2023-03-20
Alain de Benoist: «Amo Pasolini e il vostro Sud. I miei antenati? Degli italiani»
Alain de Benoist (Getty Images)
Alla soglia degli 80 anni, l’intellettuale francese si confessa: «Ho rimpianti, non rimorsi “Libération” mi dà del “vecchio razzista di estrema destra”: ha azzeccato solo “vecchio”».Il prossimo 11 dicembre, il più inclassificabile degli intellettuali europei, Alain de Benoist, compirà 80 anni. Principale animatore di quella che fu la Nouvelle droite (etichetta imposta dai media, prima rifiutata, poi rivendicata, infine lasciata cadere nell’oblio), de Benoist ha prodotto una mole impressionante di libri, articoli, interviste. Ma non pare abbia voglia di fermarsi. In Francia, infatti, sono appena usciti Nous et les autres (Rocher) e L’Exil intérieur (Krisis), quest’ultimo in corso di traduzione italiana per i tipi di Bietti. Lo abbiamo contattato e ci ha raccontato delle sue lontane origini italiane, della sua passione per Pier Paolo Pasolini e dei libri che avrebbe voluto scrivere ma non ne ha avuto il tempo.Recentemente Michel Onfray ha detto che lei è «l’uomo più colto che abbia mai incontrato». E un intellettuale di sinistra come Jacques Julliard, su Marianne, ricorda che lei è «uno dei grandi intellettuali più misconosciuti del nostro tempo». Alla soglia degli 80 anni, c’è quindi una parte del mondo della cultura che ha messo da parte i suoi pregiudizi su di lei?«Michel Onfray e Jacques Julliard sono spiriti liberi. La cosa interessante è che si situano entrambi nella tradizione del socialismo francese. Onfray è proudhoniano, Julliard è stato il fondatore dei Cahiers Georges Sorel. Le loro dichiarazioni su di me sono significative, ma una rondine non fa primavera. La demonizzazione e l’ostracismo restano la regola in Francia in molteplici occasioni, con la conseguenza di impedire ogni vero dibattito. Penso, allo stesso tempo, che l’ideologia dominante stia per vedere le proprie fondamenta vacillare. Il politicamente corretto, che si prolunga nei deliri woke e della teoria gender, diventa sempre più insopportabile e suscita reazioni che tendono anch’esse a intensificarsi. L’ideologia dominante diventa sempre più aggressiva, precisamente perché realizza, più o meno coscientemente, di avere i giorni contati».…In compenso, Libération ha criticato Julliard, ricordando come lei sia «un vecchio mago dell’estrema destra etnodifferenzialista che sostiene la gerarchia delle razze». Hanno letto qualche suo testo razzista che noi non conosciamo?«Libération ha quasi accusato Julliard di essersi palesato come “fascista”, il che è abbastanza comico quando si conosce l’itinerario di questo autore di sinistra. Per quanto riguarda la descrizione che viene fatta di me, è veramente surreale. Non ho una particolare simpatia per la “destra”, odio l’estremismo, non ho mai usato il termine “etnodifferenzialismo” e ho pubblicato tre libri contro il razzismo. L’unica parola esatta nella frase è, ahimè, “vecchio”!».Uno dei suoi ultimi libri, L’Exil intérieur, raccoglie dei diari personali scritti a partire dagli anni Settanta. Perché ha deciso di pubblicare queste note intime?«È in effetti una raccolta di note personali (riflessioni, citazioni, aforismi, etc) che ho redatto sui temi più diversi durante più di 30 anni. Mi sono deciso a pubblicarle su richiesta di qualche amico che le aveva apprezzate e che ha ritenuto che questo libro potesse permettere ai miei lettori di conoscermi meglio. È in ogni caso un’opera molto differente da quelle che pubblico abitualmente». Nel suo libro leggiamo: «Quando sento parlare in italiano, mi sento già meno misantropo». Non è l’unica annotazione di questo tipo. Lei sembra amare l’Italia più della Francia. Perché?«Se avessi l’animo romantico, vi vedrei la lontana influenza del più antico antenato della mia famiglia di cui ho potuto trovare traccia. Si tratta di un tale Honorius Bonicolli che viveva nel IX secolo e apparteneva a una famiglia senatoriale romana. I suoi eredi si installarono in Lombardia, da dove emigrarono verso i Paesi bassi. Qui, dopo qualche generazione, olandesizzarono il loro nome in Goethals. Ma la realtà è sicuramente più semplice : ci sono molti Paesi d’Europa che amo, come la Grecia, l’Irlanda, la Bassa Sassonia o la Danimarca, ma è vero che è in Italia che io mi sento meglio. Amo il modo di parlare e di muoversi degli italiani, amo la lingua, la gastronomia, la gestualità italiana. Amo le loro qualità e i loro difetti. Non è una cosa che si possa spiegare. Quando Montaigne voleva spiegare la sua amicizia con La Boétie, diceva: “Perché era lui, perché ero io”. Potrei dire lo stesso della mia relazione con l’Italia. In un’altra vita, avrei amato viverci, ma nel Sud e non in una grande città».Lei cita Pier Paolo Pasolini come pensatore a lei più vicino rispetto ad altri nomi illustri della tradizione di destra o fascista (Maurras, Brasillach, De Maistre etc). Cosa le piace di questo scrittore e regista?