Enrico Montesano: «È l’epoca della satira “corretta”. Ho pagato per la mia indipendenza»
Enrico Montesano ritorna a teatro dopo una lunga assenza. Ottanta voglia di stare con voi, il titolo dello spettacolo, che racchiude il senso di questa nuova avventura in giro per l’Italia, a riallacciare il filo che lo lega al pubblico da sempre.
Cosa rappresenta per lei questo ritorno in teatro?
«Abbiamo già fatto uno spettacolo a Trapani, al Cine Teatro Ariston. È andato molto bene, il teatro era pieno. Per me è stata una lunga attesa. Nel 2020 facevo uno spettacolo in un teatrino off, come si dice in America, dove sperimentavo questo mio nuovo monologo».
Ha dovuto interromperlo per la pandemia.
«Smisi di fare le recite il 19 gennaio 2020. Lo volevo riprendere, portandolo in un teatro grande, ma è stato impossibile perché i teatri sono rimasti chiusi per molto tempo. Siamo passati dall’emozione alla rimozione. Quando hanno riaperto, sovrapponendosi le nuove produzioni alle vecchie, non c’erano spazi. Tra parentesi, in quel periodo chi ha assunto una posizione indipendente, l’ha pagata. Io ho scelto una parola di libertà, come diceva il filosofo Giorgio Agamben. A me m’ha rovinato Agamben. A Petrolini ’a guera, a me Agamben! Adesso il tempo è passato e per fortuna il tempo è un grande medico».
Quindi avverte che le cose sono cambiate e che l’ostracismo che ha vissuto si sta a poco a poco allentando?
«Un po’, ma grazie al cielo il pubblico è superiore alle scaramucce, ama l’attore per quello che gli può offrire di distrazione e divertimento in quelle due ore e mi ha sempre seguito. Sono riconoscente di questo affetto e ricambio. Ecco perché ho scritto Ottanta voglia di stare con voi».
Anche perché lei è sempre stato amato, nessuno lo può negare.
«Noi abbiamo seminato bene negli anni Settanta-Ottanta e anche un po’ negli anni Novanta. Nel 2007 ho fatto È permesso, uno spettacolo non conforme per un pubblico politicamente scorretto. Già allora parlavo della cultura del piagnisteo, proprio come diceva Robert Hughes nel suo bellissimo libro. Ce l’avevo con gli inglesismi, con il politicamente corretto, era uno spettacolo coraggioso».
Sono aumentati gli inglesismi...
«La mia lotta contro gli inglesismi è una lotta contro i mulini a vento. Ormai tutto si svolge sui social network, si parla di slot, di lab, di score, ma che è? Parla come magna, te possino acciaccatte!».
Com’è cambiata la comicità nell’era del politicamente corretto?
«Adesso, intanto, si fa la satira non al potere, ma a chi critica il potere, che è un controsenso, però è comodo, si rischia zero. E poi c’è una grande autocensura. Se un marziano, come diceva Flaiano, sbarcasse a Roma, vedrebbe un Paese che guarda solo trasmissioni canore o giochi. L’Italia è il Paese che ha più cantanti per chilometro quadrato, cantano tutti, non solo i professionisti, ai quali faccio tanto di cappello, ma qui cantano zia, madre, padre, fratello, sorella!».
Un altro format sono le interviste…
«Ormai sulle reti generaliste non fanno che intervistarsi addosso, sempre con l’occhio rivolto al passato, «allora le faccio vedere…». Ormai è una replica diffusa di quell’idea geniale che fu Ieri e oggi, che fece Leone Mancini all’epoca del Secondo canale Rai».
Non le propongono interviste televisive?
«Sono stato a Ciao Maschio ultimamente, mi sono anche divertito perché abbiamo contrabbandato un po’ di spettacolo di varietà. È un programma un po’ diverso perché ci sono tre uomini e, se si crea un minimo di empatia, esce fuori una conversazione piacevole, quindi sfugge all’intervista fissa. Ci sono interviste interessanti in tv, come quelle che fa Peter Gomez, dipende anche dall’intervistatore».
