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2022-03-26
Al Cremlino potrebbe bastare il Donbass
Vladimir Putin (Ansa)
Mentre il conflitto in Ucraina prosegue, la giornata di ieri potrebbe aver rappresentato una svolta nella crisi in corso. Ovviamente bisogna andare con i piedi di piombo e la situazione generale resta precaria. Tuttavia si sono registrati due segnali tutt’altro che insignificanti.
Innanzitutto Mosca ha reso noto di volersi concentrare d’ora in poi sulla «liberazione del Donbass». «Gli obiettivi principali della prima fase dell’operazione sono stati generalmente raggiunti», ha affermato il capo della direzione operativa dello stato maggiore russo, Sergei Rudskoi. «Il potenziale di combattimento delle forze armate dell’Ucraina è stato notevolmente ridotto, il che rende possibile concentrare i nostri sforzi principali sul raggiungimento dell’obiettivo principale: la liberazione del Donbass», ha aggiunto. Ora, questa dichiarazione va collegata a un’altra presa di posizione, assunta sempre ieri da Kiev. «Il nemico è riuscito in parte a creare un corridoio terrestre tra la Repubblica autonoma di Crimea temporaneamente occupata e parte della regione di Donetsk», ha affermato il ministero della Difesa ucraino.
Ricordiamo che la Russia ha invaso e di fatto annesso la Crimea nel 2014 e che, nella crisi attuale, ha utilizzato la penisola come trampolino di lancio per estendersi militarmente nella parte meridionale dell’Ucraina. In questo senso, è chiaro per quale ragione Mosca si stia accanendo da settimane sulla città di Mariupol. Prendere questo centro offrirebbe svariati vantaggi al Cremlino: garantirebbe innanzitutto il controllo della suddetta lingua di terra per collegare la Crimea al Donbass; renderebbe di fatto il Mar d’Azov un lago russo; indebolirebbe l’economia dell’Ucraina; assicurerebbe una postazione per esercitare pressione su Odessa. La domanda da porsi a questo punto è: siamo vicini a una svolta nel conflitto? Va da sé che, vista l’entità delle forze e dei mezzi schierati, la Russia puntava originariamente a obiettivi molto più ambiziosi del solo Donbass: si riteneva, in particolare, che Mosca mirasse a spaccare in due l’Ucraina sulla linea del Dnepr, per instaurare un governo amico nella parte orientale del Paese. Qualcosa tuttavia è andato storto nella strategia russa. Le forze di Mosca non hanno potuto beneficiare pienamente dell’effetto sorpresa, hanno probabilmente sottovalutato la resistenza ucraina e, soprattutto, nei primi giorni dell’invasione, si sono mosse troppo velocemente, non consolidando in modo adeguato le posizioni conquistate e consentendo così alle forze ucraine di inserirsi nelle loro retrovie. Ottenere il corridoio di terra a Sud potrebbe quindi teoricamente permettere al leader russo di porre fine alle operazioni belliche senza perdere la faccia (un’interpretazione, questa, condivisa anche da una fonte diplomatica di Mosca, ascoltata da Reuters).
Ecco che quindi la questione del corridoio meridionale potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle trattative in corso. Non va del resto neppure trascurato che, l’altro ieri, Joe Biden abbia detto di non escludere che l’Ucraina possa valutare eventuali cessioni territoriali, per arrivare a una tregua. Resta semmai da capire se Kiev sia disposta a considerare quell’area un elemento trattabile nel processo negoziale. In tal caso, la Russia potrebbe a sua volta cedere sulla questione della demilitarizzazione e magari accettare uno status di neutralità che non spinga de facto l’Ucraina nell’orbita di Mosca. Si tratta ovviamente solo di supposizioni. Ma i segnali di ieri non dovrebbero essere sottovalutati. Secondo indiscrezioni, sembra inoltre che i soldati russi stiano ricevendo dai loro superiori l’indicazione che la guerra in Ucraina finirà entro il 9 maggio, data in cui la Russia celebra con una parata a Mosca la «giornata della vittoria» nella la seconda guerra mondiale. In questo quadro, non vanno neanche trascurate le parole ottimistiche, pronunciate da Tayyip Erdogan, che finora è stato tra i principali mediatori nella crisi. Pur riconoscendo delle difficoltà nelle trattative sul Donbass, il presidente turco ha detto che incontrerà Putin a breve, che Kiev e Mosca potrebbero trovare un compromesso su quattro delle sei questioni al centro dei negoziati e ha parlato di una «uscita onorevole» dalla guerra. Tutto questo, senza comunque dimenticare che, secondo le delegazioni di Ucraina e Russia, le trattative risulterebbero al momento piuttosto in salita.
