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2023-09-19
Gas e ora l’idrogeno. Gli acquisti comuni Ue uccidono il mercato
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Dopo aver rivelato l’intenzione di rendere strutturale il meccanismo di acquisti congiunti di gas sulla piattaforma AggregatEU, la commissione europea, a quanto risulta, sarebbe intenzionata ad allargare il meccanismo anche a biogas e all’idrogeno. Vi sarebbe già un documento in questo senso, trasmesso dalla commissione al Parlamento europeo.
L’idrogeno, sulla carta, dovrebbe avere un ruolo preminente nelle strategie di decarbonizzazione messe in pista dall’Unione europea, a patto che sia prodotto utilizzando fonti rinnovabili. Il che significa che sarà necessario installare capacità di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non solo per sostituire l’attuale generazione a base di gas e carbone, ma anche per produrre idrogeno. Si stima sarà necessaria una produzione aggiuntiva di energia elettrica da fonte rinnovabile pari al 30% del totale, solo per produrre idrogeno. La produzione di idrogeno, dal punto di vista energetico, è altamente inefficiente.
Bisognerebbe chiedersi perché si è giunti a negare in radice l’essenza del mercato interno, vero totem dell’Unione europea, inventando un meccanismo di aggregazione della domanda e di una piattaforma con cui gli operatori vendono il gas. Il meccanismo di acquisto congiunti inventato dalla Commissione a guida Ursula von der Leyen doveva essere temporaneo ed era stato pensato soprattutto per aiutare Berlino dopo che i due gasdotti Nord Stream, che portavano in Germania il gas direttamente dalla Russia, sono stati resi inutilizzabili. Ma nei giorni scorsi si è saputo che la Commissione punta a rendere il meccanismo stabile, ed ora a questo si aggiungerebbe la piattaforma stabile per l’acquisto congiunto di idrogeno.
In barba al principio della concorrenza e del mercato interno fortemente competitivo, il totem dell’Unione europea.
Qualcuno si è spinto a dire recentemente che il meccanismo di acquisti congiunti è servito a contenere le quotazioni record del gas sui mercati finanziari nel momento più difficile della tempesta dei prezzi dell’energia. Questo è semplicemente falso, un po’ come l’oro di Bologna. Le quotazioni del gas hanno avuto il loro picco nell’agosto 2022, a seguito della folle corsa a riempire gli stoccaggi scatenata dalla Germania in crisi di gas, mentre la Ue lanciava il suo schizofrenico programma RepoweEU. Questo sanciva la rinuncia al gas russo mentre tutta Europa ne era ancora pienamente dipendente. Dal settembre 2022 i prezzi del gas sono calati in maniera abbastanza regolare, ma questo andamento non ha nulla a che fare né con il price cap (chi se lo ricorda?) né, tantomeno, con il meccanismo di acquisti congiunti. La piattaforma ha infatti emesso il primo bando per la richiesta di offerte il 25 aprile 2023, quando le quotazioni del gas erano già tornate attorno a 30 euro al megawattora, cioè dieci volte in meno rispetto al picco di agosto 2022. I quantitativi transati, poi, sono minimi rispetto al volume totale dei consumi europei. Sin qui la piattaforma ha lanciato due gare, una terza è prevista per il 3 ottobre prossimo, una quarta per dicembre. Nelle prime due gare, 91 acquirenti hanno espresso una richiesta di 27,5 miliardi di metri cubi. Contro i circa 400 miliardi di consumo totale annuale della Ue. Oltretutto gli operatori che vendono gas ai consumatori raramente ne sono anche produttori. Eliminata dal mercato occidentale Gazprom, ci sono Shell, Eni, la norvegese Equinor e pochissimi altri. Il resto del gas è algerino, ancora russo, azero, e poi c’è tanto Gnl, che arriva dagli Usa, dal Qatar e ancora dalla Russia.
Quindi, il gas che arriva in vendita sulla piattaforma spesso è già di seconda o di terza mano, cioè a prezzi non bassi. In più, la domanda partecipa alla piattaforma in forma di aggregazione, curata dai venditori a clienti finali, oppure vi accedono i grandissimi consumatori. Se la partecipazione alla piattaforma di acquisti congiunti fosse davvero vantaggiosa, non si vede il motivo per cui un piccolo fornitore che non partecipa al meccanismo debba pagare il gas di più di un altro che invece partecipa. La concorrenza diventa una parola vuota, si creano delle discriminazioni tra consumatori. In barba ai trattati e a tutta la filosofia d’accatto sul mercato fortemente competitivo, sul divieto di aiuti di Stato, sulle distorsioni della concorrenza e tutto l’armamentario ideologico unionista. L’idrogeno, poi, al momento è soprattutto una grande incognita. Vi sono faraonici progetti e piani di sviluppo che mostrano grafici con crescite «esponenziali» nella produzione di H2. Entro il 2030, l’Ue ha l’obiettivo di raggiungere una capacità produttiva annuale di circa 20 milioni di tonnellate. Ad oggi, però, produrre idrogeno su larga scala è antieconomico. Dunque, ancora una volta, l’Unione, con le sue politiche dissennate, mette l’intero sistema energetico continentale in crisi, per poi trovare soluzioni che peggiorano ulteriormente la situazione.