Ormai la star è chi intervista, non più l’intervistato.
«Certo, è un mondo alla rovescia».
Invece negli anni Settanta, quando lei era un comico d’avanguardia, la situazione era diversa.
«Io ho preso un premio internazionale della comicità al Festival della Rosa d’oro di Montreux con Quantunque io, trasmissione anomala perché non c’era orchestra, non c’era balletto, prevedeva una serie di trovate comiche e di gag. In ogni puntata avevo una soubrette famosa, da Nadia Cassini a Gloria Guida, Sydne Rome a Janet Agren. Il dirigente di Rai 2 dell’epoca, mi pare che fosse Mario Carpitella, mi fece vedere delle videocassette: “Enrico, andiamo su questa direzione: Monty Python, Dave Allen, Marty Feldman…”, comici anglosassoni che pochi conoscevano».
L’ultimo suo programma risale a 20 anni fa…
«Trash (Non si butta via niente) nel 2004, l’ultima cosa che fece Gabriella Ferri prima della sua morte. All’epoca c’erano in Rai dirigenti capaci che andavano nei teatri, si informavano, a cui devo molto perché hanno fatto scelte coraggiose. Oggi c’è un po’ di timore: “Rifaccio per la ventesima volta la stessa trasmissione, male che vada faccio lo stesso ascolto”».
Cosa le piacerebbe fare, se trovasse un dirigente come quelli di una volta?
«Un varietà».
Invece il cinema, dove non la vediamo da qualche anno?
«Che cos’è il cinema? Le piattaforme hanno reso obsoleta la sala cinematografica».
Anche il livello dei film italiani è molto sceso…
«Purtroppo è molto autoreferenziale».
Lei ha avuto l’opportunità di lavorare con grandi registi…
«Sono felice perché ho partecipato a un bel periodo: Sergio Corbucci, Mario Monicelli, Giorgio Capitani, Pasquale Festa Campanile, Steno, i maestri della commedia italiana. Come diceva Dino Risi, con cui non sono riuscito a lavorare, perché commedia all’italiana? Sembra un dispregiativo. Commedia italiana. La gente ancora le ricorda queste commedie così semplici, se volete, mentre i critici cinematografici ci massacravano».
Erano snob, se ridevano, non lo ammettevano…
«Tranne Tullio Kezich, che su La Repubblica fece una critica per Aragosta a colazione che conservo e ogni tanto, quando sono giù morale, me la leggo perché per una sequenza del film mi paragona a Buster Keaton».
Nei suoi primi successi, come Io non scappo… fuggo e Io non spezzo… rompo, faceva coppia con il grande Alighiero Noschese.
«Era una coppia curiosa che però ha aperto la strada ad altre coppie… Noi eravamo i Bud Spencer e Terence Hill della commedia!».
Si trovava bene con lui?
«Sì, perché Alighiero era come un papà. Una persona buona, generosa. Nel mio spettacolo Ottanta voglia di stare con voi mostro una bella foto con Alighiero perché ripercorro la mia vita, che poi coincide con la mia carriera, e quindi ogni tanto scorrono delle foto. Così racconto la mia educazione religiosa, sentimentale, professionale, civica… e lì cominciano i guai! Si riaffaccia timidamente nel mio spettacolo un minimo di satira di costume e politica. Se io riguardo a quella che è stata la mia vita di cittadino, ho avuto il massimo del successo quando l’Italia era la quarta potenza industriale del mondo. Ormai ci siamo assuefatti ad essere una piccola provincia dell’impero, neanche la più importante».
Anche in campo culturale...
«Ho compiuto per la quarta volta 20 anni, oppure per la seconda volta i 40. In questi ultimi 40 anni siamo riusciti a ritornare a quello che eravamo nell’Ottocento, come diceva Metternich, una bella espressione geografica, dove si viene a mangiare, a suonare il mandolino, a prendere il sole».
Quali sono le figure nella sua carriera a cui sente di dover qualcosa?
