2019-11-25
Amor di Polenta. Gialla, bianca, mista: cosa c’è da sapere sul piatto della tradizione
In passato era l'alimento base della cucina povera, soprattutto nelle regioni settentrionali. Oggi è di moda mangiarla anche al posto del pane. Perché fa bene, mette buonumore e non solo...In questo periodo di demonizzazione dei leghisti da parte meridionale, urge ricordare un fatto. Al campanilismo nordico che chiamava «terroni» gli italiani del Sud è sempre corrisposto un campanilismo meridionale che appellava «polentoni» quelli del Nord. Tuttavia l'epiteto, offensivo quanto quello di terrone, al netto dell'insulto veicolava una verità storico-alimentare: «polentone» voleva dire «mangiatore di polenta», alimento decisamente diffuso nella cucina settentrionale, soprattutto quella povera. Tanto Nord ha superato tremendi periodi di carestia grazie alla polenta - pietanza ricca di carboidrati - al posto della pasta, alimento di maggior lusso che magari giungeva in tavola la domenica. Oppure no, nemmeno nel giorno festivo. Infatti, tanto Settentrione ha anche patito - talvolta fino a morirne - parecchia pellagra: quella polenta era l'unico alimento che forniva carboidrati e, soprattutto, l'unico alimento in assoluto a disposizione per giorni, mesi, anni.Il termine «polentone» non è di sola pronuncia meridionale e ostile: i lombardi della Val Padana chiamano con questo epiteto chi possiede una personalità, diciamo così, da bradipo cioè molto flemmatica e coi movimenti goffi. In questo caso «pulentùn», così si dice in Lombardia, trasferisce sull'essere umano quella caratteristica della polenta cotta che chiunque l'abbia preparata, o vista preparare almeno una volta in vita sua, riconoscerà. Ovvero essere una crema, sì, ma molto densa e pesante, quindi decisamente lenta a scivolare dal mestolo al piatto. O dal paiolo (tipico è quello in rame col manico che una volta si appendeva al gancio sul camino) alla tavola di legno. Su questa si usa farla colare per mangiarla tutti insieme oppure si porziona e si impiatta, appena diventa più soda, con la tipica «coltella di legno», che di legno ha il manico ma anche la lama. O ancora con il filo.La polenta si prepara cuocendo a lungo (dai 30 ai 50 minuti) un impasto di acqua bollente salata e farina di mais, rimestando con un bastone di legno di nocciolo detto «cannella». Per capire quando è pronta, si lascia andare un momento dalle mani la cannella: se resta in piedi da sola, vuol dire che la polenta ha raggiunto la perfetta densità. Oggi esistono paioli con girapolenta elettrico incorporato che non consentono di effettuare questa prova, ma si può usare un normale cucchiaio di legno da cucina. La farina da polenta è diversa dalla farina per altre preparazioni: per la polenta presenta una grana grossa e si chiama «bramata», da «bramatura» che a sua volta deriva da «sbramatura», il procedimento col quale si tolgono la lolla e l'embrione alle cariossidi del riso con lo sbramino. In questo caso, si bramano i chicchi di mais e non di riso prima di macinarli, preferibilmente a pietra.La polenta è un piatto italiano molto antico, per lo più a base di farina di mais da quando Cristoforo Colombo portò le note pannocchie dall'America, insieme ad altre colture diventate altrettanto importanti nella nostra cucina come, per esempio, la patata e il pomodoro. Ciò non significa, però, che prima del mais la polenta non esistesse nella cultura alimentare dei nostri antenati, né che quella di mais abbia completamente archiviato le altre farine usate per fare la polenta. Addentriamoci in questo complesso universo.Il mais viene nominato nell'Erbario di Ulisse Aldrovandi (Bologna,1551) e in un'annotazione alla seconda edizione del testo Delle navigationi et viaggi (Venezia, 1554) Giovan