In fondo, anche in questo caso il mantra europeista si ripete: l’Europa non funziona? Ci vuole più Europa!
Caro bollette per aiutare il clima? Sì, solo se l’aumento è sotto il 2%
I fatti hanno la testa dura, pare abbia detto Lenin. In estrema sintesi, è ciò che dice anche l’ultimo rapporto annuale sul mondo dell’energia pubblicato da Bain & Company, prestigiosa società di consulenza americana, partner strategico del World economic forum ed entusiasta aderente alla cosiddetta agenda di Davos.
L’analisi di Bain è strutturata come una indagine condotta tra oltre 600 alti dirigenti di 125 aziende dei settori dell’energia e delle risorse naturali in 46 paesi e si nutre anche di altre indagini condotte tra i consumatori di tutto il mondo. Il campione è dunque molto significativo.
Cosa dice il rapporto? Tre cose. La prima è che per raggiungere il net zero (cioè emissioni zero di CO2) al 2050, gli investimenti infrastrutturali annuali in energia verde dovrebbero essere triplicati, rispetto alle cifre di adesso.
La seconda è che tale necessità di investimenti è ben lontana dall’essere soddisfatta: il settore minerario, ad esempio, reinvestirà nella crescita solo il 44% del capitale, in calo rispetto al 56% dell’anno precedente. Il settore del petrolio e gas reinvestirà solo il 43% del capitale, in calo rispetto al 58% del 2018.
Il terzo concetto chiave nello studio di Bain, per noi il più rilevante, è che sebbene i consumatori si dicano preoccupati per il cambiamento climatico, nella maggior parte dei casi si dichiarano non disposti a pagare bollette più onerose per contribuire alla risoluzione del problema. Per dirlo con i numeri, secondo un sondaggio di Bain del febbraio 2023, solo il 30% dei consumatori accetterebbe un aumento del 2% della bolletta per fronteggiare il cambiamento climatico.
Decisamente un pessimo risultato per le politiche green, soprattutto europee. Secondo Bain, per quasi l’80% dei manager intervistati gli ostacoli maggiori alla transizione energetica sono «la mancanza di chiarezza regolatoria e la quasi nulla disponibilità da parte dei clienti a pagare un premio per partecipare attivamente a un percorso green».
Al di là del costo del capitale, in aumento, il problema diventa il rientro degli investimenti, visto che i consumatori non sembrano disposti a concedere ritorni significativi agli investitori. Infatti, il rapporto di Bain riporta un dato interessante. Per ogni miliardo di euro investito in una iniziativa «emissioni zero», con un costo del capitale del 5%, considerati tasse ed ammortamenti, assumendo 20 anni di vita utile, sono necessari 108 milioni di euro all’anno di ricavo, al netto delle spese operative. Cioè, servono ricavi per 108 milioni l’anno solo per ripagare il debito, ammortizzare l’investimento e avere un ritorno finanziario. A questo andrebbero aggiunti i costi operativi. Ciò significa che, per rientrare dell’investimento, l’energia deve costare di più, altrimenti l’iniziativa non si giustifica economicamente. Se i tassi aumentano, aumentano anche i ricavi necessari, e dunque il prezzo dell’energia.
Peccato però che queste cifre siano proibitive, soprattutto se si guardano i risultati del sondaggio di Bain. Il 70% dei consumatori europei non è disposto a sostenere un aumento delle bollette, neppure di un misero 2%, per sostenere il green deal. Solo il 15% sarebbe disposto a sostenere un aumento del 10%. Il 60% dei consumatori, invece, vedrebbe di buon occhio una tassa sulle famiglie più ricche, suggerendo in qualche modo che per pagare la transizione agli investitori privati sia necessario un riequilibrio fiscale. Va detto però che la strada di un aumento delle tasse appare improponibile. In primis perché la transizione energetica costerà cifre talmente gigantesche che non c’è al mondo sistema fiscale che possa adeguarvisi. In secondo luogo, la pressione fiscale sulle persone fisiche, almeno in Italia, è già soffocante. In terzo luogo, sono ben pochi i contribuenti che ricadrebbero nella fattispecie. A meno di passare direttamente all’esproprio, non proletario ma ecologico.