«Pietro Garinei è stato una grande scuola. Mi diceva: “Tu sei un attore italiano, usa pure la tua calata romana, ma devi recitare in modo che ti capiscano dalla Val d’Aosta alla Puglia”. Ad Antonello Falqui, Castellacci e Pingitore dobbiamo trasmissioni di varietà che facevano milioni di ascolti, come Dove sta Zazà e Mazzabubù. Enrico Vaime e Italo Terzoli sono stati altri due autori che ho avuto la fortuna di incontrare».
Non le mancano adesso queste figure nella scrittura degli spettacoli?
«Sì, mi mancano perché a un certo punto quel gruppo di registi, autori e produttori si è esaurito. Uno si guarda attorno e dice: «Mannaggia, non c’è più nessuno, sono rimasto solo». Negli ultimi tre o quattro anni sono stato a guardare quello che succedeva e siccome non è che mi piacesse tanto, sono stato zitto».
Lo spettacolo arriverà nella sua Roma?
«Hanno pubblicato dieci-undici date e tutti mi dicono: “Non vieni in Veneto, non vieni a Genova, non vieni a Firenze?”. E io rispondo: aspettate perché i nostri produttori comunicano di volta per volta». Oggi fanno così, si danno le notizie a puntate!».
Strategie di marketing, altro inglesismo...
«Con Bravo sono stato a Milano un mese, 100.000 spettatori. Mi dettero L’Ambrogino d’oro, al quale tengo moltissimo. Adesso ti dicono: “Facciamo solo un giorno, poi se va bene, ci ritorniamo”. La mia generazione è quella che ha vissuto più cambiamenti di tutte. Questo lo racconto nello spettacolo. Sono nato che c’era il telefono duplex attaccato alla parete, adesso con mio figlio, che vive a Parigi, ci videochiamiamo. Se l’avesse saputo mio nonno, mi avrebbe detto: “Tu sei matto, stai a di’ una cosa folle. Ma che è un romanzo di Verne?!”».
Già fu un cambiamento epocale l’avvento delle tv private.
«Grazie alle tv private è nato il fenomeno di Febbre da cavallo, che per problemi di distribuzione non era andato benissimo nelle sale. Evidentemente glielo vendevano a basso costo, lo prendevano per tre passaggi e facevano un sacco d’ascolto. Le tv locali di tutta Italia hanno trasmesso Febbre da cavallo a spron battuto, anzi al galoppo!».
Una buona distribuzione era fondamentale...
«Ho diretto un solo film, A me mi piace, per il quale mi hanno dato il David di Donatello e il Nastro d’argento come miglior regista esordiente. Il film andava bene, faceva 30 milioni di lire in una sala cinematografica, per esempio il Maestoso su via Appia, a Roma, ma mi smontarono perché l’esercente aveva un contratto con le major americane e c’era Rocky di Stallone. Come fa una distribuzione italiana a reggere con Rocky? Non ne ho diretti più perché il cinema a volte è frustrante. Meglio il teatro, dove ogni sera consumiamo un rito antichissimo».
Giovanna Rei è un’attrice che ha conosciuto la grande notorietà, senza inseguirla, spesso quasi per caso, ma non hai mai avuto paura di fare un passo indietro pur di difendere se stessa e la sua vita. È appena apparsa nella serie tv Noi del Rione Sanità di Luca Miniero, trasmessa da Rai 1 con ottimi riscontri di pubblico. Una buona occasione per fare il punto sulla sua carriera.
Noi del Rione Sanità è stata un’esperienza che l’ha toccata nel profondo.
«Mi piacciono tantissimo le storie di rivalsa sociale e l’idea della gratitudine, anche se un mio amico mi dice sempre che è più facile incontrare Dio che la riconoscenza. Essendo napoletana, già conoscevo la storia di don Antonio Loffredo. La mia vicina di casa era un’assidua frequentatrice della parrocchia e andava ad aiutarlo nelle varie faccende. Il rione era abbandonato, lui è arrivata e ha sradicato la mentalità arrendevole, per cui ha salvato tanti ragazzi. È stato come un segno del destino ricevere questa parte».
Lei ha cominciato la sua carriera a Napoli, con Renato Carpentieri, straordinario attore.
