True
2024-02-24
Ursula «stravede» per le aziende tedesche
Ursula von der Leyen (Ansa)
Ursula von der Leyen una ne pensa e cento ne incontra (di aziende): ora che è ufficialmente in campagna elettorale per il secondo mandato alla guida della Commissione europea, la presidente uscente sta moltiplicando i colloqui con i boss delle grandi imprese del continente e lobbisti. Lo rivela Politico.eu, con un’inchiesta che squarcia il velo dei soliti discorsi demagogici di qualunque esponente politico in campagna elettorale e va direttamente al sodo, snocciolando i dati delle riunioni alla quali la Von der Leyen ha presenziato, e paragonandole con quelle del suo predecessore. «Le informazioni sulle lobby», scrive Politico, «suggeriscono che la porta della Von der Leyen a Bruxelles è stata più aperta alle aziende tedesche durante il suo primo mandato». Tra il 2019 e il 2024, in particolare, Ursula von der Leyen e il suo governo hanno incontrato gruppi e compagnie di varie nazionalità. Al primo posto con il 18,4% ci sono imprese della Germania, patria di Ursula; seguono gli Stati Uniti con il 13,9% di riunioni; al terzo posto aziende e compagnie francesi, con il 13,1% delle riunioni; al quarto gli svedesi con il 9,3%; a seguire belgi (5,9%), olandesi (5,9%), danesi (4,8%), britannici (4,5%), italiani (4%), finlandesi (3,7%), spagnoli (3,7%), e via così. Il lussemburghese Jean-Claude Juncker, predecessore della von der Leyen al vertice della Commissione, nel corso del suo mandato, tra il 2014 e il 2019, ha incontrato solo 61 organizzazioni rispetto alle 163 della von der Leyen. Se il primo posto in termini di tempo riservato dalla von der Leyen e dal suo governo alle imprese tedesche non sorprende, considerato che la Germania è la più grande economia europea, fa impressione che al secondo posto ci siano gli Stati Uniti. «Non per niente Washington è una grande fan della Von der Leyen», commenta non senza ironia Politico, sottolineando quello che gli osservatori sanno molto bene: Ursula, come abbiamo avuto modo di constatare in questi due anni di guerra tra Russia e Ucraina, è stata molto attenta agli ordini che arrivavano dalla Casa Bianca, portando l’Europa a sostenere militarmente Kiev con investimenti di miliardi e miliardi di euro. Del resto, inutile essere ipocriti, in Occidente funziona così: se un governo vuole durare, deve seguire agli Stati Uniti, e evidentemente la Von der Leyen ha intenzione di durare altri cinque anni al vertice dell’Europa, e così, oltre ad allinearsi sulle strategie geopolitiche, non fa attendere troppo i lobbisti e gli industriali Usa che la vogliono incontrare. Come potete facilmente intuire, anche le giravolte sul green sono accompagnate da sostanziosi meeting con gli affari al centro dei colloqui: «La Von der Leyen», scrive Politico, «si sta facendo in quattro per ridurre i piani di regolamentazione, sia per il clima che per la salute umana che erano una parte fondamentale del suo programma. Martedì scorso, ad Anversa, si è intrattenuta con gli amministratori delegati delle grandi imprese che hanno presentato il loro piano per una nuova politica industriale guidato dal Cefic. Le informazioni dall’interno della sala erano scarse, ma dalle dichiarazioni della Von der Leyen sappiamo che la presidente sembra preferire la compagnia del settore privato: il 72% delle organizzazioni con cui si è incontrata erano aziende o associazioni di categoria». Il Cefic, acronimo del francese Conseil européen des fédérations de l’industrie chimique, è il Consiglio europeo delle industrie chimiche, e rappresenta 29.000 grandi, medie e piccole compagnie chimiche in Europa. «La Von der Leyen tiene incontri con una vasta gamma di associazioni imprenditoriali