Enrico Montesano: «È l’epoca della satira “corretta”. Ho pagato per la mia indipendenza»

Enrico Montesano ritorna a teatro dopo una lunga assenza. Ottanta voglia di stare con voi, il titolo dello spettacolo, che racchiude il senso di questa nuova avventura in giro per l’Italia, a riallacciare il filo che lo lega al pubblico da sempre.
Cosa rappresenta per lei questo ritorno in teatro?
«Abbiamo già fatto uno spettacolo a Trapani, al Cine Teatro Ariston. È andato molto bene, il teatro era pieno. Per me è stata una lunga attesa. Nel 2020 facevo uno spettacolo in un teatrino off, come si dice in America, dove sperimentavo questo mio nuovo monologo».
Ha dovuto interromperlo per la pandemia.
«Smisi di fare le recite il 19 gennaio 2020. Lo volevo riprendere, portandolo in un teatro grande, ma è stato impossibile perché i teatri sono rimasti chiusi per molto tempo. Siamo passati dall’emozione alla rimozione. Quando hanno riaperto, sovrapponendosi le nuove produzioni alle vecchie, non c’erano spazi. Tra parentesi, in quel periodo chi ha assunto una posizione indipendente, l’ha pagata. Io ho scelto una parola di libertà, come diceva il filosofo Giorgio Agamben. A me m’ha rovinato Agamben. A Petrolini ’a guera, a me Agamben! Adesso il tempo è passato e per fortuna il tempo è un grande medico».
Quindi avverte che le cose sono cambiate e che l’ostracismo che ha vissuto si sta a poco a poco allentando?
«Un po’, ma grazie al cielo il pubblico è superiore alle scaramucce, ama l’attore per quello che gli può offrire di distrazione e divertimento in quelle due ore e mi ha sempre seguito. Sono riconoscente di questo affetto e ricambio. Ecco perché ho scritto Ottanta voglia di stare con voi».
Anche perché lei è sempre stato amato, nessuno lo può negare.
«Noi abbiamo seminato bene negli anni Settanta-Ottanta e anche un po’ negli anni Novanta. Nel 2007 ho fatto È permesso, uno spettacolo non conforme per un pubblico politicamente scorretto. Già allora parlavo della cultura del piagnisteo, proprio come diceva Robert Hughes nel suo bellissimo libro. Ce l’avevo con gli inglesismi, con il politicamente corretto, era uno spettacolo coraggioso».
Sono aumentati gli inglesismi...
«La mia lotta contro gli inglesismi è una lotta contro i mulini a vento. Ormai tutto si svolge sui social network, si parla di slot, di lab, di score, ma che è? Parla come magna, te possino acciaccatte!».
Com’è cambiata la comicità nell’era del politicamente corretto?
«Adesso, intanto, si fa la satira non al potere, ma a chi critica il potere, che è un controsenso, però è comodo, si rischia zero. E poi c’è una grande autocensura. Se un marziano, come diceva Flaiano, sbarcasse a Roma, vedrebbe un Paese che guarda solo trasmissioni canore o giochi. L’Italia è il Paese che ha più cantanti per chilometro quadrato, cantano tutti, non solo i professionisti, ai quali faccio tanto di cappello, ma qui cantano zia, madre, padre, fratello, sorella!».
Un altro format sono le interviste…
«Ormai sulle reti generaliste non fanno che intervistarsi addosso, sempre con l’occhio rivolto al passato, «allora le faccio vedere…». Ormai è una replica diffusa di quell’idea geniale che fu Ieri e oggi, che fece Leone Mancini all’epoca del Secondo canale Rai».
Non le propongono interviste televisive?
«Sono stato a Ciao Maschio ultimamente, mi sono anche divertito perché abbiamo contrabbandato un po’ di spettacolo di varietà. È un programma un po’ diverso perché ci sono tre uomini e, se si crea un minimo di empatia, esce fuori una conversazione piacevole, quindi sfugge all’intervista fissa. Ci sono interviste interessanti in tv, come quelle che fa Peter Gomez, dipende anche dall’intervistatore».
Ormai la star è chi intervista, non più l’intervistato.
«Certo, è un mondo alla rovescia».
Invece negli anni Settanta, quando lei era un comico d’avanguardia, la situazione era diversa.
«Io ho preso un premio internazionale della comicità al Festival della Rosa d’oro di Montreux con Quantunque io, trasmissione anomala perché non c’era orchestra, non c’era balletto, prevedeva una serie di trovate comiche e di gag. In ogni puntata avevo una soubrette famosa, da Nadia Cassini a Gloria Guida, Sydne Rome a Janet Agren. Il dirigente di Rai 2 dell’epoca, mi pare che fosse Mario Carpitella, mi fece vedere delle videocassette: “Enrico, andiamo su questa direzione: Monty Python, Dave Allen, Marty Feldman…”, comici anglosassoni che pochi conoscevano».
L’ultimo suo programma risale a 20 anni fa…
«Trash (Non si butta via niente) nel 2004, l’ultima cosa che fece Gabriella Ferri prima della sua morte. All’epoca c’erano in Rai dirigenti capaci che andavano nei teatri, si informavano, a cui devo molto perché hanno fatto scelte coraggiose. Oggi c’è un po’ di timore: “Rifaccio per la ventesima volta la stessa trasmissione, male che vada faccio lo stesso ascolto”».
Cosa le piacerebbe fare, se trovasse un dirigente come quelli di una volta?
«Un varietà».
Invece il cinema, dove non la vediamo da qualche anno?