«Il mio insegnante di recitazione del liceo mi portò a vedere uno spettacolo teatrale, in cui c’era Renato. Dopo averlo visto, ho detto: “Basta, faccio l’attrice e voglio cominciare con lui”. Renato fu carino, mi disse di andare a uno dei successivi casting e mi diede delle indicazioni. Io mi presentai come Mirandolina, tutta carina, loro furono molto dolci e alla fine mi scelsero. La sua grande idea fu di abbinare al teatro l’architettura, rispolverando la bellezza delle ville vesuviane, come Villa Bruno a San Giorgio a Cremano e Villa Campolieta a Ercolano, per cui facevamo un percorso teatrale e accompagnavamo gli spettatori nelle varie stanze. Io, tra l’altro, ero iscritta alla facoltà di Archittettura, quindi c’era una comunanza di interessi con Renato».
Quando ha deciso di intraprendere definitivamente la carriera d’attrice?
«Nonostante fossi estremamente timida, sentivo che recitare per me era catartico, mi aiutava a stare meglio. Io ero una ragazza che non esprimeva le emozioni, osservavo, ma tenevo tutto dentro. Invece grazie al teatro ho imparato a dire: “Bello, grazie, complimenti…”, tutte cose che sembrano scontate, ma non è semplice esprimere i propri sentimenti».
È una difficoltà che aveva fin da piccola?
«Avevo difficoltà a comunicare fuori dal mio microcosmo. In famiglia mi conoscevano come una nerd che stava sempre chiusa in stanza, mentre a scuola ero un capobranco, facevo delle cose pazzesche. C’era una dicotomia così evidente che la testa mi diceva: “Ma chi sono delle due?!”».
Quindi il percorso dell’attrice l’ha aiutato a ricomporre le due anime?
«Sì, esatto».
Poi ha lasciato l’università?
«Sì, a un certo punto l’ho dovuta mollare. La fortuna è stata che subito dopo quell’esperienza, siccome avevo un faccino molto carino, mi chiamarono molte produzioni e cominciai a lavorare tantissimo».
Ha esordito con L’ultimo Capodanno di Marco Risi, diventato nel tempo un film di culto.
«Un flop incredibile, fu smontato, rimontato, rismontato, rimontato ancora, ogni tanto lo riproponevano, ma era troppo moderno per l’Italia. Sarei curiosa di vedere il film per ogni montaggio. Poteva andare bene in America, dove erano abituati a Tarantino, non qui da noi”.
Ha ricordi del provino?
«Marco Risi mi osservò e mi disse: “Ma che bei capelli che hai!”. Io lo guardai incredula perché per me era una cosa normale, sono lì da sempre! Ero una ragazzina. Suo padre, Dino Risi, mi voleva coinvolgere in un progetto, ma io non capivo niente lì per lì».
Un altro incontro importante è stato con Carlo Vanzina.
«C’erano stati due incontri con Carlo, uno a Capri e l’altro quando mi vide ne L’ultimo capodanno e mi convocò per incontrarmi perché lui e Marco Risi erano molto amici».
A Capri dove l’aveva incontrato?
«Sono cresciuta a Capri, avevo la famiglia lì, e Carlo veniva spesso in vacanza. Io ero proprio la classica ragazzina caprese che gironzolava con il vestitino a fiori e il caratteristico sandalo. Ci incontrammo quando lui stava cercando una ragazza del posto per Anni ’50».
È stata la svolta della sua carriera?
«Assolutamente, però non l’ho saputa cogliere fino in fondo perché tra la fiction e il cinema preferii la prima, che all’epoca veniva quasi vista come una cosa di serie B, quindi difficilmente poi riuscivi a fare il cinema, dove infatti ho lavorato meno. È molto importante creare una rete di conoscenze, un gruppo nell’ambiente, mentre io lavoravo sul set e poi basta».
Non frequenta il mondo del cinema?
«Sono sempre stata molto amante delle mie cose, delle mie abitudini, e sono costantemente alla ricerca di ciò che mi fa stare meglio».