e rappresentanti dell’industria», ha dichiarato la portavoce della Commissione Arianna Podesta, che ha citato i regolari colloqui della presidente con i sindacati e l’associazione Business europe durante i vertici sociali tripartiti, nonché i dialoghi sulla transizione pulita. La portavoce, riferisce Politico, ha tuttavia sottolineato che gli incontri con la Von der Leyen e il suo gabinetto «non sono fissati in considerazione del Paese in cui si trovano. Le riunioni della Presidente e del suo Gabinetto riflettono pienamente le priorità politiche della Commissione», ha dichiarato. La transizione tecnologica della Ue è una di queste priorità, ha aggiunto la Podesta, evidenziando come molti degli incontri della Von der Leyen si sono svolti anche durante l’epidemia di Covid, quando la «nazionalità dei partecipanti non ha giocato alcun ruolo, ma solo la loro rilevanza per le azioni che la Commissione deve intraprendere». E il resto della Commissione? Il commissario per il Mercato unico Thierry Breton, francese, «si incontra in modo sproporzionato con altri dirigenti francesi», rivela Politico, che pubblica un grafico nel quale si vede che Breton ha riservato la maggior parte dei suoi incontri ai compatrioti, poi ai tedeschi e molto meno agli americani. In sostanza, siamo di fronte a una attività frenetica, che non ha certamente nulla di illegale, ma che dice molto di come Ursula von der Leyen e il suo governo abbiano agende piene zeppe di incontri e riunioni con gruppi industriali e lobbisti. È la politica, bellezza, e non possiamo farci niente. O quasi.
E in Polonia aiuta il governo amico: sbloccati 134 miliardi di fondi Ue
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato ieri che la Commissione sbloccherà i 134 miliardi di euro destinati alla Polonia, la cui erogazione era bloccata da tempo per le presunte violazioni delle regole europee sullo stato di diritto da parte del precedente governo.
Da Varsavia, dove ha parlato in conferenza stampa assieme al nuovo premier polacco Donald Tusk e al presidente di turno dell’Ue, il belga Alexander De Croo, von der Leyen ha detto che «La prossima settimana il Collegio presenterà due decisioni sui fondi europei attualmente bloccati per la Polonia».
I fondi in via di sblocco sono relativi a due tipi di finanziamento, quello per le politiche di coesione, per 74 miliardi, e quello relativo al Recovery & resilience Fund per altri 60 miliardi. Si tratta di cifre che sinora non hanno influito sulle finanze pubbliche della Polonia, poiché si tratta di impegni di spese future su un arco temporale che arriva al 2030.
Per quanto riguarda il programma Rrf, si tratta del Pnrr polacco, per il quale già a dicembre, pochi giorni dopo la formazione del nuovo governo, il premier Donald Tusk si era affrettato a chiedere l’erogazione della prima tranche di 6,3 dei 60 miliardi complessivi a disposizione di Varsavia, tra sovvenzioni e prestiti. «Questa è una grande notizia per il popolo polacco e per l’Europa, e questo è il vostro risultato», ha detto von der Leyen, rivolgendosi a Tusk.
I fondi diretti alla Polonia erano stati bloccati negli anni scorsi in relazione alla riforma del sistema giudiziario attuata dal precedente governo, guidato dal partito Diritto e Giustizia (PiS). La Commissione aveva chiesto al governo polacco di ritirare le riforme per ripristinare l’indipendenza della magistratura. Ma sinora Varsavia non aveva convinto la Commissione sbloccare i fondi. Il miracolo è riuscito al neo-premier Tusk, che a dicembre ha presentato un piano d’azione, ancora non attuato, con ben nove provvedimenti che modificheranno sostanzialmente, quando saranno attuati, il sistema giudiziario polacco secondo i dettami di Bruxelles.
