2024-10-13
Altra grana in vista per Scarpinato. In Antimafia le carte sul covo di Riina
Roberto Scarpinato (Imagoeconomica)
L’ex pm firmò insieme a Giuseppe Pignatone la richiesta di archiviazione sul padrone della casa dove si nascondeva il boss di Cosa nostra.La chioma fluente di Roberto Scarpinato, monumento equestre vivente della lotta alla mafia, spunta come il prezzemolo in tutte le vicende su cui stanno indagando la Procura di Caltanissetta e la commissione Antimafia di cui il senatore grillino fa parte.L’ultimo episodio è quello rivelato dalla Verità delle telefonate che l’ex pm ha scambiato con l’ex collega Gioacchino Natoli, oggi indagato per favoreggiamento della mafia. Conversazioni in cui i due preparavano l’audizione dello stesso Natoli a Palazzo San Macuto. Scarpinato è anche cofirmatario della richiesta di archiviazione, datata luglio 1992, per l’inchiesta «mafia e appalti», indagine che oggi la Procura nissena e la famiglia di Paolo Borsellino ritengono possa essere il vero movente della strage in cui ha perso la vita il giudice. Ma adesso la figura di Scarpinato e di altri suoi colleghi compare in filigrana anche in un appunto inviato dal generale dei carabinieri in pensione Domenico Strada alla stessa commissione Antimafia. Qui non stiamo parlando di un quisque de populo, ma di un investigatore che negli anni ‘90 in qualità di comandante della quinta sezione del Nucleo operativo di Palermo, ha trattato indagini riferite al condizionamento mafioso degli appalti e all’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali nei confronti di numerosi imprenditori fra cui Antonino Buscemi, Giovanni Bini, Agostino Catalano, Benedetto D’Agostino, ma soprattutto l’ingegner Giuseppe Montalbano, l’uomo che tra il 1985 e il 1993 ospitò in veste di affittuario Totò Riina in una villa appena acquistata. Si tratta di imprenditori coinvolti più o meno direttamente nella vicenda «mafia e appalti» e alcuni dei quali già emersi nelle audizioni svolte dalla commissione presieduta da Chiara Colosimo.Nel suo denso appunto Strada evidenzia come già nei processi degli anni ‘80 fosse emersa la centralità degli interessi di Cosa nostra negli appalti, a partire dal processo per la morte di Piersanti Mattarella. L’ufficiale riscostruisce l’evoluzione della Piovra che, partita con estorsioni e pizzo, a fine anni ‘90, si mette in proprio con un’azienda come la Reale costruzioni con cui partecipa alle gare. Nella sua nota Strada si occupa lungamente della vicenda di Montalbano, imprenditore impegnato nel settore del turismo, passato indenne da diverse inchieste e, infine, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il generale lumeggia anche la figura di Pino Lipari, più volte citato nell’informativa del Ros «mafia e appalti», un soggetto che accompagnava Bernardo Provenzano agli incontri con Vito Ciancimino e che in una sentenza di condanna di Montalbano veniva così descritto: «Si muoveva nell’alta mafia e fungeva da cerniera di Montalbano con i vertici di Cosa nostra». Il pentito Giovanni Brusca aveva spiegato ai magistrati il legame tra i due: «Pino Lipari quando parlava di Montalbano lo rappresentava come una persona al di fuori di ogni sospetto e poi a causa della sua appartenenza politica se c’era qualche sospetto veniva spazzato via perché apparteneva al Partito comunista» che «si è sempre rappresentato per la lotta alla mafia, quindi c’era una certa garanzia». In un altro passaggio aveva detto: «Lipari quando si parlava di Montalbano cercava di aiutarlo in tutto e per tutto, lui era una persona che si interessava di appalti, dove poteva ci metteva sempre lo zampino e quando si trattava di Montalbano cercava di aiutarlo in qualsiasi maniera... ripeto perché lui quando si parlava di Montalbano alla presenza di Salvatore Riina ne parlava con molto orgoglio». L’ingegnere, un classe 1935 scomparso da qualche anno, era già stato accusato di mafiosità, insieme con il padre, negli anni ‘80, ma era stato prosciolto. Nella