Malgrado non abbia coltivato le amicizie, ha sempre lavorato con continuità.
«Quasi sempre. Quando feci per quattro anni Camera Café, rimasi tagliata fuori da ogni altra cosa perché era un lavoro quotidiano che mi ha tolto anni preziosi, però sono contenta di averlo fatto. All’epoca avevo un fidanzato francese e quindi, frequentando Parigi, già conoscevo il programma. Lì era un fenomeno culturale, ne parlavano di tutti».
Ha avuto un grande successo anche in Italia.
«Per il pubblico giovanissimo ero Giovanna Caleffi di Camera Café, per il pubblico adulto, che lo seguiva meno, era quella sparita improvvisamente dalla circolazione. Con l’autore Christophe Sanchez avevo già fatto un programma pazzesco tra Truman Show e Scherzi a parte…».
Il protagonista.
«Sì. Facevo credere a un ragazzo della mia età di essere innamorata di lui. Ho vissuto una vita fittizia per un mese: era una commistione tra la realtà e immaginazione, non si capiva più cosa fosse vero e cosa fosse finto».
Quindi avevate sempre le telecamere che vi riprendevano?
«Sempre, tant’è che temevo che fossi anch’io vittima di questa storia, finché non l’ho visto montato. Pensavo: “Non è che staranno fregando anche me?”».
Com’era stata individuata la vittima?
«Avevano messo un annuncio sulle reti Mediaset: “Se hai un amico al quale vuoi fare uno scherzo, chiamaci”. Lui fu tirato dentro dal suo miglior amico. Era un insegnante di tennis e l’amico gli fece credere che era stato chiamato a Courmayeur per fare la stagione estiva in un hotel, pagato profumatamente. L’amico lo accompagna, durante il viaggio fanno un incidente e nella macchina con cui avviene il tamponamento ci sono ovviamente io. Poi ci incontriamo allo stesso hotel, più o meno per caso. Da lì parte una spy story che tu non hai idea! Io facevo una fatica terribile perché mi veniva talmente da ridere…».
Le davano una parte ogni giorno?
«C’era un canovaccio e poi avevo un piccolo microfono nell’orecchio, come quello che portava Ambra a Non è la Rai. Grazie ai capelli lunghi non si vedeva».
Ha avuto successo?
«Sono rimasta in mente a tantissime persone per anni perché, appena mi vedevano, ridevano».
E poi com’è finita?
«Ero uno scherzo terribile e la vittima c’è rimasta malissimo. Per molto tempo era arrabbiato con me, anche se aveva capito che io non avevo fatto niente».
Un altro grande successo al quale ha partecipato era Elisa di Rivombrosa.
«Non si poteva uscire di casa. Gente di tutti i livelli culturali, dal notaio alla signora snob, non ti aspettavi che venissero a dirti: “Io amo Elisa di Rivombrosa2. Io rimanevo così perplessa».
Parallelamente alla tv ha continuato a fare teatro?
«Quando non avevo impegni televisivi, ho sempre fatto teatro. Fino al Covid stavo nella compagnia di Maurizio Casagrande, una persona molto divertente che crea una bella atmosfera tra gli attori».
Per lei è molto importante l’ambiente di lavoro…
«Allora ti dico la verità: io amo il mio lavoro, mi ha dato tanto e ha fatto sì che diventassi la persona che sono, però lo amo di più quando sto bene. Quando ci sono troppe tensioni, sto talmente male che sono disposta a rifiutare».
Le è mai capitato di andarsene da un set?
«Sì, mi è capitato. Sicuramente non l’ho fatto per un colpo di testa, ma dopo una serie di difficoltà, per cui mi dicevo: “Scelgo la salute o la crisi mentale?”. Ho scelto la prima. Amo il mio lavoro, lo ringrazio, però è più importante la mia vita».
Quindi a un certo punto si ferma?
«Sì, quando la mia vita diventa meno importante».
E non le fanno scontare questi periodi di assenza?
«Poi, sì, la paghi e per rientrare ce ne vuole. Devi accettare le regole del gioco: anche se sei abituato a fare dei ruoli importanti, ti offrono dei ruoli più piccoli».
