2025-11-17
Armi, droga, migranti. Che cosa rischiamo se le milizie jihadiste si prendono il Mali
Il gruppo armato Jnim avanza seminando morte e bloccando strade e commercio. Le forze governative, sostenute dai russi, annaspano.Ag Ghaly è riuscito in ciò che nessun capo tuareg aveva mai ottenuto: trasformare la lotta per l’autonomia in una crociata globale in nome di Maometto. Finanziandosi attraverso il controllo delle rotte di esseri umani. Lo speciale contiene due articoli. Una giovane influencer maliana, Mariam Cissé, lo scorso 6 novembre è stata sequestrata e uccisa pubblicamente il giorno seguente a Tonka, nel Nord del Mali, per mano di miliziani jihadisti che la accusavano di collaborare con l’esercito. La notizia è stata confermata da fonti della sicurezza e da persone a lei vicine. La ragazza, appena diciannovenne, era molto popolare su TikTok, dove oltre 90.000 utenti seguivano i suoi video dedicati alla vita quotidiana nella regione di Timbuctù. Secondo il racconto del fratello, i miliziani l’avrebbero trascinata in una piazza del centro e giustiziata con un colpo di fucile davanti agli abitanti, in un’esecuzione destinata a servire da monito per la popolazione. Il Mali è oggi un Paese in agonia, soffocato da un blocco imposto dai miliziani del Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (Jnim), formazione jihadista legata ad Al-Qaeda nel Maghreb islamico. Nella città di Léré, nel Mali centrale, 14 civili sono stati uccisi la scorsa settimana in un attacco rivendicato dal gruppo. Secondo testimoni e fonti locali, i jihadisti hanno rapito 12 persone, poi giustiziate sommariamente. Un abitante fuggito in Mauritania ha raccontato a Jeune Afrique che i miliziani avevano imposto un ultimatum di 24 ore per lasciare Léré, minacciando di uccidere chiunque fosse rimasto. «Chi si rifiutava di partire veniva giustiziato o preso in ostaggio», ha confermato un altro rifugiato.Da settembre il Jnim ha intensificato gli assalti contro le principali vie di comunicazione del Paese, imponendo blocchi stradali, sequestrando autocisterne e tagliando i collegamenti commerciali. È una strategia calcolata per piegare Bamako: soffocare l’economia e spingere la popolazione contro la giunta militare al potere. Nel Mali centrale intere comunità sono isolate, i mercati non ricevono più rifornimenti e i prezzi dei beni di prima necessità sono esplosi. Persino la capitale è ora a rischio isolamento. Le mappe degli ultimi attacchi mostrano come il Jnim stia cercando di circondare la capitale colpendo le arterie che la collegano ai porti di Dakar e Abidjan, indispensabili per l’approvvigionamento di carburante e viveri.La giunta, salita al potere con un colpo di Stato nel 2021 e guidata dal colonnello Assimi Goïta, ha promesso di riportare la sicurezza dopo l’espulsione delle forze francesi e della missione Onu. Per farlo, ha fatto ricorso ai miliziani russi, inizialmente legati alla Compagnia militare privata Wagner, oggi riorganizzati sotto un comando diretto del Cremlino. Tuttavia, nonostante la presenza di centinaia di mercenari dispiegati nel Paese, la minaccia jihadista non è diminuita. In molte aree rurali i miliziani russi si sono limitati a proteggere i siti minerari d’oro e le basi militari, senza riuscire a garantire la sicurezza delle popolazioni civili. Il loro intervento si è tradotto in un incremento delle tensioni e in accuse di violazioni dei diritti umani, alimentando il risentimento verso il potere centrale e la Russia.Il deterioramento della sicurezza ha spinto Regno Unito e Stati Uniti a ordinare, a fine ottobre, il ritiro del personale non essenziale. Diverse ambasciate hanno invitato i propri cittadini ad abbandonare il Mali, dove la violenza e la mancanza di beni primari stanno portando il sistema al collasso. Da settimane camion e autobus restano fermi per mancanza di carburante, le scorte alimentari si esauriscono e la popolazione affronta code interminabili davanti alle pompe di benzina. «Se non arriva carburante, tutto si ferma: trasporti, ospedali, scuole, commercio», spiega Charles Thiemélé, direttore dello sviluppo per l’Africa della società logistica svizzera Aot Trading. «Ogni cosa in Mali si muove su strada. Quando le strade diventano insicure o non c’è più benzina, l’economia si blocca». Il tentativo del governo di calmare la situazione fissando un prezzo massimo di 775 franchi Cfa al litro (circa 1,18 euro) non ha avuto