2023-11-02
«Con il mio Bach dal suono italiano cerco una voce che esprima l’eterno»
La pianista canadese Angela Hewitt (Ansa)
La pianista canadese Angela Hewitt ha inaugurato stasera la stagione alla Fazioli Concert hall: «Mio padre organista a Ottawa mi ha indicato la via. La danza ha fatto il resto. Gould lo sento lontano ma alcune sue intuizioni le ho fatte mie».«Lady Bach» viene dal Canada come Glenn Gould, anche se sembra il suo opposto. Vive a Londra, ma ama il nostro Paese, il pianoforte italiano creato da Paolo Fazioli e il lago Trasimeno, dove si è costruita una casa e ha fatto nascere un festival. Per il Guardian è «la più grande interprete del Kantor della nostra epoca» e la rivista Gramophone l’ha inserita nella hall of fame. D’altra parte Angela Hewitt, classe 1958, studia le fughe di Johann Sebastian anche al ristorante. Come? Allenandosi ad ascoltare quattro o cinque discorsi contemporaneamente. Un rompicapo che poi le permette, quando torna allo strumento, di far cantare ognuna delle voci che Bach fa convivere miracolosamente, senza generare una Babele musicale. Questa sera, a Sacile (Pordenone), toccherà a lei inaugurare la diciottesima stagione concertistica voluta dall’ingegner Fazioli nella Concert hall che ha realizzato nel cuore della sua fabbrica, a pochi passi dai laboratori nei quali vedono la luce i suoi preziosi figli a 88 tasti. Il soprannome che le hanno cucito addosso le piace?«Certo, meglio “Lady Bach” di “Lady chiunque altro”, scelga lei. Non esiste musica più grande di quella del compositore tedesco. Le sue opere traboccano di gioia, senso dell’eternità, tristezza profonda e humor. E, con il loro magico equilibrio tra perfezione e umiltà, fanno crescere musicalmente, ma anche a livello umano e spirituale».Tra i concorsi vinti, è stato quello che porta il suo nome a cambiarle la vita?«Non c’è dubbio che il primo posto all’International Bach piano competition di Toronto, nel 1985, sia stato decisivo per la mia carriera. Mi ha dato la possibilità di incidere per Deutsche Grammophon e di suonare in giro per il mondo. Anzi, da quel momento ho proprio potuto smettere di “gareggiare”. Tenga presente che era tutta un’altra epoca: non c’erano Internet, i social, Youtube. La soddisfazione maggiore comunque non fu nel premio in sé».E in cosa allora?«Nel riconoscimento di chi sedeva in giuria: Olivier Messiaen, sua moglie Yvonne Loriod, Leon Fleisher e tanti altri musicisti straordinari».Quel titolo era tra l’altro dedicato a Glenn Gould, scomparso solo tre anni prima.«Mi ricordo che da piccolina vidi questo strano pianista in televisione, ma già a 4 anni capii che non si poteva imitare. Le sue scelte sono estreme: chi lo segue può soltanto diventare la sua brutta copia. Gould non è mai stato il mio punto di riferimento nello studio di Bach, lo era mio padre, organista nella cattedrale di Ottawa».Ne Il soccombente di Thomas Bernhard, del 1983, due validi pianisti partecipano a una masterclass di Vladimir Horowitz, ma dopo aver ascoltato Gould decidono di abbandonare per sempre lo strumento. Uno dei due addirittura si toglie la vita. Davanti a Gould si può anche non soccombere?«Certo, ma nel mio caso conta soprattutto la nostra profonda diversità. Era inevitabile prendere strade differenti: lui odiava il sole, io lo amo; lui non sopportava il rosso, io lo adoro; lui rifuggiva il contatto con le persone, io lo cerco. È la ragione per cui continuo a fare concerti, altrimenti me ne starei a casa a esercitarmi da sola. Ad ogni modo, un giorno suonai su uno dei pianoforti che erano appartenuti a Glenn Gould e conobbi suo padre, che aveva 94 anni».E come andò?«Mi disse una cosa bellissima: “Quando la radio passa la musica di Bach e capisco che non è Glenn, riconosco se c’è lei al pianoforte”. È tutto merito di Johann Sebastian, che lascia molta libertà all’interpretazione. Non è così difficile riconoscere un’esecuzione di Gould, Rosalyn Tureck, András Schiff o della sottoscritta».Se le chiedessi di indicarmi una scelta interpretativa di Glenn Gould che non seguirebbe mai e un’altra che invece reputa geniale?«Forse non dovrei dirlo perché non se n’è mai accorto nessuno. Nel secondo movimento del Concerto per pianoforte e orchestra in sol minore n. 7 di Johann Sebastian Bach eseguo la voce interna che si è inventato Gould. Il compositore non l’aveva prevista, ma è perfetta. Il suo Mozart invece lo trovo orribile. Però devo dire che ha una grande intuizione nel Concerto n. 24 in do minore: nell’Allegretto suona tutte le variazioni del tema alla stessa velocità. Funziona! Ho iniziato a farlo anch’io».Passando al pianoforte Fazioli, su queste colonne l’ingegnere-pianista che dà il nome alle sue creature ci aveva confidato che alla base della sua avventura non c’era la volontà di sfidare il predominio tedesco o i giganti orientali, ma la ricerca di un suono «solare, brillante e ricco di sfumature». In una parola: italiano. Lei cosa ci trova?