I rapporti tra Varsavia e Bruxelles dunque sembrano avviati alla distensione, dopo anni di confronti aspri tra il governo del partito conservatore PiS, durato otto anni, e la Commissione a guida von der Leyen. Il nuovo governo di centro-sinistra sembra certo più affine al corso politico dell’Unione. La mossa della Presidente della Commissione, dal punto di vista politico, è perfettamente comprensibile. Con lo sblocco dei fondi, von der Leyen aiuta a rafforzare internamente un governo gradito a Bruxelles, quello di Donald Tusk, da poco al potere sulla base di una maggioranza politica fragile nel paese. Niente di meglio di una iniezione di spesa pubblica per tenere a galla l’economia e generare consenso (la Polonia è un percettore netto di fondi dall’Unione europea). Allo stesso tempo, von der Leyen si assicura il supporto della Polonia nella sua corsa per ottenere un secondo mandato come presidente della Commissione.
Già lunedì scorso, infatti, Tusk aveva annunciato che il suo partito, Piattaforma Civica (che al Parlamento europeo è nel gruppo del Ppe) sosterrà la candidatura di von der Leyen come presidente della prossima Commissione, dopo le elezioni del prossimo giugno. Manovre di reciproca sponda, insomma, che sollevano più di qualche dubbio sulle tanto celebrate «regole» europee e sulla discrezionalità di cui palazzo Berlaymont fa ampio uso. Proprio due giorni fa la Corte dei conti europea aveva sottolineato come il blocco dei fondi alla Polonia non sia stato deciso sulla base del regolamento sullo stato di diritto, sollevando dubbi sulla trasparenza delle decisioni della Commissione.
Oltre alla personale campagna elettorale di Ursula von der Leyen, sulla decisione di sbloccare i fondi alla Polonia ha pesato certamente anche la guerra tra Russia e Ucraina. La Polonia è a ridosso della prima linea del conflitto e all’Unione europea (e alla Nato) serve che Varsavia non defletta dal sostegno alla difesa ucraina.
Continua a leggereRiduci
Il 20% delle imprese incontrate dal presidente della Commissione è del suo Paese. Seguono gruppi Usa, francesi e svedesi. A Bruxelles negli ultimi 5 anni i vertici con lobbisti e imprenditori sono triplicati. E ora che vuole la rielezione accelera ancora.In Polonia la presidente della Commissione Ue sblocca 134 miliardi di fondi per il governo «amico» di Donald Tusk.Lo speciale contiene due articoli.Ursula von der Leyen una ne pensa e cento ne incontra (di aziende): ora che è ufficialmente in campagna elettorale per il secondo mandato alla guida della Commissione europea, la presidente uscente sta moltiplicando i colloqui con i boss delle grandi imprese del continente e lobbisti. Lo rivela Politico.eu, con un’inchiesta che squarcia il velo dei soliti discorsi demagogici di qualunque esponente politico in campagna elettorale e va direttamente al sodo, snocciolando i dati delle riunioni alla quali la Von der Leyen ha presenziato, e paragonandole con quelle del suo predecessore. «Le informazioni sulle lobby», scrive Politico, «suggeriscono che la porta della Von der Leyen a Bruxelles è stata più aperta alle aziende tedesche durante il suo primo mandato». Tra il 2019 e il 2024, in particolare, Ursula von der Leyen e il suo governo hanno incontrato gruppi e compagnie di varie nazionalità. Al primo posto con il 18,4% ci sono imprese della Germania, patria di Ursula; seguono gli Stati Uniti con il 13,9% di riunioni; al terzo posto aziende e compagnie francesi, con il 13,1% delle riunioni; al quarto gli svedesi con il 9,3%; a seguire belgi (5,9%), olandesi (5,9%), danesi (4,8%), britannici (4,5%), italiani (4%), finlandesi (3,7%), spagnoli (3,7%), e via così. Il lussemburghese Jean-Claude Juncker, predecessore della von der Leyen al vertice della Commissione, nel corso del suo mandato, tra il 2014 e il 2019, ha incontrato solo 61 organizzazioni rispetto alle 163 della von der Leyen. Se il primo posto in termini di tempo riservato dalla von der Leyen e dal suo governo alle imprese tedesche non sorprende, considerato che la Germania è la più grande economia europea, fa