2025-10-11
Marco Risi: «Da piccolo il cinema mi spaventò. Papà Dino sul set era una belva»
Marco Risi (Getty Images)
Il regista figlio d’arte: «Il babbo restò perplesso dal mio primo film, poi grazie a “Mery per sempre” iniziò a prendermi sul serio. Mi considerano quello “impegnato”, però a me piaceva anche girare commedie».Marco Risi, una vita nel cinema, sulla scia di suo padre, il maestro della commedia all’italiana Dino, e di suo zio, il poeta e regista Nelo. I Risi, una delle grandi famiglie del cinema italiano, sempre un po’ defilati, malinconici nella vita privata, sempre pronti alla battuta e allo scherzo nella vita pubblica.Cosa rappresentava il mondo del cinema durante la sua infanzia?«Era il mondo alternativo al mio mondo normale, alla casa, agli amici, alla scuola. Il mondo del cinematografo, come diceva Mastroianni».Quando ha avuto la percezione di questo strano mondo parallelo? «Quando andai al cinema per la prima volta, anzi la prima volta in cui non andai, perché non volli entrare a vedere Marcellino pane e vino». Perché?«Avevo paura! Vidi il manifesto e mi sembrava una cosa agghiacciante, con quel Cristo che incuteva timore e il bambino spaventato che piangeva. Arrivati davanti al cinema con mia madre e mio fratello imbufalito, tornammo a casa perché mi rifiutavo di entrare. Avevo cinque anni o giù di lì».Quindi il suo primo ricordo cinematografico è un rifiuto!«Poi mi sono appassionato. Verso i dieci anni ho cominciato a frequentare il cinema Euclide, una sala parrocchiale di Roma, e dal mercoledì alla domenica, quasi tutti i giorni, vedevo film di ogni tipo, spesso anche da solo».E sua madre? «La divertiva che questo ragazzino andasse da solo al cinema, che all’epoca era un posto sicuro… meno per gli altri spettatori! Tante volte con amici facevamo degli scherzi, come degli enormi starnuti di gruppo. Una volta ho portato una fionda con la plastilina verde per colpire lo schermo. Alla fine del primo tempo sono scappato perché ho visto che lo schermo era pieno di macchie verdi». Quando ha scoperto che suo padre era un regista? «A scuola perché mi chiedevano: “Che mestiere fa tuo padre?”. “Il regista”. “E cosa fa il regista?” e io non lo sapevo. Allora ho imparato a rispondere che il regista dice agli attori quello che devono fare».Anche suo zio Nelo Risi faceva il regista…«Nelo però era più considerato, almeno da mio padre, un poeta. Ho cominciato con lui, non con mio padre. Ho fatto l’assistente volontario in Una stagione all’inferno, su Rimbaud, con protagonista Terence Stamp che, poverino, se ne è andato anche lui quest’estate. Poi fatto La colonna infame come assistente, stavolta pagato, a Cinecittà. Mentre giravamo, vedevo nascere accanto a noi, in esterni, il viale di Rimini di Amarcord. Ogni tanto uscivo e vedevo Fellini che camminava con delle belle donne, come Minnie Minoprio, perché stava cercando l’attrice per il personaggio della Gradisca». Perché aveva chiesto a Nelo di fare l’assistente e non a suo padre? La intimoriva la figura paterna? «Non credo di averlo chiesto io, è stato Nelo che me l’ha proposto, però mi trovavo più a mio agio con lui, che era più tranquillo. Mio padre poteva diventare una belva furibonda sul set. Quando ho fatto con lui l’aiuto regista per una settimana durante le riprese di Profumo di donna, c’è stato un episodio abbastanza spiacevole. Si è molto arrabbiato con una ragazza che doveva ridere e ballare sulla terrazza, mentre Vittorio Gassman giocava a mosca cieca con un altro cieco. Secondo mio padre lei non era all’altezza e ha cominciato a dirle delle cose molto pesanti. Allora io a un certo punto, rischiando, sono intervenuto e ho detto: “Papà, adesso basta”».Cosa è successo sul set?«Ho visto a dieci metri di distanza Gassman, seduto a un tavolo, intento a scrivere per il teatro, che ha alzato lo sguardo come per dire: “Cosa sta succedendo? Strano che un ragazzino si permetta di parlare così a Dino…”, però mio padre non ha detto niente. Del resto, sono sempre andato molto d’accordo con lui, c’era una grande intesa. Mi aveva fatto leggere la sceneggiatura del film: avevo inserito cinque-sei gag e lui me ne aveva prese tre».Perché ha fatto solo per una settimana l’aiuto di suo padre?«Perché l’aiuto era mio fratello Claudio, che quella settimana aveva dei problemi con il servizio militare, allora papà ha detto: “Vieni tu” e sono andato con lui a Napoli». Sia lei che suo fratello aveva fatto i registi. Suo padre vi ha incentivato oppure no? «Non ci ha mai né incoraggiato, né dissuaso. Ha pensato che potesse essere una cosa abbastanza naturale, ma non ci ha mai detto: “Che fate, non vi conviene, non dovete…”. Da questo punto di vista è stato generoso, però è stato il più critico di tutti». Per esempio? «Quando ha visto il mio primo film, Vado a vivere da solo, ha commentato: “Sei un professionista”, che non era un complimento. Voleva dire: “Vabbè, hai fatto il compito, ma il cinema è un’altra cosa”. Il rapporto è cambiato quando ha visto Mery per sempre: ecco lì ha cominciato ad avere una certa considerazione».