Battista Ramusio scrive: «La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l'Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n'è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa bona seminano i campi intieri de ambedui i colori».Dopo ben 465 anni, dal mais biancoperla si ottiene ancora una farina per polenta che è presidio Slow food, anche grazie all'attivismo dell'Associazione conservatori mais biancoperla nata nel 2003. Oltre alla particolarità del colore, presenta la caratteristica che le pannocchie bianche sono a impollinazione libera (auto-fecondante), come tutti i mais antichi nostrani, che hanno una resa per ettaro di 35 quintali contro i 150-180 dei mais ibridi e la cui coltivazione sta diventando una forma di resistenza alla globalizzazione alimentare e all'agricoltura intensiva.La storia del mais biancoperla, in questo senso, è emblematica. Alla fine del Seicento, l'agronomo Giacomo Agostinetti nei Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa, parla del «sorgoturco bianco», antenato dell'odierno biancoperla che nell'Ottocento si diffonde copiosamente anche in virtù della sua maggiore conservabilità rispetto ad altre qualità.In molte aree del Friuli e del Veneto, si mangiava (e si mangia ancora) polenta soprattutto bianca, considerata ben più pregiata rispetto alla gialla. Negli anni Cinquanta, tra Treviso, Padova, Vicenza, Venezia e Udine, ben 58.200 ettari risultano coltivati a biancoperla. Il mais bianco è ricchezza, peculiarità e identità - agricola e alimentare - del Nord. Poi, però, dal dopoguerra in poi, questa varietà, insieme con le sue consorelle antiche, si accascia sotto i colpi della concorrenza delle sementi ibride di mais statunitense, estremamente più produttive. I nostri mais diventano allora coltura di poche «enclave», che oggi però riprovano a espandersi «facendo rete»: un esempio è il manifesto di Slow Mays (il progetto di Slow food per valorizzare le piccole comunità italiane che producono mais tradizionali n.d.r), cui aderiscono vari coltivatori di mais antichi. Una trentina tra cui Rosso di Aquileia, socchievina, resiano, biancoperla, pignoletto della val Cosa, dente di cavallo, cinquantino rosso di Codroipo. E non solo nel Nord (Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia) ma anche in Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo.I nostri mais corrono il pericolo di estinzione (per il dipartimento regionale di Veneto agricoltura, il biancoperla è tra i «nove gioielli veneti da salvare») e una prova è data dal fatto che molti di noi non conoscono nemmeno queste varietà.Un derivato odierno del «mahiz di colore rosso», di cui scriveva Giovan Battista Ramusio è oggi il Rostrato Rosso di Rovetta, coltivato ai piedi della Presolana (in provincia di Bergamo) e protetto dal marchio De.C.O. (Denominazione Comunale d'Origine). Lo caratterizzano il bel colore arancione-rosso intenso delle sue spighe e il rostro dei chicchi: è detto «rampì» in bergamasco e dalla sua macinazione a pietra si ricava una gustosa farina per la tradizionale polenta bergamasca.Insomma, quello della polenta è davvero un universo, che comprende, ricordiamocelo, non solo i mille e uno tipi di mais del nostro territorio, ma anche altri cereali. Ben prima del 1492, infatti, e quindi di Colombo, si macinavano cereali tra le pietre e poi si cuoceva la farina ricavata in acqua bollente. Gli antichi romani realizzavano una polenta di farro, ma prima del mais - e anche dopo - si mangiava anche la polenta di segale, orzo, grano saraceno, miglio. Il termine «polenta», infatti, viene dal latino puls. La puls era una polenta di farro (in latino far da cui deriva farina).Oltre alla giusta messa in discussione della polenta in relazione al mais (cioè il fatto che la