2021-07-23
«Mio padre Vittorio anticipò Almodóvar e faceva ridere Totò»
Vittorio Caprioli e nel riquadro il figlio Carlo (Getty Images)
Il figlio del gigante dello spettacolo di cui cade il centenario della nascita: «Elegantemente amaro con spirito napoletano».Vittorio Caprioli, un gigante dello spettacolo. Dimenticato, poco celebrato, anche in questo anno in cui cade il centenario della sua nascita, eppure sempre presente con la sua faccia inconfondibile, la simpatia contagiosa e la maestria inarrivabile. La sua arte rivive nelle parole del figlio Carlo, che ne ha seguito le orme, prediligendo il teatro (ha lavorato con Luca Ronconi e Giuseppe Patroni Griffi), ma non dimenticando il cinema. Senza alcun timore reverenziale e alcuna possibilità di confronto. Troppo diversi fisicamente, eppure così simili nello spirito e nell'amore per quel palcoscenico che è la vita.Com'era Vittorio Caprioli nella vita privata: così simpatico e travolgente come appariva nei film?«Era molto più simpatico! La galleria dei personaggi che interpretava andava dai laidi agli sconfitti, mentre la sua dimensione umana era totalmente all'opposto. Era estremamente divertente, accompagnato da sprazzi di grande cultura e di acuta intelligenza. Non dimentichiamoci poi l'essere napoletano, quel tipo di cultura e quel modo di pensare che affondava le sue radici tra il barocco e la scaramanzia».Era anche un grande giocatore di carte…«Molto bravo. C'è un aneddoto di vita dalla quale attinge la nascita della signora Cecioni, con lo sketch del marito che ritarda. Papà quando compì quarant'anni sparì per quattro giorni, affogando la paura di crescita per il passaggio alla maturità in giro per i casinò italiani. Non è che andasse al tavolo di chemin e si sedesse, no, prima guardava, controllava, vedeva come girava l'aria e, se non gli piaceva, se ne andava. Gli piaceva giocare alle carte, in modo consapevole e anche vincente, a differenza di altri. Non c'era la televisione e per la sua generazione giocare a carte era un modo per riunirsi e divertirsi».Quando ha capito che suo padre faceva l'attore?«Ho un ricordo molto precoce: ho debuttato in lirica a quattro anni a Cremona, in una Madama Butterfly per la regia di Franca Valeri perché papà stava girando là vicino. In quelle repliche serviva il bimbo e Franca chiese a papà se potessi essere disponibile. Mamma mi spiegò la storia in un modo che ancora non ho dimenticato, in stile favola, mentre Franca si preoccupava della messinscena e delle posizioni. Il racconto di mamma era talmente preciso che quando arrivò Pinkerton, mio padre, presentato per quello che era ovviamente, scappai, in modo istintivo, da Cio-Cio-San, mia madre sulla scena, ed ebbi il primo applauso a scena aperta. Poi, quando lei stava tentando l'harakiri, mi tolsi la benda, che mi aveva messo per non farmi assistere, ed andai ad abbracciarla, secondo applauso a scena aperta. Da lì Franca disse: “Questo è un predestinato". Questa esperienza mi legò inconsapevolmente al mondo dell'arte. Non ho un ricordo: “Ho scoperto che cosa fa papà", ho una provenienza».Sui set andava a trovare suo padre?«Sui set meno. Il set è un'altra dimensione, è difficile che ci sia la famiglia attorno. Papà stava sempre fuori, io lo vedevo due-tre mesi l'anno. Negli ultimi tempi, d'estate, cercava di stare sempre più insieme a noi. Papà era così, a un certo punto diceva: “Basta, non si può fare più televisione!" e per dieci anni non la faceva, “non si può più fare cinema!" e per dieci anni faceva teatro, “il teatro non si può più fare" e allora girava film, per cui, in base alle sue previsioni o ai suoi progetti, lo vedevo più o meno tempo».Quando era adolescente già aveva deciso di fare l'attore?«Ho sempre avuto una spontaneità immediata. Sono stato cacciato dalle scuole dei preti per la condotta, non per motivi di studio, perché facevo le battute, tutti ridevano, tranne l'insegnante, un sacerdote. Quando mi punivano, dicevo: “Guardi, c'è un problema di relazione: se tutti ridono e non ride solo lui, il problema è il suo". Mi è sempre stato facile cercare l'ascolto degli altri, forse anche perché ero figlio unico, quindi l'attenzione era tutta rivolta su di me. Non ho mai avuto problemi di timidezza».Con un padre così…«Però papà era molto geloso della sua privacy. Io non ho mai avuto l'imbarazzo che mio padre fosse un personaggio celebre. A volte ho visto persone venire a chiedergli un consiglio: non era visto come una celebrità algida, o che incutesse timore, ma come una persona che appartenesse anche a loro da un punto di vista umano. Io non assomiglio a papà, assomiglio a mamma, tranne, come diceva Lina Wertmüller quando ho lavorato con lei: “Tu, quando reciti, hai delle espressioni che assomigli a papà, ma fuori non ci azzecchi per nulla". Ho fatto il primo percorso professionale con le stesse opere teatrali che ha fatto papà, La tempesta, Romeo e Giulietta, però avevamo personaggi completamente opposti. Io avevo il fisico da primattore, papà da caratterista. Non ho mai subito quello schiacciamento di personalità che tanti altri hanno avuto, mentre ho avuto un padre affettuoso, premuroso, che mi ha lasciato la massima libertà di movimento, di pensiero, di espressione. Si è permesso solo di indirizzarmi a giocare a calcio, avendo avuto un grande passato sportivo da giovane. Io giocavo molto bene e lui mi ha portato alla Lazio, dove ho fatto una stagione nelle giovanili, poi ho smesso perché avevo capito che la carriera sportiva dura pochi anni, mentre quella artistica può durare tutta la vita».Suo padre quali sport aveva fatto?