2022-03-26
Al Cremlino potrebbe bastare il Donbass
Lo stato maggiore russo svela per la prima volta l’obbiettivo della missione: «liberare» l’area russofona. E Kiev ammette: «Il nemico controlla il corridoio tra Crimea e Donetsk». Tra i soldati circola la voce di una fine delle ostilità entro il 9 maggio.L’ambasciatore querela La Stampa. Il governo: «Da loro non c’è libertà». Nel mirino un articolo che ipotizzava, pur senza giustificarla, l’uccisione di Vladimir Putin.Lo speciale comprende due articoli. Mentre il conflitto in Ucraina prosegue, la giornata di ieri potrebbe aver rappresentato una svolta nella crisi in corso. Ovviamente bisogna andare con i piedi di piombo e la situazione generale resta precaria. Tuttavia si sono registrati due segnali tutt’altro che insignificanti. Innanzitutto Mosca ha reso noto di volersi concentrare d’ora in poi sulla «liberazione del Donbass». «Gli obiettivi principali della prima fase dell’operazione sono stati generalmente raggiunti», ha affermato il capo della direzione operativa dello stato maggiore russo, Sergei Rudskoi. «Il potenziale di combattimento delle forze armate dell’Ucraina è stato notevolmente ridotto, il che rende possibile concentrare i nostri sforzi principali sul raggiungimento dell’obiettivo principale: la liberazione del Donbass», ha aggiunto. Ora, questa dichiarazione va collegata a un’altra presa di posizione, assunta sempre ieri da Kiev. «Il nemico è riuscito in parte a creare un corridoio terrestre tra la Repubblica autonoma di Crimea temporaneamente occupata e parte della regione di Donetsk», ha affermato il ministero della Difesa ucraino. Ricordiamo che la Russia ha invaso e di fatto annesso la Crimea nel 2014 e che, nella crisi attuale, ha utilizzato la penisola come trampolino di lancio per estendersi militarmente nella parte meridionale dell’Ucraina. In questo senso, è chiaro per quale ragione Mosca si stia accanendo da settimane sulla città di Mariupol. Prendere questo centro offrirebbe svariati vantaggi al Cremlino: garantirebbe innanzitutto il controllo della suddetta lingua di terra per collegare la Crimea al Donbass; renderebbe di fatto il Mar d’Azov un lago russo; indebolirebbe l’economia dell’Ucraina; assicurerebbe una postazione per esercitare pressione su Odessa. La domanda da porsi a questo punto è: siamo vicini a una svolta nel conflitto? Va da sé che, vista l’entità delle forze e dei mezzi schierati, la Russia puntava originariamente a obiettivi molto più ambiziosi del solo Donbass: si riteneva, in particolare, che Mosca mirasse a spaccare in due l’Ucraina sulla linea del Dnepr, per instaurare un governo amico nella parte orientale del Paese. Qualcosa tuttavia è andato storto nella strategia russa. Le forze di Mosca non hanno potuto beneficiare pienamente dell’effetto sorpresa, hanno probabilmente sottovalutato la resistenza ucraina e, soprattutto, nei primi giorni dell’invasione, si sono mosse troppo velocemente, non consolidando in modo adeguato le posizioni conquistate e consentendo così alle forze ucraine di inserirsi nelle loro retrovie. Ottenere il corridoio di terra a Sud potrebbe quindi teoricamente permettere al leader russo di porre fine alle operazioni belliche senza perdere la faccia (un’interpretazione, questa, condivisa anche da una fonte diplomatica di Mosca, ascoltata da Reuters). Ecco che quindi la questione del corridoio meridionale potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle trattative in corso. Non va del resto neppure trascurato che, l’altro ieri, Joe Biden abbia detto di non escludere che l’Ucraina possa valutare eventuali cessioni territoriali, per arrivare a una tregua. Resta semmai da capire se Kiev sia disposta a considerare quell’area un elemento trattabile nel processo negoziale. In tal caso, la Russia potrebbe a sua volta cedere sulla questione della demilitarizzazione e magari accettare uno status di neutralità che non spinga de facto l’Ucraina nell’orbita di Mosca. Si tratta ovviamente solo di supposizioni. Ma i segnali di ieri non dovrebbero essere sottovalutati. Secondo indiscrezioni, sembra inoltre che i soldati russi stiano ricevendo dai loro superiori l’indicazione che la guerra in Ucraina finirà entro il 9 maggio, data in cui la Russia celebra con una parata a Mosca la «giornata della vittoria» nella la seconda guerra mondiale. In questo quadro, non vanno neanche trascurate le parole ottimistiche, pronunciate da Tayyip Erdogan, che finora è stato tra i principali mediatori nella crisi. Pur riconoscendo delle difficoltà nelle trattative sul Donbass, il presidente turco ha detto che incontrerà Putin a breve, che Kiev e Mosca potrebbero trovare un compromesso su quattro delle sei questioni al centro dei negoziati e ha parlato di una «uscita onorevole» dalla guerra. Tutto questo, senza comunque dimenticare che, secondo le delegazioni di Ucraina e Russia, le trattative risulterebbero al momento piuttosto in salita. Nel frattempo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha fatto sapere che chiederà chiarimenti sul presunto coinvolgimento del figlio