Sogna di lavorare con un regista?
«Con Ozpetek. L’ho sfiorato perché feci uno spot pubblicitario con lui per le Poste. Penso che sarebbe affascinato dai racconti della mia vita».
Nella sua carriera trasversale ha condotto un programma con Maurizio Costanzo su Rai Premium, Memory.
«Condurre è un parolone. Ero lì accanto a lui e gli facevo un po’ da supporto, davo un po’ di colore».
Come l’ha chiamata?
«Ci conoscevamo. Avevo girato uno spot in Sudafrica, in cui ero una mondina che schiacciava l’uva e quello spot mi aveva fatto diventare “nazional-popolare”, per cui Costanzo mi chiamò per andare nel suo salotto. Da lui iniziò una lunga lista di inviti per una serie di puntate più leggere in cui invitava i comici del momento e io ero la presenza femminile. Quando parlo di Carlo Vanzina e Maurizio Costanzo, mi viene da piangere perché per me erano veramente come dei parenti, oltre ad essere stati due punti di riferimento fondamentali nel lavoro. Al funerale di Carlo ho pianto come al funerale di mio nonno».
Un legame molto forte.
«Per me non esiste il rapporto freddo, professionale, poi certo sono una che sa stare al posto suo e non mi piace invadere gli spazi altrui, però dentro di me accadono delle cose così profonde. Sono fatta così, un po’ sentimentale!».
Marco Risi, una vita nel cinema, sulla scia di suo padre, il maestro della commedia all’italiana Dino, e di suo zio, il poeta e regista Nelo. I Risi, una delle grandi famiglie del cinema italiano, sempre un po’ defilati, malinconici nella vita privata, sempre pronti alla battuta e allo scherzo nella vita pubblica.
Cosa rappresentava il mondo del cinema durante la sua infanzia?
«Era il mondo alternativo al mio mondo normale, alla casa, agli amici, alla scuola. Il mondo del cinematografo, come diceva Mastroianni».
Quando ha avuto la percezione di questo strano mondo parallelo?
«Quando andai al cinema per la prima volta, anzi la prima volta in cui non andai, perché non volli entrare a vedere Marcellino pane e vino».
Perché?
«Avevo paura! Vidi il manifesto e mi sembrava una cosa agghiacciante, con quel Cristo che incuteva timore e il bambino spaventato che piangeva. Arrivati davanti al cinema con mia madre e mio fratello imbufalito, tornammo a casa perché mi rifiutavo di entrare. Avevo cinque anni o giù di lì».
Quindi il suo primo ricordo cinematografico è un rifiuto!
«Poi mi sono appassionato. Verso i dieci anni ho cominciato a frequentare il cinema Euclide, una sala parrocchiale di Roma, e dal mercoledì alla domenica, quasi tutti i giorni, vedevo film di ogni tipo, spesso anche da solo».
E sua madre?
«La divertiva che questo ragazzino andasse da solo al cinema, che all’epoca era un posto sicuro… meno per gli altri spettatori! Tante volte con amici facevamo degli scherzi, come degli enormi starnuti di gruppo. Una volta ho portato una fionda con la plastilina verde per colpire lo schermo. Alla fine del primo tempo sono scappato perché ho visto che lo schermo era pieno di macchie verdi».
Quando ha scoperto che suo padre era un regista?
«A scuola perché mi chiedevano: “Che mestiere fa tuo padre?”. “Il regista”. “E cosa fa il regista?” e io non lo sapevo. Allora ho imparato a rispondere che il regista dice agli attori quello che devono fare».
Anche suo zio Nelo Risi faceva il regista…
«Nelo però era più considerato, almeno da mio padre, un poeta. Ho cominciato con lui, non con mio padre. Ho fatto l’assistente volontario in Una stagione all’inferno, su Rimbaud, con protagonista Terence Stamp che, poverino, se ne è andato anche lui quest’estate. Poi fatto La colonna infame come assistente, stavolta pagato, a Cinecittà. Mentre giravamo, vedevo nascere accanto a noi, in esterni, il viale di Rimini di Amarcord. Ogni tanto uscivo e vedevo Fellini che camminava con delle belle donne, come Minnie Minoprio, perché stava cercando l’attrice per il personaggio della Gradisca».