polenta di altri cereali esisteva prima di quella di mais), alcuni confutano perfino l'importazione colombiana del mais. L'introduzione del mais in Italia attraverso Cristoforo Colombo, infatti, è messa in dubbio da chi rintraccia nella dizione «granoturco», altro nome del mais, e nel fatto che a Venezia prima di Colombo si preparassero dolcetti a base di farina di mais. Prove, entrambe, che il mais sarebbe stato portato qui prima di Colombo, dai persiani sottomessi ai turcomanni: il mais era il grano dei turcomanni.Ancora più interessante, fra le tante questioni storiche che troviamo nel paiolo della polenta, è l'aspetto nutrizionale. La polenta scalda, «fa minestra» perché è liquida e si mangia col cucchiaio ma fa anche un po' pasta perché di certo non è un brodo. E fa anche pasto completo quando è accompagnata, oltre che da una profumata salsa di pomodoro, da uno dei suoi tanti condimenti tipici che comprendono carne, pesce, formaggio, legumi. In sostanza, si abbina con tutto. Ci troviamo, dunque, di fronte a un comfort food prima dell'affermazione del concetto di comfort food.Ma la polenta ci fa anche bene. Innanzitutto, quella di mais per la sua assenza di glutine è consigliata ai celiaci. Poi, in 100 grammi di polenta di farina gialla di mais (equivalente a 362 calorie) troviamo: 8,12 grammi di proteine, 3,59 grammi di grassi, 76,89 grammi di carboidrati, 7,3 grammi di fibre. La polenta ha praticamente uguali calorie della pasta (che ne ha 371), uguali carboidrati (la pasta ne ha 74,67 grammi) ma meno proteine (la pasta ne contiene 13,04 grammi), più grassi (la pasta ne ha 1,51 grammi) e più fibre (la pasta ne ha 3,2 grammi ). Chi deve limitare (o incrementare) grassi o fibre, quindi, lo ricordi. Annotiamo anche che, per il minore contenuto proteico, risulta ridotto l'impegno della funzionalità renale rispetto all'assimilazione della pasta. Il resto dei valori nutrizionali della polenta ci descrive un cereale importante da alternare agli altri nell'alimentazione, non soltanto invernale.La polenta si può consumare anche rassodata e tagliata a cubetti, grigliati o anche no, al posto del pane, in ogni stagione. E contiene anche un mix di sali minerali e vitamine: calcio 6 milligrammi, ferro 3,45 grammi, magnesio 127 milligrammi, fosforo 241 milligrammi, potassio 287 milligrammi, sodio 35 milligrammi, zinco 1,82 milligrammi, rame 0,193 milligrammi, manganese 0,498 milligrammi, selenio 15,5 microgrammi, tiamina (vitamina B1) 0,385 milligrammi (pari al 27,5% della dose giornaliera raccomandata o Rda), riboflavina (vitamina B2) 0,201 milligrammi (pari al 12,6% della Rda), niacina (vitamina B3 o PP) 3,632 milligrammi (pari al 20,2% della Rda), acido pantotenico (B5) 0,425 milligrammi (7,1% della Rda), piridossina (vitamina B6) 0,304 milligrammi (15,2% della Rda). E ancora: folati 25 microgrammi, vitamina A 11 microgrammi, beta-carotene 97 microgrammi, alfa-carotene 63 microgrammi, luteina + zeaxantina 1.355 microgrammi, vitamina E 0,42 milligrammi (pari al 4,2% della Rda).Sintetizzando: la polenta di mais aiuta a regolare la glicemia grazie al suo indice glicemico basso, stimola la circolazione grazie alla rutina (glucoside che rafforza i vasi sanguigni utile contro la stenosi aortica, il restringimento della valvola aortica che compromette la funzionalità del cuore). Anche i liquidi sono drenati meglio e quindi la polenta può presentare anche attività drenante e anticellulite.Grazie al triptofano, il precursore della serotonina che conosciamo bene, aiuta anche il nostro buonumore, contrasta l'ansia, l'insonnia e - secondo alcuni - anche il bruxismo, quel digrignare i denti notturno che colpisce il 40% della popolazione (il 10-15% in forma grave). Essere «polentoni», dunque, fa bene alla salute.