare), paragonabile per la sua capacità di limitare la libertà dei professori e di mettergli la museruola - alla paura rossa (Red Scare) degli anni Cinquanta. Ma non si può difendere la libertà con una mano se con l’altra la si nega», scrive Zimmerman. «Se la nuova legge della Florida obbliga i professori a dire che il sesso è esclusivamente binario, il nuovo dogma della biologia impone semplicemente di dire il contrario. Corollario: chi dissente è semplicemente un bigotto. […] Ma questa è la forma classica della censura! Le parole fanno male, quindi dobbiamo cancellarle. Il problema è che non si può fondare un’università o una democrazia su questi presupposti. La crescita intellettuale presuppone il confronto con idee e teorie che possono apparire strane, sconcertanti o addirittura offensive. E lo stesso vale per il processo di autogoverno democratico. Escludere dalla sfera pubblica tutti i discorsi pericolosi e divisivi significa castrare il dibattito». Per mostrare concretamente gli effetti della «cultura della cancellazione», Zimmerman presenta il caso di Carole Hooven, biologa di Harvard. «Era docente presso il dipartimento di Biologia evolutiva di Harvard quando, nel 2021, andò a Fox News per promuovere il suo nuovo libro, T. The Story of Testosterone», scrive Zimmerman.«Durante l’intervista affermò che, biologicamente, esistono solo due sessi: quello maschile e quello femminile. Hooven è stata molto attenta a distinguere il sesso dal genere, che ovviamente può assumere molte forme diverse. Ripetendo per tre volte la parola rispetto, la studiosa ha affermato: Possiamo trattare le persone con rispetto, rispettare le loro identità di genere e usare i loro pronomi preferiti. La comprensione dei fatti biologici non ci impedisce di trattare le persone con rispetto. Non c’è stato nulla da fare. Il direttore della task force per la diversità e l’inclusione del suo dipartimento è prontamente intervenuto su X per denunciare i commenti transfobici e carichi d’odio di Hooven. […] La macchina dell’indignazione digitale si è messa immediatamente in moto. Gli studenti hanno lanciato una petizione per denunciare Hooven, che è rapidamente diventata una sorta di paria. Come lei stessa ha dichiarato, era costretta ad andare in giro per il campus a testa bassa, temendo che qualcuno la riconoscesse». È andata a finire che la professoressa ha dovuto lasciare Harvard. Zimmerman nota che, stando ai più recenti studi, «la maggior parte dei corsi di formazione sulla diversità non riduce gli atteggiamenti e i comportamenti razzisti. Al contrario è più probabile che questi vengano rafforzati». Precisa che il vero problema americano riguarda la qualità dell’insegnamento. E conclude affermando che, se anche le censure repubblicane sono un problema, il wokismo resta «un pericolo reale». Un pericolo che, purtroppo, noi europei abbiamo importato senza farci troppe domande. Un virus che ha infettato la nostra politica e la nostra accademia. E da cui non sarà così facile liberarsi.