Nel frattempo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha fatto sapere che chiederà chiarimenti sul presunto coinvolgimento del figlio di Biden, Hunter, nel finanziamento di laboratori ucraini dove - secondo le accuse di Mosca - si produrrebbero delle armi biologiche. «Chiederemo delle spiegazioni a riguardo. E non solo noi. Come sapete la Cina ha già chiesto chiarimenti», ha detto Peskov. In tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca è arrivato in Polonia, dove incontrerà il presidente polacco Andrzej Duda e dove ieri ha parlato davanti alle truppe americane di stanza nel Paese. «La democrazia deve prevalere e l’autocrazia fallire», ha detto Biden. Parole sacrosante. Sarebbe però opportuno che spiegasse perché, mentre decreta embarghi alla Russia, sta allentando la pressione statunitense su Venezuela e Iran: due autocrazie che intrattengono tra l’altro stretti legami proprio con Mosca. E intanto, proprio ieri, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato in visita in India, lasciando intendere l’eventualità di un disgelo tra Pechino e Nuova Delhi: un segnale significativamente preoccupante per l’Occidente (e soprattutto per Washington).
L’ambasciatore querela «La Stampa». Il governo: «Da loro non c’è libertà»
Tornano gli anni di piombo in Piazzale Clodio. Ieri l’ambasciatore russo Sergey Razov ha depositato una denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato contro il quotidiano La Stampa e il suo giornalista Domenico Quirico. Sarebbero «colpevoli», secondo il diplomatico di stanza a Roma, di aver pubblicato un articolo in cui si ragionava sulla possibilità di uscire dalla crisi ucraina con l’uccisione di Vladimir Putin. Eppure nell’articolo contestato non si invitava all’omicidio del presidente russo, ma si faceva un ragionamento più o meno cinico sull’efficacia in generale dei tirannicidi. In realtà, la mossa di ieri di Razov sembra più che altro una forma di pressione contro un giornale italiano. Di sicuro, come mostrano anche gli ultimi report di Amnesty International, la Russia non sembra avere i titoli per impartire lezioni di giornalismo.
Razov ieri mattina si è presentato in Procura a Roma per presentare un esposto. È successo che il 22 marzo La Stampa, sotto un titolo un po’ infelice come «Se uccidere Putin è l’unica via d’uscita», ha pubblicato un lungo ragionamento di Quirico che rispondeva a una domanda banale: che succederebbe se qualcuno facesse fuori il presidente russo? Il tutto senza ovviamente auspicare tale eventualità.