sentenza di condanna che lo riguarda, siamo nei primi anni 2000, si legge che nell’anno della morte di Borsellino «Montalbano è stato già da parecchio tempo scagionato da ogni accusa […] ed è, dunque, uno stimatissimo imprenditore di area comunista (e quindi, quasi per definizione, schierato contro la mafia) che sta eseguendo degli importanti appalti. Ed è ancora un insospettabile: l’arresto di Riina deve ancora essere eseguito».Nelle scorse settimane la nota di Strada è stata inviata dalla commissione Antimafia alla Procura di Caltanissetta che da tempo, come detto, sta indagando sul ruolo dell’inchiesta «mafia e appalti» nella tragica fine di Borsellino. Il motivo non ci è noto. Ma un link è possibile ipotizzarlo. L’inchiesta avviata in Sicilia nei confronti di Natoli e del collega Giuseppe Pignatone, oggi presidente del Tribunale vaticano, parte da un’archiviazione considerata sospetta, quella di un fascicolo collegato a «mafia e appalti» e riguardante i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi e Francesco Bonura, uomini d’onore che nel 1980 avevano venduto una ventina di immobili (appartamenti, garage, sgabuzzini) alla famiglia Pignatone. Ma anche per Montalbano l’ex procuratore di Roma aveva chiesto il proscioglimento. E non lo aveva fatto da solo.Quando Riina viene arrestato, il 15 gennaio 1993, si scopre che viveva sotto falso nome (Giuseppe Bellomo) in una lussuosa villa di proprietà dell’ingegnere originario di Santa Margherita in Belice. Il professionista «compagno» viene indagato per favoreggiamento aggravato della mafia. Il 10 febbraio 1995 i sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Pignatone, Scarpinato e Vittorio Teresi (che di Montalbano otterrà qualche anno dopo l’arresto) chiedono la sua archiviazione dall’accusa di avere messo consapevolmente a disposizione di Riina, mediante la società Villa antica Spa, i venti vani con piscina di via Bernini 52 a Palermo. Nell’istanza di una pagina e mezza, scritta da Pignatone e sottoscritta successivamente da Scarpinato e da Teresi, si legge «che per quanto riguarda Montalbano non sono emersi, neanche dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento» e che «il solo fatto che Salvatore Riina abitasse in una villa di una società facente capo a Montalbano non è sufficiente a dimostrare la responsabilità di quest’ultimo». Tuttavia, al momento della richiesta di archiviazione, contrariamente a quanto sostenuto da Pignatone, Scarpinato e Teresi, erano state messe agli atti le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Baldassarre Di Maggio che indicavano Montalbano come organico alla mafia e sottolineavano i suoi legami con Riina. E Di Maggio non era un collaboratore qualsiasi: arrestato l’8 gennaio 1993, aveva consentito con le sue dichiarazioni in meno di una settimana l’arresto di Riina. In particolare, il 26 maggio 1993, aveva riferito ai pm a proposito del rifugio del «capo dei capi»: «Ricordo che tale villino era intestato a certo ingegner Montalbano, il quale si era intestato la proprietà dell’immobile, secondo quanto mi disse Giovanni Brusca, su richiesta di Giuseppe Lipari, geometra dell’Anas. Mi fu detto pure da Brusca che Montalbano aveva intestate anche altre cose, in realtà appartenenti a Riina». Il 19 ottobre dello stesso anno il pentito aveva aggiunto: «Posso ora aggiungere che avevo saputo da Salvatore Riina o da Angelo Siino, che il medesimo Montalbano era figlioccio di Lipari ed era, inoltre, persona disponibile per qualsiasi cosa nei confronti del Riina. Egli era utilizzato da Lipari e con lo stesso eseguiva lavori nel campo edilizio». Di Maggio disse anche che in occasione di un incontro avuto con lo stesso Riina, nel 1987, Totò ’u curtu gli avrebbe riferito che Montalbano «era persona “vicina” e disponibile», facendo capire che «poteva essere utilizzato per qualsiasi evenienza concernente Cosa nostra». Come detto, alle dichiarazioni di Di Maggio, si aggiunsero, quattro anni dopo, quelle di Brusca che non risulta