effetto. Le file alle stazioni di servizio si allungano per chilometri, mentre il mercato nero esplode. In molte zone il prezzo ha superato i 2.200 franchi Cfa (circa 3,30 euro), e in alcune province il carburante è semplicemente introvabile. Negli ospedali i generatori di corrente si stanno guastando per mancanza di manutenzione e rifornimenti e le ambulanze sono costrette ad attendere ore accanto ai veicoli dei militari o dei Vigili del Fuoco, sperando di ottenere qualche litro di carburante. Secondo l’economista Modibo Mao Makalou il commercio illegale di benzina, già florido prima della crisi, è esploso, con forti ripercussioni anche nei Paesi confinanti. In Guinea, nelle città di Kankan e Siguiri, il carburante destinato al mercato interno viene dirottato verso il Mali, e una tanica da 20 litri ha raggiunto il prezzo record di un milione di franchi guineani, quattro volte superiore rispetto a poche settimane fa. Il Mali importa tutto il suo carburante, principalmente dalla Costa d’Avorio (59%) e dal Senegal (39%). Le rotte che collegano Bamako a Dakar e Abidjan sono oggi tra gli obiettivi principali dei jihadisti, che attaccano sistematicamente i convogli di autocisterne. «Il Paese è doppiamente vulnerabile», spiega ancora Makalou. «Da un lato perché non produce petrolio, dall’altro perché non ha accesso al mare. Siamo dipendenti dai nostri vicini per ogni importazione. Bloccare le strade significa soffocare il Paese».La crisi del carburante ha innescato un effetto domino che ha investito tutti i settori. La produzione elettrica, già inaffidabile, è crollata: il 69% dell’energia del Mali proviene da centrali termiche alimentate a gasolio, mentre il potenziale solare - che copre appena il 4% - resta quasi del tutto inutilizzato. In molte zone rurali non arriva più elettricità, e anche nella capitale si registrano blackout quotidiani. La situazione è altrettanto drammatica nel settore agricolo. I jihadisti, isolando i mercati dalle aree produttive, hanno colpito la sicurezza alimentare urbana e la sopravvivenza degli agricoltori. Frutta, verdura, cereali e acqua non riescono più a raggiungere le città, e i piccoli produttori non trovano sbocchi per i loro raccolti. Uno studio recente sottolinea che oltre l’80% del commercio estero e il 90% di quello interno avvengono su strada: un dato che rende evidente come la guerra del Jnim non sia fatta solo di armi, ma anche di logistica.Le conseguenze del blocco si estendono fino al sistema commerciale internazionale. Il 7 ottobre, la Mediterranean Shipping Company (Msc) - una delle più grandi compagnie di navigazione al mondo - ha annunciato la sospensione di tutte le spedizioni verso il Mali. «Non accetteremo più prenotazioni per il Paese finché la situazione non sarà stabilizzata», ha comunicato l’azienda, precisando che la misura riguarda tutti i porti principali, da Abidjan a Dakar, fino a Lomé, Tema e Conakry. L’effetto sull’economia è devastante: senza accesso alle vie marittime e con le rotte terrestri impraticabili, il Mali rischia un isolamento totale. La crisi attuale non è più una semplice emergenza di sicurezza: è una forma di guerra economica pianificata. Il Jnim, dopo aver espulso in molte aree le forze governative, punta a legittimarsi come potere alternativo. In alcune regioni controlla i mercati, impone tasse e gestisce i rifornimenti. Bamako, priva di risorse e sempre più isolata, tenta di contenere l’emergenza con l’aiuto russo, ma la popolazione perde fiducia. E mentre la giunta celebra la sovranità riconquistata dopo l’espulsione delle missioni occidentali, il Paese che governa rischia di morire lentamente, strangolato da chi ha trasformato la miseria in un’arma.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/armi-droga-migranti-mali-2674300078.