Per l’ambasciatore russo, «Questo articolo d’autore considerava la possibilità dell’uccisione del presidente della Russia. Non c’è bisogno di dire che questo è fuori dell’etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo». E visto che, continua Razov, «nel codice penale dell’Italia si prevede possibilità di istigazione a delinquere e apologia di reato, in precisa conformità alla legislazione italiana mi sono recato alla procura della Repubblica e confido nella giustizia italiana». L’ambasciatore ha poi allargato le lamentele, sostenendo che «ogni giorno, sulla stampa italiana, vedo foto sulla cui provenienza ci sono dubbi». E ha concluso con una considerazione poco rassicurante: «La cosa che ci preoccupa è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi». Il diplomatico ha anche detto che sulle armi nucleari «dalla Russia non è stata avanzata alcuna minaccia», anche se «ogni nostra dichiarazione viene letta come minacciosa, anche se tacciamo». Razov ha poi citato la missione russa nel nostro Paese durante il Covid: «Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, ma se qualcuno morde quella mano non è onorevole», ha detto. Certo, quando lo stesso Razov parla di un articolo che «considera la possibilità dell’uccisione» di Putin, probabilmente si è risposto da solo sulla reale istigazione all’omicidio. Per il resto, ancora il 28 febbraio scorso, Amnesty International scriveva che «il Cremlino continua a ridurre al silenzio le proteste e obbliga gli organi di stampa nazionali a sostenere le sue posizioni, usando la forza per disperdere le manifestazioni contro la guerra». Insomma, forse neppure i giornaloni italiani meritavano una lezione di giornalismo da Mosca. Intanto, ieri, il ministro Luigi Di Maio ha risposto su Twitter: «La Stampa, come tutti i nostri organi di informazione, fa il suo mestiere: raccontare quello che succede, comprese le atrocità della guerra in Ucraina. In Italia la libertà di stampa è intoccabile. Avanti senza censure. Solidarietà a Massimo Giannini e alla sua redazione». In serata è arrivata anche il commento del premier Mario Draghi, che, dopo aver espresso solidarietà alla Stampa, ha detto: «Non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia inquietato, perché è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è la libertà di stampa. E si sta meglio da noi»
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Riduci
Lo stato maggiore russo svela per la prima volta l’obbiettivo della missione: «liberare» l’area russofona. E Kiev ammette: «Il nemico controlla il corridoio tra Crimea e Donetsk». Tra i soldati circola la voce di una fine delle ostilità entro il 9 maggio.L’ambasciatore querela La Stampa. Il governo: «Da loro non c’è libertà». Nel mirino un articolo che ipotizzava, pur senza giustificarla, l’uccisione di Vladimir Putin.Lo speciale comprende due articoli. Mentre il conflitto in Ucraina prosegue, la giornata di ieri potrebbe aver rappresentato una svolta nella crisi in corso. Ovviamente bisogna andare con i piedi di piombo e la situazione generale resta precaria. Tuttavia si sono registrati due segnali tutt’altro che insignificanti. Innanzitutto Mosca ha reso noto di volersi concentrare d’ora in poi sulla «liberazione del Donbass». «Gli obiettivi principali della prima fase dell’operazione sono stati generalmente raggiunti», ha affermato il capo della direzione operativa dello stato maggiore russo, Sergei Rudskoi. «Il potenziale di combattimento delle forze armate dell’Ucraina è stato notevolmente ridotto, il che rende possibile concentrare i nostri sforzi principali sul raggiungimento dell’obiettivo principale: la liberazione del Donbass», ha aggiunto. Ora, questa dichiarazione va collegata a un’altra presa di posizione, assunta sempre ieri da Kiev. «Il nemico è riuscito in parte a creare un corridoio terrestre tra la Repubblica autonoma di Crimea temporaneamente occupata e parte della regione di Donetsk», ha affermato il ministero della Difesa ucraino. Ricordiamo che la Russia ha invaso e di fatto annesso la Crimea nel 2014 e che, nella crisi attuale, ha utilizzato la penisola come trampolino di lancio per estendersi militarmente nella parte meridionale