È strano che suo padre fosse così snob nei confronti delle commedie anni Ottanta…«Proprio perché era terreno suo, sapeva come andavano fatte e sentiva che lì c’era un po’ troppa leggerezza. Mi ricordo che gli ho fatto vedere in anteprima Soldati - 365 all’alba perché c’era una versione televisiva più lunga di un’ora per le reti Mediaset. Gli ho chiesto dove tagliare per la versione cinematografica e lui in un attimo mi ha risposto: “Da qui a qui”». I registi di quella generazione avevano il montaggio in testa...«Non mi ha detto: “Taglia un pochino qua, un pochino là, un pochino su..”. Ha individuato l’episodio del nonnismo e mi ha detto che si poteva tranquillamente tagliare senza fare un soldo di danno. Ho fatto così e il film funzionava» Mentre Nelo andava a vedere i tuoi film? «Sì, sempre. Quando ha visto Fortapàsc con sua moglie Edith Bruck, ha detto una cosa che mi ha divertito: “Ma tu non sei il figlio di Dino Risi, sei il figlio di Francesco Rosi!”». Suo padre a un certo punto si era trasferito in un famoso residence…«Doveva stare via una settimana e invece c’è rimasto trent’anni. Io già vivevo fuori casa, eravamo grandicelli. Papà andava a trovare mamma e festeggiavamo sempre il Natale con tutti i parenti il 23 dicembre perché era il giorno del suo compleanno». Suo padre era un dissacratore dei riti familiari, un po’ come Monicelli?«L’unico che sopportava era il Natale perché era la festa del suo compleanno, ci teneva e gli piaceva perché era il momento in cui ci rivedevamo tutti quanti e dava il meglio di sé. Te ne racconto una: suo cugino Giulio aveva sposato la sorella di papà Mirella, che poi era morta e lui si era risposato con una signora un po’ grassottella. Una volta, quando entrarono in casa di mia madre, Dino disse: “Giulio è venuto con la barca!”».Terribile! A scuola veniva a parlare con i professori? «Mai. Una volta è venuto a vedere una partita di calcio scolastica e alla fine mi ha detto: “Però, batti bene i falli laterali”». Era dura con un padre così! «No, io mi sono molto divertito, per fortuna. Quando leggo la lettera di Kafka al padre, cerco sempre di mettermi anche un po’ nel ruolo del padre perché forse anche grazie alle critiche che lui gli rivolgeva Kafka è diventato lo scrittore che conosciamo».Oltre a Mery per sempre ricorda altri apprezzamenti di suo padre?«Gli ho fatto leggere malauguratamente la sceneggiatura de L’ultimo capodanno, che avevo scritto con Niccolò Ammaniti, e lui mi ha detto: “Se fossi al posto tuo, farei di tutto per non farlo questo film”. Forse aveva ragione perché il film poi è stato un disastro. Ho provato a replicare: “Guarda, papà, che questo film fa ridere”. E lui: “Se riesci a far ridere con questo film, allora vuol dire che sei veramente bravo”». Ed è riuscito a far ridere? «Aspetta, poi c’è stata l’anteprima al Cinema Europa. Mio padre era seduto accanto a Giuliano Montaldo e io lo guardavo da tre file dietro, vedevo la sua testa bianca e non capivo perché rimanesse sempre fermo. Poi Montaldo mi ha detto che dal collo in su era immobile, sotto era teso. Alla fine della proiezione, sono andato verso papà e ho visto gli occhi che gli brillavano. Per la prima volta mi ha abbracciato e mi ha detto: “Avevi ragione tu”. Era di una generazione che non amava le smancerie. Quell’abbraccio è valso più del disastro del film». A distanza di molti anni, si è spiegato l’insuccesso de L’ultimo capodanno, diventato nel tempo un film di culto?«Forse perché passava un’immagine più cupa di quello che era la realtà. Ecco, se fosse stato un film belga o americano sarebbe stato magari un grande successo, ma il pubblico non si è fidato del film italiano. Poi sai cos’è? In Italia siamo abituati a dare delle etichette, per cui io, a un certo punto, ero diventato il regista impegnato».Il regista de Il muro di gomma, sul caso Ustica…«Forse avrei fatto bene a continuare su quella scia, ma a me divertiva fare cose diverse. Avrei voluto esordire con Colpo di fulmine, che poi è diventato il mio terzo film. Avevo scritto il soggetto con Massimo Franciosa e poi la sceneggiatura l’avevo scritta da solo, perché era una storia che mi riguardava. Era un film carino che ricordo con piacere». Perché la riguardava? «Qualche anno prima avevo avuto una crisi di malinconia, che mi è durata un po’ di tempo, per cui mi trovavo a mio agio soltanto con i bambini perché sentivo la sincerità e non sentivo le finzioni, i sotterfugi, le furbizie degli adulti. Avevo pensato come protagonista a Nanni Moretti o a Francesco Nuti, ma non l’hanno voluto fare. Avevo visto anche dei cantanti, come Sergio Caputo. Poi ho capito che, se volevo veramente farlo, avrei dovuto confermare Jerry Calà che aveva interpretato i miei primi due film, Vado a vivere da solo e Un ragazzo e una ragazza. Lo ha fatto bene, però non aveva il physique du rôle, occorreva un tipo nevrotico, più problematico. Il produttore Achille Manzotti ha detto a Jerry Calà: “Ma cavolo, sembri Dustin Hoffman!”. I produttori di una volta avevano la battuta pronta».
Nel riquadro, la stilista Giuliana Cella
Eugenia Roccella (Imagoeconomica)
Mario Venditti. Nel riquadro da sinistra: Oreste Liporace e Maurizio Pappalardo (Ansa)