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-volto-del-terrore-in-tutto-il-sahel-da-nobile-ribelle-a-fanatico-religioso" data-post-id="2674300078" data-published-at="1763314930" data-use-pagination="False"> Il volto del terrore in tutto il Sahel, da nobile ribelle a fanatico religioso Nel Sahel, dove le mappe si dissolvono tra sabbia e sangue, il nome di Iyad Ag Ghaly evoca potere, fanatismo e sopravvivenza. Ex comandante ribelle e oggi leader del Jnim - Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin, la più potente formazione jihadista dell’Africa Occidentale, Ag Ghaly è riuscito in ciò che nessun capo tuareg aveva mai ottenuto: trasformare la lotta per l’autonomia in una crociata globale sotto l’egida di al-Qaeda. Nato intorno al 1958 a Kidal, nel Nord del Mali, proveniente da una nobile famiglia tuareg, Ag Ghaly emerse negli anni Novanta come figura di spicco della ribellione contro il governo di Bamako. In quella fase la sua battaglia era politica, non religiosa: chiedeva riconoscimento culturale e partecipazione alle risorse del Nord. Dopo gli accordi di pace, divenne mediatore e diplomatico, persino rappresentante del Mali in Arabia Saudita. Fu lì, nel cuore del wahhabismo, che si radicalizzò: le prediche salafite, le reti di fondamentalisti e la frustrazione per la corruzione del potere maliano lo spinsero verso l’islamismo militante. Nel 2012, approfittando del caos politico seguito al colpo di Stato a Bamako, fondò Ansar Dine, movimento jihadista che conquistò in poche settimane città come Timbuctù e Gao, imponendo la sharia con brutalità. Le immagini delle amputazioni pubbliche e della distruzione dei mausolei di Sidi Yahia e Sidi Mahmoud fecero il giro del mondo. L’intervento francese del 2013, con l’operazione Serval, ne disperse le truppe ma non ne spezzò l’influenza. Rifugiatosi nelle montagne di Kidal, Ag Ghaly continuò a tessere la sua rete, fino a unificare nel 2017 i principali gruppi jihadisti saheliani sotto la sigla Jnim, legata ad al-Qaida e guidata personalmente da lui. Oggi il Jnim è una macchina perfettamente adattata al deserto. Le sue milizie controllano villaggi, strade e mercati, impongono tributi e forniscono protezione a chi paga. Ma il segreto della loro forza economica risiede nei traffici illeciti: armi, droga e, soprattutto, migranti.Nelle aree sotto la sua influenza, il traffico di migranti diretti verso la Libia e il Mediterraneo è diventato una vera industria del deserto. I convogli che partono da Gao, Timbuctù o Mopti attraversano zone controllate dal Jnim, che impone «tasse di passaggio» a ogni carovana. Il gruppo offre «protezione» ai passeur, media con le tribù locali e, se necessario, sequestra i migranti per chiedere riscatti. Chi non paga viene spesso abbandonato nel deserto o venduto a reti criminali libiche. È un sistema che unisce economia e terrore, in cui i corpi dei migranti diventano moneta di scambio. Queste rotte, che si dirigono verso Sebha, Murzuq e Bani Walid in Libia, alimentano un flusso costante di uomini e denaro. Il Jnim, grazie alla sua posizione geografica, controlla gli snodi tra Mali, Niger e Algeria, e collabora con trafficanti tuareg e arabi, non solo per estorcere denaro ma anche per infiltrare combattenti o trasportare armi. Il traffico di esseri umani diventa così una componente della strategia jihadista: garantisce fondi, influenza e radicamento territoriale. Il legame tra jihadismo e migrazione clandestina rappresenta uno dei fenomeni più pericolosi per la sicurezza regionale ed europea. Ogni convoglio che attraversa il Sahel è una fonte di reddito per i gruppi armati, e allo stesso tempo una rete di copertura per spostare uomini addestrati. Per le intelligence occidentali, il deserto è ormai un unico spazio operativo dove i confini tra terrorismo e criminalità organizzata si confondono.Iyad Ag Ghaly, definito dagli Stati Uniti un «terrorista globale», è oggi uno degli uomini più ricercati del Continente. Washington ha offerto una ricompensa di 10 milioni di dollari per la sua cattura. Ma il «signore del deserto» resta inafferrabile. Vive protetto dalle tribù Ifoghas, si muove tra Mali, Algeria e Niger, e continua a impartire ordini ai suoi comandanti, come Amadou Koufa, leader della Katiba Macina, responsabile di centinaia di attacchi contro militari e civili. La parabola di Ag Ghaly è il simbolo del fallimento delle politiche occidentali nel Sahel: un ex ribelle trasformato in emiro jihadista, che ha saputo trasformare il vuoto dello Stato in una struttura di potere parallela. Nelle sue mani, religione, economia e terrore si fondono in un’unica visione. Mentre i governi locali, sostenuti da milizie straniere e contractor russi, faticano a contenere la minaccia, il Jnim continua a prosperare. Iyad Ag Ghaly non è solo il volto del jihad africano: è il prodotto di un mondo in cui la disperazione dei migranti, l’impunità dei trafficanti e l’abbandono delle periferie africane convergono in un’unica rotta. Una rotta che porta, ancora oggi, dal deserto maliano fino alle coste del Mediterraneo.