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Giudici (Ansa)
Dopo quella che ha punito il gioielliere Mario Roggero, un’altra sentenza sconcertante a Perugia: negata l’aggravante della rapina per un furto violento di un cellulare. Per le toghe «la colluttazione non ci sarebbe stata se la vittima non avesse reagito».
Siete convinti che la legge tuteli le persone oneste? Beh, vi sbagliate, perché la legge sta dalla parte di ladri e rapinatori, per lo meno se si dà retta a certe sentenze. A Perugia, infatti, la Corte d’appello non ha riconosciuto le aggravanti a carico di un uomo che aveva cercato di sottrarre uno smartphone a una donna, strappandoglielo dalle mani mentre questa era all’interno della sua vettura. Nonostante la colluttazione nata tra il malvivente - che voleva appropriarsi del cellulare - e la vittima, per i giudici non si può parlare di rapina, ma soltanto di furto aggravato e dunque il delinquente è stato condannato alla pena minima di due anni e non a quella dai cinque in su prevista nel caso in cui il tribunale avesse deciso di riqualificare l’accusa.
La faccenda potrà sembrare una sottigliezza da azzeccagarbugli abituati a interpretare codice e norme. Invece si tratta di una questione dirimente, perché sottende un concetto, ovvero che se la donna vittima del tentativo di rubarle il telefono non si fosse opposta, tutto si sarebbe concluso con un semplice furto. Invece la poveretta, mentre era nella sua macchina, ha tentato di reagire, cercando di fermare il fuorilegge, con la conseguente colluttazione. Insomma, colpa della vittima se un banale furto, per quanto aggravato, abbia fatto pensare a una rapina. Se la signora non avesse fatto resistenza le cose sarebbero andate via lisce, cioè con il telefonino nella tasca del farabutto.
A voler seguire il ragionamento dei giudici, l’uomo si è trovato nelle condizioni di dover reagire di fronte a una tizia che non voleva mollare l’osso, pardon, il telefono. Che diamine! Non si fa! Se un ladro cerca di derubarti non ci si deve opporre: si consegna il portafogli senza fiatare, così la posizione del bandito non si aggrava. E se invece qualcuno proprio non ce la fa a non opporsi alla rapina, beh bisogna considerare tra le attenuanti che il ladro è stato indotto a usare la forza da chi non intendeva cedere il maltolto. Insomma, non è colpa sua se poi c’è scappata una colluttazione: fosse stata ferma la vittima, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, cioè con il ladro in fuga insieme con il telefonino.
Siete stupiti? Sbagliate. Del resto, non è la stessa filosofia che ha portato alla condanna di un orefice a cui hanno legato la figlia e minacciato la moglie con una pistola? Lo sciagurato ha avuto l’ardire di reagire, perdendo la testa e inseguendo i rapinatori per poi scaricare loro addosso l’arma che teneva nel cassetto del negozio dopo una serie di assalti dei malviventi. I giudici gli hanno appioppato l’omicidio volontario, condannandolo a quasi 15 anni di carcere. In vita sua l’uomo non aveva mai fatto male a una mosca e la sola colpa che gli si poteva attribuire era di essersi sempre fatto gli affari suoi, lavorando come un ciuco. Ma poi, invece di alzare le mani di fronte ai rapinatori che gli puntavano la pistola, al posto di dire ai malviventi: prego, accomodatevi, prendete pure ciò che desiderate, Mario Roggero li ha inseguiti e ha sparato.
Errore, errore grave, anzi gravissimo, che oltre alla pena detentiva gli è già costato quasi 1 milione tra spese legali e risarcimenti, perché i famigliari dei rapinatori ovviamente vanno indennizzati per la perdita dei loro cari. Ai famigliari delle vittime dei malviventi, se ci scappa il morto, vanno poche migliaia di euro, anche perché chi le ha colpite di regola non ha un soldo alla luce del sole. A quelli dei delinquenti invece bisogna concederne centinaia di migliaia.
Se non fosse ormai diventata una frase banale, dopo che il generale Roberto Vannacci ci ha scritto un libro, diremmo che è il mondo al contrario. Dunque, per non scadere nel già detto, diremo che la nostra sta lentamente diventando la Repubblica dei ladri. E, purtroppo, dei giudici.
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Matteo Renzi (Ansa)
L’ex premier, alla disperata ricerca di visibilità, accusa i meloniani di pensare al film «Buen Camino» anziché al taglio delle tasse. Piccolo dettaglio: nessun esponente di Fdi ha parlato della pellicola. L’unico a farlo è stato Renzemolino, e ci fa scompisciare...
Dura vita quella del Renzemolino, prezzemolino al sapor di Matteo Renzi. Voi mettetevi nei panni del leader di Italia (quasi) viva: è il 29 dicembre e tocca anche oggi trovare un modo per finire sui giornali. Che fare? Nonna Maria che compie 106 anni ce la siamo già giocata per Natale, il dibattito sulla manovra langue, le polemiche sul ceto medio non si confanno al post panettone, figuriamoci quelle sul campo largo o larghetto. E dunque? Nei giorni scorsi Renzemolino ha provato a lanciare una nuova parola d’ordine contro Giorgialand, ma la trovata (assai lessa) non ha fatto presa. Un po’ meglio la battuta sul dibattito in Senato «durato meno del concerto di Baglioni». Ma ci vuol altro per guadagnarsi un titolo mentre l’Italia prepara i botti di Capodanno. E così ecco il colpo di genio: aggrapparsi all’uomo dei miracoli, al comico che muove le folle, al re del botteghino e della visibilità. Aggrapparsi a Checco Zalone. Alle 10.55 di lunedì 29 dicembre arriva il post. E così, anche per oggi, Renzemolino è salvo.