«Intanto la straordinaria molteplicità dei suoi talenti intellettuali e artistici, ma anche la sua indipendenza di spirito, il suo primo film Accattone e i suoi Scritti corsari, la sua passione per le classi popolari e per la lingua friulana, le sue critiche radicali alla borghesia e alla società consumistica del suo tempo, il modo in cui seppe prendere le distanze, per ragioni di classe, dalla rivolta del 1968, senza dimenticare la sua fine tragica, sulla quale non si saprà mai tutta la verità. Vedo in lui una sorta di Federico Garcia Lorca italiano e sono incline a metterlo nella stessa categoria degli autori populisti di sinistra che mi hanno molto influenzato, come George Orwell, Christopher Lasch o Jean-Claude Michéa. Quanto al fascismo, è a mio avviso materiale per gli storici».Si avverte oggi una rivolta generalizzata contro l’ideologia woke. Per lei qual è il modo migliore di combatterla ? La destra troppo spesso si limita a voler riportare il mondo qualche decennio indietro, quando certe barzellette non facevano scandalo.«La destra, al solito, non capisce nulla della posta in gioco dell’offensiva woke, che mira nientemeno che a provocare una vera e propria mutazione antropologica. In questa mescolanza di soppressione della cultura, richiamo al pentimento continuo ed esaltazione di tutte le forme di ibridazione, vedo piuttosto l’effetto di quella che ho chiamato l’ideologia del Medesimo, che cerca di sradicare differenze, frontiere e limiti in tutti gli ambiti, siano essi culture che ostacolano l’espansione globale del mercato, la distinzione tra maschile e femminile o le comunità locali ordinate da un desiderio di continuità storica. Ma ci vedo anche qualcosa che sta per finire. Zygmunt Bauman aveva ragione a parlare della nostra società come di una società diventata “liquida”: la liquidità va di pari passo con la liquidazione e la liquefazione, che a loro volta annunciano l’avvento del caos. Per fortuna tutto ciò che finisce non può che portare a una nuova era, al termine di un periodo di transizione (o interregno). Il vecchio mondo sta scomparendo, il mondo che seguirà non è ancora apparso. Non credo, come spesso fa la destra, che si debba cercare di tornare indietro (“era meglio prima”), ma piuttosto di creare le condizioni per un nuovo inizio».In Italia molti guardano con costernazione al fenomeno delle banlieue e della frammentazione etnoculturale della Francia. C’è la sensazione che certe parti del vostro Paese siano perse per sempre. Lei che ne pensa?«Non bisogna mai dire “per sempre”, perché la storia è sempre aperta. Ma è vero che le prospettive attuali sono piuttosto cupe. Nello spazio di qualche decennio, la Francia è divenuta una nazione non multiculturale, ma multirazziale. In economia, si distingue tradizionalmente tra flusso (l’arrivo di nuovi migranti) e stock (quelli che sono già qui). Si può intervenire sul flusso, ma le soluzioni concernenti lo stock non sono facili. Il saggista Pierre Manent mi diceva recentemente: “Non credo né alla laicità, né all’assimilazione, né alla remigrazione”. È più o meno la mia opinione».Il prossimo 21 maggio saranno 10 anni dal sacrificio di Dominique Venner. Lei ha spesso parlato del suo rapporto con Venner. Dieci anni dopo, che sensazioni ha ripensando a quel gesto?«Da dieci anni, a dire il vero, ci penso ogni giorno. Dominique Venner è morto come ha vissuto: in piedi. Il suo suicidio romano si inscrive perfettamente nella logica della tenuta e nell’etica dell’onore a cui lui si rifaceva».Come già detto, lei sta per festeggiare gli 80 anni. Ha dei rimpianti? Ci sono dei libri che avrebbe voluto scrivere ma non lo ha fatto?«Se si è un po’ lucidi, si provano sempre dei rimpianti quando è il momento dei bilanci. Rimpianti, non rimorsi! Ci sono molti libri che ho progettato di scrivere e non ho avuto il tempo di redigere (su Heidegger, su Louis Rougier, sul tema popolare del labirinto, sulla filosofia dell’ecologia, etc), ma ciò dimostra quanto meno che non sento di aver già detto tutto quello che c’era da dire. Quando si arriva a 80 anni, si scopre in generale che il corpo, che prima era un alleato, diventa un nemico. Ma l’essenziale è conservare fino all’ultimo momento quel tratto giovanile che è la curiosità, unita alla capacità di rimettersi sempre in questione. Non è la morte che è da temere, la ma sclerosi intellettuale».
Auto dei Carabinieri fuori dalla villetta della famiglia Poggi di Garlasco (Ansa)
Volodymyr Zelensky (Ansa)