siano state utilizzate per riaprire le indagini sul covo di via Bernini. Il 18 aprile 1997 Brusca dichiara: «Questo ingegnere Montalbano, il proprietario dell’hotel Torre Macauda, è uomo vicino a Pino Lipari». Pure un altro mammasantissima del calibro di Angelo Siino aveva spiegato che l’ingegnere gli era stato indicato «come uno che aveva ospitato il famoso zio (Riina, ndr)». Nei mesi successivi viene arrestato il boss di Sciacca Totò Di Gangi. Nell’ambito di questa inchiesta finisce in carcere (nel gennaio 1999) anche Montalbano.Il quale, quando è ormai a processo, il 20 luglio 2001, fa depositare come prova a proprio favore la richiesta di archiviazione firmata da Pignatone, Scarpinato e Teresi. In quel procedimento viene incaricato di iniziare gli accertamenti patrimoniali sull’ingegnere l’allora capitano Strada. L’ufficiale scopre che, anche se la magione di via Bernini era stata restituita a Montalbano nel 1996, nessuno ne aveva più preso possesso sino al definitivo sequestro.I giudici della Corte d’Appello scrissero in sentenza: «Secondo la testimonianza del maggiore dei carabinieri Strada, la villa, a una verifica fatta nel 2002, appariva in uno stato di completo abbandono e disfacimento. In sostanza, dal 1993 al 2002 nessuno, a quanto appariva, aveva più messo le mani sull’immobile». Una stranezza che non poteva non far ritenere, come, del resto, asserito da diversi pentiti, che i proprietari dell’immobile fossero in realtà i Corleonesi. A riprova di ciò c’è la missiva che, nel 1998, Lipari invia al nuovo padrino Provenzano per aggiornarlo su alcuni affari immobiliari: «Le proprietà ̀ da vendere in atti sono state intestate in questi lunghi anni a quel “povero uomo” e non gli si possono far fare passi falsi visto che la sua vicenda, relativa all’affitto di quella “sua villa” ove abitava ultimamente tuo fratello il grande, per lui non si è ancora chiusa, anche se ha superato tutto senza più problemi».Nella sentenza di Appello le toghe elencarono tutte le evidenze contro Montalbano che Pignatone & C. non avrebbero saputo valorizzare: «Salvatore Riina, quando già era il ricercato numero uno d’Italia (1985, epoca del maxiprocesso alla mafia) ed aveva conquistato il vertice di Cosa nostra, sterminando gli avversari, sceglie, tra centinaia di proprietari di case, Giuseppe Montalbano, noto, stimato ed insospettabile imprenditore, per andare ad abitare sotto falso nome nel cuore di Palermo in una sua lussuosa villa; Salvatore Riina o taluno della sua numerosa famiglia, in oltre sette anni, non viene, neppure casualmente, mai visto o disturbato dal proprietario-locatore della villa, neppure quando, senza informare, costruisce a sue spese una piscina all’esterno ed una camera blindata all’interno; dal suo covo di lusso, ordisce trame, appalti truccati, estorsioni, omicidi, stragi di uomini politici e magistrati, sicuro che nessuno della società proprietaria o per conto della stessa (amministratori, soci, contabili, tecnici) possa, anche casualmente, disturbarlo; Salvatore Riina, quando ancora fumano le auto di Capaci e di via D’Amelio e la caccia nei suoi confronti si fa finalmente sul serio, ottiene da Montalbano il rinnovo del contratto di locazione (settembre 1992), nella convinzione che dove si trova non lo cercheranno mai; quando il boss viene finalmente tradito e catturato, Montalbano contribuisce a ripulire la villa prima che vi giungano gli inquirenti. Questa è l’evidenza. Ora, nessuno potrà mai dubitare sulla base delle superiori considerazioni che la condotta del Montalbano dal 1985 alla fine del gennaio 1993 sia stata oggettivamente il più concreto e formidabile aiuto fornito non a Totò Riina solo, ma a tutta Cosa nostra, garantendone la sopravvivenza, anche dopo le stragi ed i ricatti allo Stato». Nonostante tutto questo, dopo l’arresto di Riina, Montalbano ha potuto girare libero per altri sei anni. Anche grazie alla decisione di Pignatone e Scarpinato.
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