impressione che al secondo posto ci siano gli Stati Uniti. «Non per niente Washington è una grande fan della Von der Leyen», commenta non senza ironia Politico, sottolineando quello che gli osservatori sanno molto bene: Ursula, come abbiamo avuto modo di constatare in questi due anni di guerra tra Russia e Ucraina, è stata molto attenta agli ordini che arrivavano dalla Casa Bianca, portando l’Europa a sostenere militarmente Kiev con investimenti di miliardi e miliardi di euro. Del resto, inutile essere ipocriti, in Occidente funziona così: se un governo vuole durare, deve seguire agli Stati Uniti, e evidentemente la Von der Leyen ha intenzione di durare altri cinque anni al vertice dell’Europa, e così, oltre ad allinearsi sulle strategie geopolitiche, non fa attendere troppo i lobbisti e gli industriali Usa che la vogliono incontrare. Come potete facilmente intuire, anche le giravolte sul green sono accompagnate da sostanziosi meeting con gli affari al centro dei colloqui: «La Von der Leyen», scrive Politico, «si sta facendo in quattro per ridurre i piani di regolamentazione, sia per il clima che per la salute umana che erano una parte fondamentale del suo programma. Martedì scorso, ad Anversa, si è intrattenuta con gli amministratori delegati delle grandi imprese che hanno presentato il loro piano per una nuova politica industriale guidato dal Cefic. Le informazioni dall’interno della sala erano scarse, ma dalle dichiarazioni della Von der Leyen sappiamo che la presidente sembra preferire la compagnia del settore privato: il 72% delle organizzazioni con cui si è incontrata erano aziende o associazioni di categoria». Il Cefic, acronimo del francese Conseil européen des fédérations de l’industrie chimique, è il Consiglio europeo delle industrie chimiche, e rappresenta 29.000 grandi, medie e piccole compagnie chimiche in Europa. «La Von der Leyen tiene incontri con una vasta gamma di associazioni imprenditoriali e rappresentanti dell’industria», ha dichiarato la portavoce della Commissione Arianna Podesta, che ha citato i regolari colloqui della presidente con i sindacati e l’associazione Business europe durante i vertici sociali tripartiti, nonché i dialoghi sulla transizione pulita. La portavoce, riferisce Politico, ha tuttavia sottolineato che gli incontri con la Von der Leyen e il suo gabinetto «non sono fissati in considerazione del Paese in cui si trovano. Le riunioni della Presidente e del suo Gabinetto riflettono pienamente le priorità politiche della Commissione», ha dichiarato. La transizione tecnologica della Ue è una di queste priorità, ha aggiunto la Podesta, evidenziando come molti degli incontri della Von der Leyen si sono svolti anche durante l’epidemia di Covid, quando la «nazionalità dei partecipanti non ha giocato alcun ruolo, ma solo la loro rilevanza per le azioni che la Commissione deve intraprendere». E il resto della Commissione? Il commissario per il Mercato unico Thierry Breton, francese, «si incontra in modo sproporzionato con altri dirigenti francesi», rivela Politico, che pubblica un grafico nel quale si vede che Breton ha riservato la maggior parte dei suoi incontri ai compatrioti, poi ai tedeschi e molto meno agli americani. In sostanza, siamo di fronte a una attività frenetica, che non ha certamente nulla di illegale, ma che dice molto di come Ursula von der Leyen e il suo governo abbiano agende piene zeppe di incontri e riunioni con gruppi industriali e lobbisti. È la politica, bellezza, e non possiamo farci niente. O quasi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/von-der-leyen-elezioni-candidatura-2667353572.