La narrazione green, insomma, si schianta ogni giorno contro il muro della realtà. La propaganda sul cambiamento climatico genera ansia ma non farà aprire il portafoglio di chi fa già fatica ad arrivare alla fine del mese.
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La Commissione vuole estendere lo schema nato con la guerra ad altri derivati. Salterà la concorrenza e servirà più energia.Caro bollette: il 30% dei consumatori interpellati accetta un sacrificio minimo. L’eco-ansia non esiste.Lo speciale contiene due articoli.Dopo aver rivelato l’intenzione di rendere strutturale il meccanismo di acquisti congiunti di gas sulla piattaforma AggregatEU, la commissione europea, a quanto risulta, sarebbe intenzionata ad allargare il meccanismo anche a biogas e all’idrogeno. Vi sarebbe già un documento in questo senso, trasmesso dalla commissione al Parlamento europeo.L’idrogeno, sulla carta, dovrebbe avere un ruolo preminente nelle strategie di decarbonizzazione messe in pista dall’Unione europea, a patto che sia prodotto utilizzando fonti rinnovabili. Il che significa che sarà necessario installare capacità di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non solo per sostituire l’attuale generazione a base di gas e carbone, ma anche per produrre idrogeno. Si stima sarà necessaria una produzione aggiuntiva di energia elettrica da fonte rinnovabile pari al 30% del totale, solo per produrre idrogeno. La produzione di idrogeno, dal punto di vista energetico, è altamente inefficiente.Bisognerebbe chiedersi perché si è giunti a negare in radice l’essenza del mercato interno, vero totem dell’Unione europea, inventando un meccanismo di aggregazione della domanda e di una piattaforma con cui gli operatori vendono il gas. Il meccanismo di acquisto congiunti inventato dalla Commissione a guida Ursula von der Leyen doveva essere temporaneo ed era stato pensato soprattutto per aiutare Berlino dopo che i due gasdotti Nord Stream, che portavano in Germania il gas direttamente dalla Russia, sono stati resi inutilizzabili. Ma nei giorni scorsi si è saputo che la Commissione punta a rendere il meccanismo stabile, ed ora a questo si aggiungerebbe la piattaforma stabile per l’acquisto congiunto di idrogeno. In barba al principio della concorrenza e del mercato interno fortemente competitivo, il totem dell’Unione europea.Qualcuno si è spinto a dire recentemente che il meccanismo di acquisti congiunti è servito a contenere le quotazioni record del gas sui mercati finanziari nel momento più difficile della tempesta dei prezzi dell’energia. Questo è semplicemente falso, un po’ come l’oro di Bologna. Le quotazioni del gas hanno avuto il loro picco nell’agosto 2022, a seguito della folle corsa a riempire gli stoccaggi scatenata dalla Germania in crisi di gas, mentre la Ue lanciava il suo schizofrenico programma RepoweEU. Questo sanciva la rinuncia al gas russo mentre tutta Europa ne era ancora pienamente dipendente. Dal settembre 2022 i prezzi del gas sono calati in maniera abbastanza regolare, ma questo andamento non ha nulla a che fare né con il price cap (chi se lo ricorda?) né, tantomeno, con il meccanismo di acquisti congiunti. La piattaforma ha infatti emesso il primo bando per la richiesta di offerte il 25 aprile 2023, quando le quotazioni del gas erano già tornate attorno a 30 euro al megawattora, cioè dieci volte in meno rispetto al picco di agosto 2022. I quantitativi transati, poi, sono minimi rispetto al volume totale dei consumi europei. Sin qui la piattaforma ha lanciato due gare, una terza è prevista per il 3 ottobre prossimo, una quarta per dicembre. Nelle prime due gare, 91 acquirenti hanno espresso una richiesta di 27,5 miliardi di metri cubi. Contro i circa 400 miliardi di consumo totale annuale della Ue. Oltretutto gli operatori che vendono gas ai consumatori raramente ne sono anche produttori. Eliminata dal mercato occidentale Gazprom, ci sono Shell, Eni, la norvegese Equinor e pochissimi altri. Il resto del gas è algerino, ancora russo, azero, e poi c’è tanto Gnl, che arriva dagli Usa, dal Qatar e ancora dalla Russia. Quindi, il gas che arriva in vendita sulla piattaforma spesso è già di seconda o di terza mano, cioè a prezzi non bassi. In più, la domanda partecipa alla piattaforma in forma di aggregazione, curata dai venditori a clienti finali, oppure vi accedono i grandissimi consumatori. Se la partecipazione alla piattaforma di acquisti congiunti fosse davvero vantaggiosa, non si vede il motivo per cui un piccolo fornitore che non partecipa al meccanismo debba pagare il gas di più di un altro che invece partecipa. La concorrenza diventa una parola vuota, si creano delle discriminazioni tra consumatori. In barba ai trattati e a tutta la filosofia d’accatto sul