«Che cos’è il cinema? Le piattaforme hanno reso obsoleta la sala cinematografica».
Anche il livello dei film italiani è molto sceso…
«Purtroppo è molto autoreferenziale».
Lei ha avuto l’opportunità di lavorare con grandi registi…
«Sono felice perché ho partecipato a un bel periodo: Sergio Corbucci, Mario Monicelli, Giorgio Capitani, Pasquale Festa Campanile, Steno, i maestri della commedia italiana. Come diceva Dino Risi, con cui non sono riuscito a lavorare, perché commedia all’italiana? Sembra un dispregiativo. Commedia italiana. La gente ancora le ricorda queste commedie così semplici, se volete, mentre i critici cinematografici ci massacravano».
Erano snob, se ridevano, non lo ammettevano…
«Tranne Tullio Kezich, che su La Repubblica fece una critica per Aragosta a colazione che conservo e ogni tanto, quando sono giù morale, me la leggo perché per una sequenza del film mi paragona a Buster Keaton».
Nei suoi primi successi, come Io non scappo… fuggo e Io non spezzo… rompo, faceva coppia con il grande Alighiero Noschese.
«Era una coppia curiosa che però ha aperto la strada ad altre coppie… Noi eravamo i Bud Spencer e Terence Hill della commedia!».
Si trovava bene con lui?
«Sì, perché Alighiero era come un papà. Una persona buona, generosa. Nel mio spettacolo Ottanta voglia di stare con voi mostro una bella foto con Alighiero perché ripercorro la mia vita, che poi coincide con la mia carriera, e quindi ogni tanto scorrono delle foto. Così racconto la mia educazione religiosa, sentimentale, professionale, civica… e lì cominciano i guai! Si riaffaccia timidamente nel mio spettacolo un minimo di satira di costume e politica. Se io riguardo a quella che è stata la mia vita di cittadino, ho avuto il massimo del successo quando l’Italia era la quarta potenza industriale del mondo. Ormai ci siamo assuefatti ad essere una piccola provincia dell’impero, neanche la più importante».
Anche in campo culturale...
«Ho compiuto per la quarta volta 20 anni, oppure per la seconda volta i 40. In questi ultimi 40 anni siamo riusciti a ritornare a quello che eravamo nell’Ottocento, come diceva Metternich, una bella espressione geografica, dove si viene a mangiare, a suonare il mandolino, a prendere il sole».
Quali sono le figure nella sua carriera a cui sente di dover qualcosa?
«Pietro Garinei è stato una grande scuola. Mi diceva: “Tu sei un attore italiano, usa pure la tua calata romana, ma devi recitare in modo che ti capiscano dalla Val d’Aosta alla Puglia”. Ad Antonello Falqui, Castellacci e Pingitore dobbiamo trasmissioni di varietà che facevano milioni di ascolti, come Dove sta Zazà e Mazzabubù. Enrico Vaime e Italo Terzoli sono stati altri due autori che ho avuto la fortuna di incontrare».
Non le mancano adesso queste figure nella scrittura degli spettacoli?
«Sì, mi mancano perché a un certo punto quel gruppo di registi, autori e produttori si è esaurito. Uno si guarda attorno e dice: «Mannaggia, non c’è più nessuno, sono rimasto solo». Negli ultimi tre o quattro anni sono stato a guardare quello che succedeva e siccome non è che mi piacesse tanto, sono stato zitto».
Lo spettacolo arriverà nella sua Roma?
«Hanno pubblicato dieci-undici date e tutti mi dicono: “Non vieni in Veneto, non vieni a Genova, non vieni a Firenze?”. E io rispondo: aspettate perché i nostri produttori comunicano di volta per volta». Oggi fanno così, si danno le notizie a puntate!».
Strategie di marketing, altro inglesismo...
«Con Bravo sono stato a Milano un mese, 100.000 spettatori. Mi dettero L’Ambrogino d’oro, al quale tengo moltissimo. Adesso ti dicono: “Facciamo solo un giorno, poi se va bene, ci ritorniamo”. La mia generazione è quella che ha vissuto più cambiamenti di tutte. Questo lo racconto nello spettacolo. Sono nato che c’era il telefono duplex attaccato alla parete, adesso con mio figlio, che vive a Parigi, ci videochiamiamo. Se l’avesse saputo mio nonno, mi avrebbe detto: “Tu sei matto, stai a di’ una cosa folle. Ma che è un romanzo di Verne?!”».
Già fu un cambiamento epocale l’avvento delle tv private.
«Grazie alle tv private è nato il fenomeno di Febbre da cavallo, che per problemi di distribuzione non era andato benissimo nelle sale. Evidentemente glielo vendevano a basso costo, lo prendevano per tre passaggi e facevano un sacco d’ascolto. Le tv locali di tutta Italia hanno trasmesso Febbre da cavallo a spron battuto, anzi al galoppo!».
Una buona distribuzione era fondamentale...
«Ho diretto un solo film, A me mi piace, per il quale mi hanno dato il David di Donatello e il Nastro d’argento come miglior regista esordiente. Il film andava bene, faceva 30 milioni di lire in una sala cinematografica, per esempio il Maestoso su via Appia, a Roma, ma mi smontarono perché l’esercente aveva un contratto con le major americane e c’era Rocky di Stallone. Come fa una distribuzione italiana a reggere con Rocky? Non ne ho diretti più perché il cinema a volte è frustrante. Meglio il teatro, dove ogni sera consumiamo un rito antichissimo».