Perché aveva chiesto a Nelo di fare l’assistente e non a suo padre? La intimoriva la figura paterna?
«Non credo di averlo chiesto io, è stato Nelo che me l’ha proposto, però mi trovavo più a mio agio con lui, che era più tranquillo. Mio padre poteva diventare una belva furibonda sul set. Quando ho fatto con lui l’aiuto regista per una settimana durante le riprese di Profumo di donna, c’è stato un episodio abbastanza spiacevole. Si è molto arrabbiato con una ragazza che doveva ridere e ballare sulla terrazza, mentre Vittorio Gassman giocava a mosca cieca con un altro cieco. Secondo mio padre lei non era all’altezza e ha cominciato a dirle delle cose molto pesanti. Allora io a un certo punto, rischiando, sono intervenuto e ho detto: “Papà, adesso basta”».
Cosa è successo sul set?
«Ho visto a dieci metri di distanza Gassman, seduto a un tavolo, intento a scrivere per il teatro, che ha alzato lo sguardo come per dire: “Cosa sta succedendo? Strano che un ragazzino si permetta di parlare così a Dino…”, però mio padre non ha detto niente. Del resto, sono sempre andato molto d’accordo con lui, c’era una grande intesa. Mi aveva fatto leggere la sceneggiatura del film: avevo inserito cinque-sei gag e lui me ne aveva prese tre».
Perché ha fatto solo per una settimana l’aiuto di suo padre?
«Perché l’aiuto era mio fratello Claudio, che quella settimana aveva dei problemi con il servizio militare, allora papà ha detto: “Vieni tu” e sono andato con lui a Napoli».
Sia lei che suo fratello aveva fatto i registi. Suo padre vi ha incentivato oppure no?
«Non ci ha mai né incoraggiato, né dissuaso. Ha pensato che potesse essere una cosa abbastanza naturale, ma non ci ha mai detto: “Che fate, non vi conviene, non dovete…”. Da questo punto di vista è stato generoso, però è stato il più critico di tutti».
Per esempio?
«Quando ha visto il mio primo film, Vado a vivere da solo, ha commentato: “Sei un professionista”, che non era un complimento. Voleva dire: “Vabbè, hai fatto il compito, ma il cinema è un’altra cosa”. Il rapporto è cambiato quando ha visto Mery per sempre: ecco lì ha cominciato ad avere una certa considerazione».
È strano che suo padre fosse così snob nei confronti delle commedie anni Ottanta…
«Proprio perché era terreno suo, sapeva come andavano fatte e sentiva che lì c’era un po’ troppa leggerezza. Mi ricordo che gli ho fatto vedere in anteprima Soldati - 365 all’alba perché c’era una versione televisiva più lunga di un’ora per le reti Mediaset. Gli ho chiesto dove tagliare per la versione cinematografica e lui in un attimo mi ha risposto: “Da qui a qui”».
I registi di quella generazione avevano il montaggio in testa...
«Non mi ha detto: “Taglia un pochino qua, un pochino là, un pochino su..”. Ha individuato l’episodio del nonnismo e mi ha detto che si poteva tranquillamente tagliare senza fare un soldo di danno. Ho fatto così e il film funzionava»
Mentre Nelo andava a vedere i tuoi film?
«Sì, sempre. Quando ha visto Fortapàsc con sua moglie Edith Bruck, ha detto una cosa che mi ha divertito: “Ma tu non sei il figlio di Dino Risi, sei il figlio di Francesco Rosi!”».
Suo padre a un certo punto si era trasferito in un famoso residence…
«Doveva stare via una settimana e invece c’è rimasto trent’anni. Io già vivevo fuori casa, eravamo grandicelli. Papà andava a trovare mamma e festeggiavamo sempre il Natale con tutti i parenti il 23 dicembre perché era il giorno del suo compleanno».
Suo padre era un dissacratore dei riti familiari, un po’ come Monicelli?