dell’Ucraina. In questo senso, è chiaro per quale ragione Mosca si stia accanendo da settimane sulla città di Mariupol. Prendere questo centro offrirebbe svariati vantaggi al Cremlino: garantirebbe innanzitutto il controllo della suddetta lingua di terra per collegare la Crimea al Donbass; renderebbe di fatto il Mar d’Azov un lago russo; indebolirebbe l’economia dell’Ucraina; assicurerebbe una postazione per esercitare pressione su Odessa. La domanda da porsi a questo punto è: siamo vicini a una svolta nel conflitto? Va da sé che, vista l’entità delle forze e dei mezzi schierati, la Russia puntava originariamente a obiettivi molto più ambiziosi del solo Donbass: si riteneva, in particolare, che Mosca mirasse a spaccare in due l’Ucraina sulla linea del Dnepr, per instaurare un governo amico nella parte orientale del Paese. Qualcosa tuttavia è andato storto nella strategia russa. Le forze di Mosca non hanno potuto beneficiare pienamente dell’effetto sorpresa, hanno probabilmente sottovalutato la resistenza ucraina e, soprattutto, nei primi giorni dell’invasione, si sono mosse troppo velocemente, non consolidando in modo adeguato le posizioni conquistate e consentendo così alle forze ucraine di inserirsi nelle loro retrovie. Ottenere il corridoio di terra a Sud potrebbe quindi teoricamente permettere al leader russo di porre fine alle operazioni belliche senza perdere la faccia (un’interpretazione, questa, condivisa anche da una fonte diplomatica di Mosca, ascoltata da Reuters). Ecco che quindi la questione del corridoio meridionale potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle trattative in corso. Non va del resto neppure trascurato che, l’altro ieri, Joe Biden abbia detto di non escludere che l’Ucraina possa valutare eventuali cessioni territoriali, per arrivare a una tregua. Resta semmai da capire se Kiev sia disposta a considerare quell’area un elemento trattabile nel processo negoziale. In tal caso, la Russia potrebbe a sua volta cedere sulla questione della demilitarizzazione e magari accettare uno status di neutralità che non spinga de facto l’Ucraina nell’orbita di Mosca. Si tratta ovviamente solo di supposizioni. Ma i segnali di ieri non dovrebbero essere sottovalutati. Secondo indiscrezioni, sembra inoltre che i soldati russi stiano ricevendo dai loro superiori l’indicazione che la guerra in Ucraina finirà entro il 9 maggio, data in cui la Russia celebra con una parata a Mosca la «giornata della vittoria» nella la seconda guerra mondiale. In questo quadro, non vanno neanche trascurate le parole ottimistiche, pronunciate da Tayyip Erdogan, che finora è stato tra i principali mediatori nella crisi. Pur riconoscendo delle difficoltà nelle trattative sul Donbass, il presidente turco ha detto che incontrerà Putin a breve, che Kiev e Mosca potrebbero trovare un compromesso su quattro delle sei questioni al centro dei negoziati e ha parlato di una «uscita onorevole» dalla guerra. Tutto questo, senza comunque dimenticare che, secondo le delegazioni di Ucraina e Russia, le trattative risulterebbero al momento piuttosto in salita. Nel frattempo, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha fatto sapere che chiederà chiarimenti sul presunto coinvolgimento del figlio di Biden, Hunter, nel finanziamento di laboratori ucraini dove - secondo le accuse di Mosca - si produrrebbero delle armi biologiche. «Chiederemo delle spiegazioni a riguardo. E non solo noi. Come sapete la Cina ha già chiesto chiarimenti», ha detto Peskov. In tutto questo, l’inquilino della Casa Bianca è arrivato in Polonia, dove incontrerà il presidente polacco Andrzej Duda e dove ieri ha parlato davanti alle truppe americane di stanza nel Paese. «La democrazia deve prevalere e l’autocrazia fallire», ha detto Biden. Parole sacrosante. Sarebbe però opportuno che spiegasse perché, mentre decreta embarghi alla Russia, sta allentando la pressione statunitense su Venezuela e Iran: due autocrazie che intrattengono tra l’altro stretti legami proprio con Mosca. E intanto, proprio ieri, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato in visita in India, lasciando intendere l’eventualità di un disgelo tra Pechino e Nuova Delhi: un segnale significativamente preoccupante per l’Occidente (e soprattutto per Washington). <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/al-cremlino-potrebbe-bastare-il-donbass-2657040669.