«Nel 1995 incontrai uno dei suoi strumenti in un’enorme sala da concerto a Sidney. E rimasi colpita dalla impressionante risposta che il pianoforte mi dava nelle sfumature del suono, in base a come modificavo il tocco. Anche oggi è l’aspetto più sfidante di questi pianoforti perché spalancano all’esecutore un mondo di inesplorate possibilità. Certo, ci vuole immaginazione. Credo che sia questo il motivo per cui Fazioli piace molto anche ai jazzisti».Qualche anno fa ha raccontato sui social di aver vissuto un vero e proprio incubo. A Berlino alcuni esperti traslocatori, che dovevano occuparsi di uno dei soliti spostamenti dello strumento, vennero da lei mortificati, confessandole di averle completamente distrutto il suo amato pianoforte italiano. Per sdrammatizzare, si potrebbe dire che era una vendetta della Germania… Tornando seri, lei ne parlò come se avesse perso una persona cara: «Era il mio migliore amico, il miglior compagno. Spero che sia felice nel Paradiso dei pianoforti». Il legame può diventare così profondo?«Assolutamente sì. Fu un grande dolore, uno choc. Per fortuna c’è stato un lieto fine. Paolo Fazioli mi preparò cinque strumenti scelti ad arte e me li fece provare. Oggi sono felice del mio nuovo amico. Credo di essere evoluta insieme a questo pianoforte. Basta ascoltare il Clavicembalo ben temperato che avevo inciso nel 1998 e la registrazione del 2009. Nel passaggio da Steinway a Fazioli ci sono molti più colori e forse emerge un altro tratto della mia formazione: l’essere stata una ballerina».Nella musica del Kantor l’elemento della danza è rilevante?«La sua opera monumentale contiene tutta la vita. Troviamo la danza: pensiamo ad esempio alle Suite francesi. C’è il canto nella sua dimensione corale, che ho potuto assorbire dai miei genitori, entrambi musicisti, impegnati nella cattedrale. C’è la grande architettura delle fughe, che mio padre affrontava all’organo. E ovviamente una fortissima carica spirituale, visto che con la sua musica Bach rendeva lode al Creatore».Tanto è vero che siglava con S.d.g. (Soli deo gloria) ogni sua partitura sacra. Il critico musicale Wilfrid Mellers diceva che nell’Arte della fuga «Bach suona per Dio e per sé stesso, in una chiesa vuota». È d’accordo?«Su questo argomento, provo sempre a spiegare ai giovani pianisti che non è necessario essere credenti per interpretare la musica del compositore tedesco, ma non si può non percepire la sua fede in ognuna delle note che ha scritto. Nemmeno una Sarabanda - e torniamo ancora una volta alla danza - può essere eseguita con trivialità. Forse questa coscienza si sta un po’ perdendo».Dopo aver affrontato l’intera opera bachiana per tastiera, ora è alle prese con l’integrale delle Sonate di Wolfgang Amadeus Mozart. Nel libretto del suo ultimo disco Hyperion (Universal), all’interno di questo percorso, lei cita una frase del pianista Artur Schnabel: «Mozart è troppo semplice per i bambini, ma è troppo difficile per gli adulti». È così? «Assolutamente sì. Più passano gli anni e più ci si rende conto di quante decisioni ci siano da prendere. Piccole variazioni nel tempo o nell’articolazione cambiano radicalmente il carattere dei suoi brani. Se Bach mi fa pensare alla danza e al coro, Mozart mi riporta al canto solistico. Le sue Sonate a me sembrano pura musica vocale».Mi spieghi meglio.«Se va a vedere su Twitter, qualche giorno fa ho postato un video con un assaggio del Rondò in la minore K 511. Secondo me in questo brano il pianista dev’essere sia l’orchestra, sia il cantante. E la mano destra deve riuscire a imitare la voce umana».A proposito di brani che affrontati nell’infanzia o nella maturità cambiano totalmente, nell’album c’è anche la Fantasia in re minore K 397, che lei eseguì a nove anni, al suo primo recital a Toronto.«A distanza di anni è molto più chiaro che il difficile in Mozart non è suonare le note giuste, ma tutto il resto. Ci sono una marea di dettagli da curare».Prima di lasciarci, un’ultima curiosità: come le è venuto in mente di creare il Trasimeno music festival? «In fondo in fondo devo avere del sangue italiano perché il vostro Paese mi ha sempre fatto sentire viva e mi ha riempito di entusiasmo. Quando ho visto le bellezze dell’Umbria non ho avuto dubbi: in questo luogo magico devo portarci la grande musica. Mi costa un sacco di energie e di risorse - solo per badare alla burocrazia italiana servono cinque persone - ma, come insegna Bach: nella vita non si può fare tutto solo per la gloria personale».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.