2025-08-17
«Dissi a Testori: so solo balbettare. E lui scrisse per me il “Factum est”»
Dal volume con gli atti di una giornata di studi sul grande regista e scrittore, pubblichiamo un’intervista all’attore Andrea Soffiantini. Che racconta la genesi di uno dei testi più impegnativi del suo «maestro».Vorrei partire parlando con te di un’opera di Testori: I promessi sposi alla prova… Andrée Ruth Shammah e Franco Parenti la mettono in scena nel 1984. Negli anni appena precedenti Testori si era un poco distaccato dall’allora Pier Lombardo perché aveva iniziato il suo rapporto con la Compagnia del teatro dell’Arca di Forlì di cui anche tu facevi parte…«Esatto! In verità anche la Conversazione con la morte debuttò al Pier Lombardo. Ma l’ultimo suo spettacolo per Parenti era stato effettivamente l’Edipus, terzo capitolo della trilogia degli «scarrozzanti». Dopodiché ci fu la scrittura della Conversazione, e subito dopo l’Interrogatorio a Maria per la Compagnia dell’Arca e poi il Factum est. Nell’84 si riavvicina a Parenti coi Promessi sposi alla prova».Parliamo allora di uno dei temi fondamentali di quell’opera: il tema del «maestro». Un importante filosofo di Bologna, Padre Giuseppe Barzaghi, riferendosi al suo maestro Gustavo Bontadini, ha dato una definizione di maestro: «Il maestro è colui che ammaestra». […] Sembra quasi assiomatico, incontrovertibile. Sei d’accordo?«Io credo che una “maestria” sia in realtà già presente in qualunque allievo. Può essere allenata, certo, ma anche in una persona giovane e inesperta è già nascosta una certa maestria. Quello che deve fare il maestro è “raccogliere” questa maestria che già c’è. Dico proprio “raccogliere”. Un maestro deve far sì che essa si sveli, incoraggiarla… ma non è il maestro a creare. Altrimenti si tratterebbe di un plagio. In questo senso “il maestro ammaestra”. Come mai Testori diede a una compagnia come la nostra, di amici, che non avevamo fatto l’accademia, un’opera come l’Interrogatorio a Maria? Perché aveva riconosciuto che in noi vi era una maestria, una qualità, che non trovava negli attori di grido. Ricordo, e cito sempre, il primo incontro che avemmo con lui sul palcoscenico: l’episodio del provino. Eravamo una compagnia di giovani attori e ci mise “alla prova”, usando un termine dei suoi Promessi sposi… ci fece fare un provino: ci fece salire a uno a uno sul palcoscenico e ci chiese di dire l’Ave Maria, così come l’avevamo imparata dai nostri genitori. Anche io tra gli altri salii e cominciai: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te…”. Lui disse: “Ecco; il mio testo, Interrogatorio a Maria, deve essere pronunciato così, come una preghiera”. Ci diede questa indicazione registica. In che cosa fu maestro? “Raccolse” una maestria che già c’era: quest’Ave Maria imparata dai nostri genitori, che diventò uno strumento da usare sul palcoscenico. Lui l’aveva valorizzata dicendo “in questo modo potete dire le mie parole”. Qualcosa che avevamo già nelle nostre mani poteva essere usato. Una maestria che fin da bambini avevamo acquistato dai nostri nonni e genitori poteva essere usata. E la cosa è andata avanti così. Lui guardava… e raccoglieva quello che già esisteva dando a questo qualcosa una forma e uno scopo».Perché secondo te c’è tanto bisogno di un maestro, come si dice nello spettacolo?