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-in-polonia-aiuta-il-governo-amico-sbloccati-134-miliardi-di-fondi-ue" data-post-id="2667353572" data-published-at="1708722828" data-use-pagination="False"> E in Polonia aiuta il governo amico: sbloccati 134 miliardi di fondi Ue La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato ieri che la Commissione sbloccherà i 134 miliardi di euro destinati alla Polonia, la cui erogazione era bloccata da tempo per le presunte violazioni delle regole europee sullo stato di diritto da parte del precedente governo. Da Varsavia, dove ha parlato in conferenza stampa assieme al nuovo premier polacco Donald Tusk e al presidente di turno dell’Ue, il belga Alexander De Croo, von der Leyen ha detto che «La prossima settimana il Collegio presenterà due decisioni sui fondi europei attualmente bloccati per la Polonia». I fondi in via di sblocco sono relativi a due tipi di finanziamento, quello per le politiche di coesione, per 74 miliardi, e quello relativo al Recovery & resilience Fund per altri 60 miliardi. Si tratta di cifre che sinora non hanno influito sulle finanze pubbliche della Polonia, poiché si tratta di impegni di spese future su un arco temporale che arriva al 2030. Per quanto riguarda il programma Rrf, si tratta del Pnrr polacco, per il quale già a dicembre, pochi giorni dopo la formazione del nuovo governo, il premier Donald Tusk si era affrettato a chiedere l’erogazione della prima tranche di 6,3 dei 60 miliardi complessivi a disposizione di Varsavia, tra sovvenzioni e prestiti. «Questa è una grande notizia per il popolo polacco e per l’Europa, e questo è il vostro risultato», ha detto von der Leyen, rivolgendosi a Tusk. I fondi diretti alla Polonia erano stati bloccati negli anni scorsi in relazione alla riforma del sistema giudiziario attuata dal precedente governo, guidato dal partito Diritto e Giustizia (PiS). La Commissione aveva chiesto al governo polacco di ritirare le riforme per ripristinare l’indipendenza della magistratura. Ma sinora Varsavia non aveva convinto la Commissione sbloccare i fondi. Il miracolo è riuscito al neo-premier Tusk, che a dicembre ha presentato un piano d’azione, ancora non attuato, con ben nove provvedimenti che modificheranno sostanzialmente, quando saranno attuati, il sistema giudiziario polacco secondo i dettami di Bruxelles. I rapporti tra Varsavia e Bruxelles dunque sembrano avviati alla distensione, dopo anni di confronti aspri tra il governo del partito conservatore PiS, durato otto anni, e la Commissione a guida von der Leyen. Il nuovo governo di centro-sinistra sembra certo più affine al corso politico dell’Unione. La mossa della Presidente della Commissione, dal punto di vista politico, è perfettamente comprensibile. Con lo sblocco dei fondi, von der Leyen aiuta a rafforzare internamente un governo gradito a Bruxelles, quello di Donald Tusk, da poco al potere sulla base di una maggioranza politica fragile nel paese. Niente di meglio di una iniezione di spesa pubblica per tenere a galla l’economia e generare consenso (la Polonia è un percettore netto di fondi dall’Unione europea). Allo stesso tempo, von der Leyen si assicura il supporto della Polonia nella sua corsa per ottenere un secondo mandato come presidente della Commissione. Già lunedì scorso, infatti, Tusk aveva annunciato che il suo partito, Piattaforma Civica (che al Parlamento europeo è nel gruppo del Ppe) sosterrà la candidatura di von der Leyen come presidente della prossima Commissione, dopo le elezioni del prossimo giugno. Manovre di reciproca sponda, insomma, che sollevano più di qualche dubbio sulle tanto celebrate «regole» europee e sulla discrezionalità di cui palazzo Berlaymont fa ampio uso. Proprio due giorni fa la Corte dei conti europea aveva sottolineato come il blocco dei fondi alla Polonia non sia stato deciso sulla base del regolamento sullo stato di diritto, sollevando dubbi sulla trasparenza delle decisioni della Commissione. Oltre alla personale campagna elettorale di Ursula von der Leyen, sulla decisione di sbloccare i fondi alla Polonia ha pesato certamente anche la guerra tra Russia e Ucraina. La Polonia è a ridosso della prima linea del conflitto e all’Unione europea (e alla Nato) serve che Varsavia non defletta dal sostegno alla difesa ucraina.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
Continua a leggereRiduci
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
Continua a leggereRiduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
Continua a leggereRiduci