mercato fortemente competitivo, sul divieto di aiuti di Stato, sulle distorsioni della concorrenza e tutto l’armamentario ideologico unionista. L’idrogeno, poi, al momento è soprattutto una grande incognita. Vi sono faraonici progetti e piani di sviluppo che mostrano grafici con crescite «esponenziali» nella produzione di H2. Entro il 2030, l’Ue ha l’obiettivo di raggiungere una capacità produttiva annuale di circa 20 milioni di tonnellate. Ad oggi, però, produrre idrogeno su larga scala è antieconomico. Dunque, ancora una volta, l’Unione, con le sue politiche dissennate, mette l’intero sistema energetico continentale in crisi, per poi trovare soluzioni che peggiorano ulteriormente la situazione.In fondo, anche in questo caso il mantra europeista si ripete: l’Europa non funziona? 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L’analisi di Bain è strutturata come una indagine condotta tra oltre 600 alti dirigenti di 125 aziende dei settori dell’energia e delle risorse naturali in 46 paesi e si nutre anche di altre indagini condotte tra i consumatori di tutto il mondo. Il campione è dunque molto significativo. Cosa dice il rapporto? Tre cose. La prima è che per raggiungere il net zero (cioè emissioni zero di CO2) al 2050, gli investimenti infrastrutturali annuali in energia verde dovrebbero essere triplicati, rispetto alle cifre di adesso. La seconda è che tale necessità di investimenti è ben lontana dall’essere soddisfatta: il settore minerario, ad esempio, reinvestirà nella crescita solo il 44% del capitale, in calo rispetto al 56% dell’anno precedente. Il settore del petrolio e gas reinvestirà solo il 43% del capitale, in calo rispetto al 58% del 2018. Il terzo concetto chiave nello studio di Bain, per noi il più rilevante, è che sebbene i consumatori si dicano preoccupati per il cambiamento climatico, nella maggior parte dei casi si dichiarano non disposti a pagare bollette più onerose per contribuire alla risoluzione del problema. Per dirlo con i numeri, secondo un sondaggio di Bain del febbraio 2023, solo il 30% dei consumatori accetterebbe un aumento del 2% della bolletta per fronteggiare il cambiamento climatico. Decisamente un pessimo risultato per le politiche green, soprattutto europee. Secondo Bain, per quasi l’80% dei manager intervistati gli ostacoli maggiori alla transizione energetica sono «la mancanza di chiarezza regolatoria e la quasi nulla disponibilità da parte dei clienti a pagare un premio per partecipare attivamente a un percorso green». Al di là del costo del capitale, in aumento, il problema diventa il rientro degli investimenti, visto che i consumatori non sembrano disposti a concedere ritorni significativi agli investitori. Infatti, il rapporto di Bain riporta un dato interessante. Per ogni miliardo di euro investito in una iniziativa «emissioni zero», con un costo del capitale del 5%, considerati tasse ed ammortamenti, assumendo 20 anni di vita utile, sono necessari 108 milioni di euro all’anno di ricavo, al netto delle spese operative. Cioè, servono ricavi per 108 milioni l’anno solo per ripagare il debito, ammortizzare l’investimento e avere un ritorno finanziario. A questo andrebbero aggiunti i costi operativi. Ciò significa che, per rientrare dell’investimento, l’energia deve costare di più, altrimenti l’iniziativa non si giustifica economicamente. Se i tassi aumentano, aumentano anche i ricavi necessari, e dunque il prezzo dell’energia. Peccato però che queste cifre siano proibitive, soprattutto se si guardano i risultati del sondaggio di Bain. Il 70% dei consumatori europei non è disposto a sostenere un aumento delle bollette, neppure di un misero 2%, per sostenere il green deal. Solo il 15% sarebbe disposto a sostenere un aumento del 10%. Il 60% dei consumatori, invece, vedrebbe di buon occhio una tassa sulle famiglie più ricche, suggerendo in qualche modo che per pagare la transizione agli investitori privati sia necessario un riequilibrio fiscale. Va detto però che la strada di un aumento delle tasse appare improponibile. In primis perché la transizione energetica costerà cifre talmente gigantesche che non c’è al mondo sistema fiscale che possa adeguarvisi. In secondo luogo, la pressione fiscale sulle persone fisiche, almeno in Italia, è già soffocante. In terzo luogo, sono ben pochi i contribuenti che ricadrebbero nella fattispecie. A meno di passare direttamente all’esproprio, non proletario ma ecologico. La narrazione green, insomma, si schianta ogni giorno contro il muro della realtà. La propaganda sul cambiamento climatico genera ansia ma non farà aprire il portafoglio di chi fa già fatica ad arrivare alla fine del mese.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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