di Biden, Hunter, nel finanziamento di laboratori ucraini dove - secondo le accuse di Mosca - si produrrebbero delle armi biologiche. «Chiederemo delle spiegazioni a riguardo. E non solo noi. Come sapete la Cina ha già chiesto chiarimenti», ha detto Peskov. In tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca è arrivato in Polonia, dove incontrerà il presidente polacco Andrzej Duda e dove ieri ha parlato davanti alle truppe americane di stanza nel Paese. «La democrazia deve prevalere e l’autocrazia fallire», ha detto Biden. Parole sacrosante. Sarebbe però opportuno che spiegasse perché, mentre decreta embarghi alla Russia, sta allentando la pressione statunitense su Venezuela e Iran: due autocrazie che intrattengono tra l’altro stretti legami proprio con Mosca. E intanto, proprio ieri, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato in visita in India, lasciando intendere l’eventualità di un disgelo tra Pechino e Nuova Delhi: un segnale significativamente preoccupante per l’Occidente (e soprattutto per Washington). <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/al-cremlino-potrebbe-bastare-il-donbass-2657040669.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lambasciatore-querela-la-stampa-il-governo-da-loro-non-ce-liberta" data-post-id="2657040669" data-published-at="1648239285" data-use-pagination="False"> L’ambasciatore querela «La Stampa». Il governo: «Da loro non c’è libertà» Tornano gli anni di piombo in Piazzale Clodio. Ieri l’ambasciatore russo Sergey Razov ha depositato una denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato contro il quotidiano La Stampa e il suo giornalista Domenico Quirico. Sarebbero «colpevoli», secondo il diplomatico di stanza a Roma, di aver pubblicato un articolo in cui si ragionava sulla possibilità di uscire dalla crisi ucraina con l’uccisione di Vladimir Putin. Eppure nell’articolo contestato non si invitava all’omicidio del presidente russo, ma si faceva un ragionamento più o meno cinico sull’efficacia in generale dei tirannicidi. In realtà, la mossa di ieri di Razov sembra più che altro una forma di pressione contro un giornale italiano. Di sicuro, come mostrano anche gli ultimi report di Amnesty International, la Russia non sembra avere i titoli per impartire lezioni di giornalismo. Razov ieri mattina si è presentato in Procura a Roma per presentare un esposto. È successo che il 22 marzo La Stampa, sotto un titolo un po’ infelice come «Se uccidere Putin è l’unica via d’uscita», ha pubblicato un lungo ragionamento di Quirico che rispondeva a una domanda banale: che succederebbe se qualcuno facesse fuori il presidente russo? Il tutto senza ovviamente auspicare tale eventualità. Per l’ambasciatore russo, «Questo articolo d’autore considerava la possibilità dell’uccisione del presidente della Russia. Non c’è bisogno di dire che questo è fuori dell’etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo». E visto che, continua Razov, «nel codice penale dell’Italia si prevede possibilità di istigazione a delinquere e apologia di reato, in precisa conformità alla legislazione italiana mi sono recato alla procura della Repubblica e confido nella giustizia italiana». L’ambasciatore ha poi allargato le lamentele, sostenendo che «ogni giorno, sulla stampa italiana, vedo foto sulla cui provenienza ci sono dubbi». E ha concluso con una considerazione poco rassicurante: «La cosa che ci preoccupa è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi». Il diplomatico ha anche detto che sulle armi nucleari «dalla Russia non è stata avanzata alcuna minaccia», anche se «ogni nostra dichiarazione viene letta come minacciosa, anche se tacciamo». Razov ha poi citato la missione russa nel nostro Paese durante il Covid: «Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, ma se qualcuno morde quella mano non è onorevole», ha detto. Certo, quando lo stesso Razov parla di un articolo che «considera la possibilità dell’uccisione» di Putin, probabilmente si è risposto da solo sulla reale istigazione all’omicidio. Per il resto, ancora il 28 febbraio scorso, Amnesty International scriveva che «il Cremlino continua a ridurre al silenzio le proteste e obbliga gli organi di stampa nazionali a sostenere le sue posizioni, usando la forza per disperdere le manifestazioni contro la guerra». Insomma, forse neppure i giornaloni italiani meritavano una lezione di giornalismo da Mosca. Intanto, ieri, il ministro Luigi Di Maio ha risposto su Twitter: «La Stampa, come tutti i nostri organi di informazione, fa il suo mestiere: raccontare quello che succede, comprese le atrocità della guerra in Ucraina. In Italia la libertà di stampa è intoccabile. Avanti senza censure. Solidarietà a Massimo Giannini e alla sua redazione». In serata è arrivata anche il commento del premier Mario Draghi, che, dopo aver espresso solidarietà alla Stampa, ha detto: «Non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia inquietato, perché è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è la libertà di stampa. E si sta meglio da noi»
Jose Mourinho (Getty Images)