«Nuoto e pallanuoto. Giocava nella Posillipo, qualche volta anche contro Carlo Pedersoli, Bud Spencer. Poi faceva tuffi assieme a Raffaele La Capria». Infatti ha diretto Leoni al sole, ispirato al romanzo di La Capria Ferito a morte.«C'è un aneddoto molto simpatico al riguardo. Papà aveva girato poco tempo prima Il generale Della Rovere con Roberto Rossellini, il suo primo ruolo drammatico, e allora gli ha proposto un soggetto. Roberto gli ha detto: “Dammelo. Vediamo che ci dicono". Dopo un paio di mesi papà lo ha chiamato: “Ma il soggetto?". “Bene, bene, ho già avuto un anticipo, però risentiamoci tra un paio di mesi". Dopo un paio di mesi: “Non ti preoccupare, ti chiamerà qualcuno". Cosa era successo? Rossellini aveva detto ai suoi produttori che aveva un soggetto. Avuto l'anticipo, li ha aveva lasciati macerare, finché quelli lo avevano richiamato: “Signor Rossellini, l'anticipo di quel progetto?". “Quale progetto?". “Leoni al sole". “E che volete da me? È di Caprioli. È un giovane, bravo, promettente, chiamate lui!". Quindi quando i produttori hanno chiamato papà, avendo già tirato fuori i soldi, non potevano più dire tranquillamente: “Per il ruolo di Mimì abbiamo pensato ad Amedeo Nazzari". “Chi? Ma non c'entra nulla!"». Lo fece poi Philippe Leroy…«Philippe era un amico suo. Lo aveva ribeccato a via della Croce, dove viveva in quel momento, in una stanza in condivisione. Si divertiva a fare i tuffi dai torrioni dei castelli con un ferro da stiro per rompere il ghiaccio del fossato, quelle cose da ex parà, da ragazzi scapestrati. Gli ha detto: “Philippe, che fai?". “Sono qui a Roma". “Vieni, facciamo un film". Non ci ha pensato sopra, lo ha visto: per la parte di Mimì era perfetto. Gli altri, a parte Carlo Giuffrè, erano amici suoi: solo così si poteva fare un vero affresco di quella società. Non erano I Vitelloni, come a volte si fa il paragone con Fellini, non è neanche Ferito a morte e non era nemmeno la storia di Raffaele, ma di suo fratello Pelos. Papà quella vita l'aveva fatta davvero e la conosceva benissimo: c'erano questi nobili che avevano le proprietà a Positano e crescevano molto lentamente dentro, al di là dell'aspetto fisico. Era il brusco risveglio di una gioventù finita e la potevi raccontare solo con quelli che avevano quarant'anni, ma non li dimostravano mai». Gli piaceva fare il regista?«Certo, lo ha fatto tante volte. Il mio film preferito è Scusi, facciamo l'amore?. È avanti: è Almodóvar, prima che nascesse Almodóvar, è una storia assolutamente atipica, fuori dagli schemi, anche abbastanza disgustosa per certi versi, ma assolutamente vera. Era come papà: elegantemente amaro. A lui piaceva mostrare quelli che cercano la scorciatoia e trovano poi il dirupo». Le rimarrà il rimpianto di non aver recitato con suo padre…«Certo! Papà si commuoveva davanti alla pubblicità dell'Amaro Averna quando c'era il padre che veniva a vedere le prove del figlio su un palcoscenico. Quelle poche cose che ho sentito da papà sono oro colato, però è vero anche quello che mi ha detto il suo amico Armando Pugliese: “Se vuoi trovare un modo umano per prendere la dipartita di papà così presto, considera una fortuna che tu possa aver fatto tutto da solo senza che lui si sia intromesso. È stato un modo cortese di farti camminare sulle tue gambe, forse nel tempo giusto". Mi è sembrato un modo, molto napoletano, di rendere la disgrazia accettabile. Papà è morto quando avevo diciassette anni». Che effetto le fa rivedere i suoi film?«Oggi trovo una grande fortuna nel poterlo rivedere, tra virgolette, vivo, anche se non è lui, chiaramente. Rispetto a questa galleria di personaggi mio padre era di tutt'altra eleganza perché era un uomo molto raffinato, come tutti i personaggi dello spettacolo della sua generazione. Anche io me lo porto dentro. Detesto l'idea del perfomer che sul palcoscenico si sbatte, suda, fa gli esercizi ginnici. A teatro voglio vedere un attore che ti ammalia con la sua personalità, al quale sembra che tutto venga facile perché è un mago. Questa sapienza gli attori della generazione di mio padre te la trasmettevano. Che poi il cu… se lo facevano, ma non te lo facevano vedere: ecco la magia della recitazione». Unita a una grande padronanza tecnica…«Quando papà uscì dall'Accademia nazionale d'arte drammatica, dopo due stagioni andò a fare la rivista con Totò, insieme ad Alberto Bonucci, con il quale avrebbe formato, insieme a Franca Valeri, il Teatro dei Gobbi. Vennero presi in simpatia dal Principe che gli diceva: “Scegliete una vocale". Loro ne sceglievano una e lo facevano ridere immedesimandosi in quella vocale e trovando delle voci adeguate. Provate a far ridere adesso facendo una i oppure una u!».
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Flaminia Camilletti