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lambasciatore-querela-la-stampa-il-governo-da-loro-non-ce-liberta" data-post-id="2657040669" data-published-at="1648239285" data-use-pagination="False"> L’ambasciatore querela «La Stampa». Il governo: «Da loro non c’è libertà» Tornano gli anni di piombo in Piazzale Clodio. Ieri l’ambasciatore russo Sergey Razov ha depositato una denuncia per istigazione a delinquere e apologia di reato contro il quotidiano La Stampa e il suo giornalista Domenico Quirico. Sarebbero «colpevoli», secondo il diplomatico di stanza a Roma, di aver pubblicato un articolo in cui si ragionava sulla possibilità di uscire dalla crisi ucraina con l’uccisione di Vladimir Putin. Eppure nell’articolo contestato non si invitava all’omicidio del presidente russo, ma si faceva un ragionamento più o meno cinico sull’efficacia in generale dei tirannicidi. In realtà, la mossa di ieri di Razov sembra più che altro una forma di pressione contro un giornale italiano. Di sicuro, come mostrano anche gli ultimi report di Amnesty International, la Russia non sembra avere i titoli per impartire lezioni di giornalismo. Razov ieri mattina si è presentato in Procura a Roma per presentare un esposto. È successo che il 22 marzo La Stampa, sotto un titolo un po’ infelice come «Se uccidere Putin è l’unica via d’uscita», ha pubblicato un lungo ragionamento di Quirico che rispondeva a una domanda banale: che succederebbe se qualcuno facesse fuori il presidente russo? Il tutto senza ovviamente auspicare tale eventualità. Per l’ambasciatore russo, «Questo articolo d’autore considerava la possibilità dell’uccisione del presidente della Russia. Non c’è bisogno di dire che questo è fuori dell’etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo». E visto che, continua Razov, «nel codice penale dell’Italia si prevede possibilità di istigazione a delinquere e apologia di reato, in precisa conformità alla legislazione italiana mi sono recato alla procura della Repubblica e confido nella giustizia italiana». L’ambasciatore ha poi allargato le lamentele, sostenendo che «ogni giorno, sulla stampa italiana, vedo foto sulla cui provenienza ci sono dubbi». E ha concluso con una considerazione poco rassicurante: «La cosa che ci preoccupa è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi». Il diplomatico ha anche detto che sulle armi nucleari «dalla Russia non è stata avanzata alcuna minaccia», anche se «ogni nostra dichiarazione viene letta come minacciosa, anche se tacciamo». Razov ha poi citato la missione russa nel nostro Paese durante il Covid: «Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, ma se qualcuno morde quella mano non è onorevole», ha detto. Certo, quando lo stesso Razov parla di un articolo che «considera la possibilità dell’uccisione» di Putin, probabilmente si è risposto da solo sulla reale istigazione all’omicidio. Per il resto, ancora il 28 febbraio scorso, Amnesty International scriveva che «il Cremlino continua a ridurre al silenzio le proteste e obbliga gli organi di stampa nazionali a sostenere le sue posizioni, usando la forza per disperdere le manifestazioni contro la guerra». Insomma, forse neppure i giornaloni italiani meritavano una lezione di giornalismo da Mosca. Intanto, ieri, il ministro Luigi Di Maio ha risposto su Twitter: «La Stampa, come tutti i nostri organi di informazione, fa il suo mestiere: raccontare quello che succede, comprese le atrocità della guerra in Ucraina. In Italia la libertà di stampa è intoccabile. Avanti senza censure. Solidarietà a Massimo Giannini e alla sua redazione». In serata è arrivata anche il commento del premier Mario Draghi, che, dopo aver espresso solidarietà alla Stampa, ha detto: «Non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia inquietato, perché è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è la libertà di stampa. E si sta meglio da noi»
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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