«Io vedo che tutti i giovani, che si affacciano al teatro desiderosi, questo maestro lo cercano. Ma perché in fondo cercano qualcuno a cui far vedere chi sono, le loro necessità, le loro aspirazioni, i loro bisogni, i loro “sì” e i loro “no” del momento, cercano qualcuno che li possa ascoltare…».Forse vale anche per la vita questo…«Certo! Uno è sempre alla ricerca di padri e di madri. Sarebbe assurdo e anche ingiusto nei confronti dei genitori naturali chiedere loro di svolgere questa funzione per tutta la tua vita. Spesso questa cosa accade, ora, in questo nostro tempo, con esiti drammatici. Un genitore non può sostenere le ragioni del figlio in tutto, fino a quando questo figlio ormai avrà sessanta o settant’anni. L’uomo, per sua natura, deve stare a questa legge, cioè cercare dei nuovi padri e delle nuove madri».E Testori è stato un padre in quel momento della tua vita.«Sì, assolutamente. È stato paterno e magistrale».Magistrale?«La sua paternità è stata magistrale. Quando mi diede il Factum est, che mi spaventò tanto… con quell’inizio balbettante “Cri, va criverà…”, me lo diede assecondando la mia richiesta di voler fare del teatro… gli dissi proprio così: che volevo fare del teatro pur essendo incapace di pronunciare qualcosa che non fosse un balbettio. Lui dopo pochi giorni, non dieci secondo me, mi portò l’inizio di questo Factum est che iniziava con un balbettio, cioè quello che io denunciavo come mia unica capacità. Raccoglieva quello che era un mio desiderio dandogli una forma. Ed era un testo teatrale, quindi indicandomi anche la strada. Nella sua azione fu paterno e magistrale. Oltre ad ascoltare il mio desiderio di voler fare l’attore, e la mia necessità di fare teatro, mi stava indicando e donando anche la strada».Testori, dunque, certamente lo era, un maestro. Non solo di teatro, ma anche di vita. Al termine dei Promessi sposi alla prova il personaggio del Maestro dice pressappoco così: «Dopo questa prova non avete guadagnato solo la patente d’attori, ma anche quella di uomini!». Quindi un insegnamento che va al di là del teatro. Dall’incontro con Testori tu hai deciso di continuare ad essere attore, hai fatto del teatro il tuo lavoro, da allora sono quarant’anni che non smetti di calcare palchi in giro per l’Italia. Nel frattempo hai anche educato tanti giovani al teatro. Chissà quanti altri come te possono dire di aver avuto la vita profondamente cambiata da Testori… Come mai è relativamente poco conosciuto?«Notorietà e prestigio erano forse le cose che più Testori desiderava. […] È però una cosa che in parte gli è mancata rispetto ad altri uomini di cultura. Perché? Io butto là… al di là delle inevitabili antipatie, al di là della politica… io credo che Testori, nonostante fosse nel pieno della maturità a tutti i livelli, fosse troppo scandalosamente “figlio”. “Figlio” nel senso che a lui mancava qualcosa. Questo si manifestava nel suo bisogno di essere riconosciuto, ascoltato, “messo a tema”; era sempre alla ricerca di una paternità. Questo metteva in imbarazzo il mondo intorno».Una sorta di umiltà?«Sì. Era una persona che aveva un bisogno evidente. Denunciava pubblicamente in ogni circostanza la sua “mancanza”. È una cosa che mette in imbarazzo perché chi sta intorno ha sempre bisogno di giustificare, o venire in soccorso… Di fronte a lui scoppiava quella bolla, quell’illusione dell’uomo moderno, che non ci sia bisogno di nulla, che bastiamo a noi stessi. E allora ci ritroviamo in questo bel mondo in cui sembra che niente serva, ma che tutto c’è! È un mondo fasullo, infecondo… e anche un po’ violento. Un mondo che se ne frega della “magistralità” e dell’unicità che c’è in te. Vi era in Testori invece un profondo “senso della carne”: la carne ti costringe a chiederti a riconoscerti sempre come “fatto”, come creatura, come bisogno, come natura finita, come dipendente… Ma spesso uno non “regge” a questa carne, la carne “va a male”… e allora ci si allontana».Nel libro con Luca Doninelli, Testori racconta quell’emblematico episodio della sua infanzia, quando, mentre cammina a fianco della mamma, si imbatte in un ladro ammanettato seguito da due carabinieri. L’uomo dopo averlo salutato gli rivolge delle parole che lui non riesce a udire. Testori rimane segnato da questo fatto. Che “parola” gli aveva rivolto il carcerato prima di essere portato via? Per tutta la vita Testori cercherà di dare voce a quell’uomo.