«L’unico che sopportava era il Natale perché era la festa del suo compleanno, ci teneva e gli piaceva perché era il momento in cui ci rivedevamo tutti quanti e dava il meglio di sé. Te ne racconto una: suo cugino Giulio aveva sposato la sorella di papà Mirella, che poi era morta e lui si era risposato con una signora un po’ grassottella. Una volta, quando entrarono in casa di mia madre, Dino disse: “Giulio è venuto con la barca!”».
Terribile! A scuola veniva a parlare con i professori?
«Mai. Una volta è venuto a vedere una partita di calcio scolastica e alla fine mi ha detto: “Però, batti bene i falli laterali”».
Era dura con un padre così!
«No, io mi sono molto divertito, per fortuna. Quando leggo la lettera di Kafka al padre, cerco sempre di mettermi anche un po’ nel ruolo del padre perché forse anche grazie alle critiche che lui gli rivolgeva Kafka è diventato lo scrittore che conosciamo».
Oltre a Mery per sempre ricorda altri apprezzamenti di suo padre?
«Gli ho fatto leggere malauguratamente la sceneggiatura de L’ultimo capodanno, che avevo scritto con Niccolò Ammaniti, e lui mi ha detto: “Se fossi al posto tuo, farei di tutto per non farlo questo film”. Forse aveva ragione perché il film poi è stato un disastro. Ho provato a replicare: “Guarda, papà, che questo film fa ridere”. E lui: “Se riesci a far ridere con questo film, allora vuol dire che sei veramente bravo”».
Ed è riuscito a far ridere?
«Aspetta, poi c’è stata l’anteprima al Cinema Europa. Mio padre era seduto accanto a Giuliano Montaldo e io lo guardavo da tre file dietro, vedevo la sua testa bianca e non capivo perché rimanesse sempre fermo. Poi Montaldo mi ha detto che dal collo in su era immobile, sotto era teso. Alla fine della proiezione, sono andato verso papà e ho visto gli occhi che gli brillavano. Per la prima volta mi ha abbracciato e mi ha detto: “Avevi ragione tu”. Era di una generazione che non amava le smancerie. Quell’abbraccio è valso più del disastro del film».
A distanza di molti anni, si è spiegato l’insuccesso de L’ultimo capodanno, diventato nel tempo un film di culto?
«Forse perché passava un’immagine più cupa di quello che era la realtà. Ecco, se fosse stato un film belga o americano sarebbe stato magari un grande successo, ma il pubblico non si è fidato del film italiano. Poi sai cos’è? In Italia siamo abituati a dare delle etichette, per cui io, a un certo punto, ero diventato il regista impegnato».
Il regista de Il muro di gomma, sul caso Ustica…
«Forse avrei fatto bene a continuare su quella scia, ma a me divertiva fare cose diverse. Avrei voluto esordire con Colpo di fulmine, che poi è diventato il mio terzo film. Avevo scritto il soggetto con Massimo Franciosa e poi la sceneggiatura l’avevo scritta da solo, perché era una storia che mi riguardava. Era un film carino che ricordo con piacere».
Perché la riguardava?
«Qualche anno prima avevo avuto una crisi di malinconia, che mi è durata un po’ di tempo, per cui mi trovavo a mio agio soltanto con i bambini perché sentivo la sincerità e non sentivo le finzioni, i sotterfugi, le furbizie degli adulti. Avevo pensato come protagonista a Nanni Moretti o a Francesco Nuti, ma non l’hanno voluto fare. Avevo visto anche dei cantanti, come Sergio Caputo. Poi ho capito che, se volevo veramente farlo, avrei dovuto confermare Jerry Calà che aveva interpretato i miei primi due film, Vado a vivere da solo e Un ragazzo e una ragazza. Lo ha fatto bene, però non aveva il physique du rôle, occorreva un tipo nevrotico, più problematico. Il produttore Achille Manzotti ha detto a Jerry Calà: “Ma cavolo, sembri Dustin Hoffman!”. I produttori di una volta avevano la battuta pronta».