«Quel carcerato che si volta e spalanca la bocca per dire… Testori non poteva “ridurre” il senso di quella bocca. Quel corpo, quella carne che si era mossa per dire qualcosa che lui bambino non aveva capito bene. Da lì è nata la sua vocazione di scrittore […]».È un amore spassionato alla realtà tutta quanta…«Sì, esatto. A tal riguardo posso dire, per averlo conosciuto e frequentato, che quello che colpiva di Testori era la sua totale assenza di distrazione. Lui era sempre attento e attratto dalla realtà. Come se, ed è così, la realtà fosse “mancante” di qualcosa per compiersi, rivelarsi. E che lui avesse il compito di soddisfare o, se non altro, lenire questa «mancanza» continua che vedeva nelle cose. E questo lo costringeva a essere mai distratto. Tanta gente invece si mette uno schermo, non vede, si distrae… non si lascia coinvolgere da questa mancanza».Concludendo vorrei toccare un ultimissimo tema: il tema della speranza, la parola che chiude i Promessi sposi alla prova. In Testori si trovano sempre a convivere come due anime, due forze vitali contrapposte: da una parte il disfacimento, lo strazio, il senso doloroso dell’esistenza, dall’altra invece una speranza granitica, una certezza. Come è possibile? Quanto è concreta questa sua speranza? Testori ne avrebbe anche oggi?«Tra le notizie belle e le notizie brutte Testori privilegiava sempre le notizie drammatiche, forse per non farci dimenticare, per non farci girare la testa dall’altra parte. Noi siamo corruttibili, corrotti, non siamo immortali, il rischio nostro è quello di ignorare questo fatto quando invece avremmo ogni giorno la dimostrazione del disastro che c’è nel mondo. […] Testori era una persona che stava di fronte con più evidenza a questa realtà, che è una realtà di dolore. Non cancellava la presenza del dolore, perché è molto facile non reggere al dolore e al nonsenso, lui la affrontava. Affermando la vita al posto della morte. Sollevando il vessillo della speranza. Mi viene in mente la riscrittura testoriana dell’Edipus in cui Giocasta non muore; invece salta sul sedile posteriore della motoretta di Edipo e insieme corrono via verso le barricate costruite per la rivoluzione, forse anche verso la morte, chi lo sa, ma un futuro di ribellione c’è sempre contro il nonsenso e la fine. Ma forse per risponderti dovrei recitare quel passaggio dell’Interrogatorio a Maria, alla fine, quando c’è il Coro che si rivolge a Maria, e chiede proprio così: è possibile ancora a noi sperare? […] Risponde Maria: «è possibile, sì. / Ogni speranza in Dio / nel mio e nel Suo Figlio / nasce come da bulbo il giglio, / ma a Lui bisogna darsi; / in Lui, di Lui vivere e fidarsi; / e con forza, preghiera e carità / decidere, volere e in ogni ora amare / di Dio e Cristo il disegno, / l’entità». Sapere che tu non vivi in un mondo assurdo, ma che ogni cosa, ogni secondo, è stata già redenta. Mi viene in mente anche il finale dell’ultimo dei Tre lai, l’opera testamento di Testori, quando Maria, la Mater Strangosciàs, dice, con quella lingua sconcertante ma espressiva: «la vita, sì, / l’è ’na ciavada / […] sì, ciavada / ma resurrezionada!».
Chuck Schumer (Getty Images)