Ora, però, che cosa dire di Checco Zalone? Lodarlo? Criticarlo? Il rischio della banalità incombe, e poi, si sa, bisogna fare polemica per fare discutere. Così quel genio del Renzemolino ne escogita una delle sue: non interviene direttamente sul film di Checco Zalone, ma se la prende con «il tentativo della destra meloniana di intestarsi Checco Zalone scagliandolo contro l’opposizione». Un tentativo che viene definito «IMBARAZZANTE» (in maiuscolo nel post). Con aggiunta al veleno: «Ma dico almeno a Natale si può andare al cinema senza che persino i film diventino ossessioni per Fratelli d’Italia? Ma dai: occupatevi delle tasse e della legge di bilancio. E giù le mani almeno da Checco Zalone». E in effetti, come dargli torto: giù le mani almeno da Checco Zalone. Non fosse che l’unico ad aver messo le mani su Checco Zalone in queste ore è, per l’appunto, il medesimo Renzemolino.
Non esiste in rete, infatti, una sola dichiarazione di esponenti di Fratelli d’Italia sul film. Nessuno ha parlato. Non la premier, non la sorella, non i capigruppo, non un deputato, non un senatore, non un nome di prima linea, nemmeno di seconda, di terza e nemmeno di quarta linea, nemmeno un consigliere regionale e nemmeno un consigliere comunale, a dirla tutta. Non c’è praticamente nessuno che abbia messo le mani su Checco Zalone (salvo rare e insignificanti eccezioni), oltre a Renzi medesimo che per altro non risulta rappresentare la destra meloniana. L’unica dichiarazione che si riscontra è un breve video di Italo Bocchino in cui il direttore del Secolo d’Italia dice che il film di Zalone manda in crisi la sinistra. Un video del 27 dicembre, per altro, passato piuttosto inosservato (482 mi piace, 328 commenti). Ma poi, anche fosse, si può forse identificare tutta «la destra meloniana» con un modesto video di Italo Bocchino? E che senso ha invitare Italo Bocchino a tagliare le tasse, dal momento che egli non siede al governo e neppure in Parlamento?
È evidente che Italo Bocchino non c’entra. Quel video neppure. Qui siamo di fronte a un puro colpo di genio. O, meglio, di invenzione. Ancora una volta, infatti, la fantasia dell’ex premier supera la realtà: pur di attaccarsi al fenomeno Zalone per godere un po’ della sua visibilità riflessa, Renzemolino s’inventa la cattiva destra meloniana che mette le mani sul film (ma come osa? Ma come si permette?), anziché occuparsi dei problemi degli italiani (perché non parlate di tasse?). Con il risultato, per l’appunto, che l’unico a mettere davvero le mani sul film, anziché parlare di tasse, è colui che accusa gli altri di farlo. Non è fantastico? Chi ha visto Buen Camino sa che, alla faccia dei giornaloni e dei loro critici, Checco Zalone fa sempre ridere molto. Ma Renzemolino di più.
Anche perché basta andare un po’ a ritroso nel tempo per capire che cosa faceva lui quand’era premier. Anno 2016, ricordate? Uscì Quo Vado? e lui, a differenza di Giorgia Meloni, il fenomeno Zalone lo cavalcò eccome. Lanciò addirittura una campagna per sostenere il suo jobs act, contro i fanatici del «posto fisso», dicendo che bisognava uscire dalla «filosofia checcozeloniana» e irridendo i suoi critici («Ora l’hanno capito anche i radical chic»). Lo stesso Zalone parlò di telefonate e sms con cui Renzi lo ha inseguito per mesi. Eppure nessuno allora lo accusò («ma dico, Renzi, almeno a Natale si può andare al cinema senza che persino i film diventino un’ossessione per te? IMBARAZZANTE Ma dai, occupati delle tasse e della legge di bilancio. E giù le mani da Checco Zalone»). Anche se, a differenza di oggi, ci sarebbe stato ben ragione di farlo…
Che ci volete fare? Ci vuole faccia tosta per fare il Renzemolino. Ma alla fine, vedete, ancora una volta ha vinto lui. Lui che con un partito al 2% riesce a stare sempre in tv, lui che ha ottenuto nel 2025 73 interviste (dato del Fatto quotidiano), una ogni cinque giorni, più di chiunque altro (eccezion fatta per il ministro Tajani), lui che scrive libri a manetta, che compare in ogni talk, che spara sentenze dal pulpito dei suoi fallimenti, lui che fatica ormai a raccogliere i voti dei parenti ma si ritiene un fenomeno, lui che si doveva ritirare dalla politica ma continua a imperversare nelle nostre vite, ebbene lui, il re dei ballisti ha vinto anche stavolta. Perché ha sparato una minchiata senza senso su destra meloniana e Checco Zalone, sapendo benissimo che non stava né in cielo né in terra, ma che avrebbe attirato un po’ di attenzione su di lui. E ha ottenuto il suo scopo. Infatti ci è toccato scrivere quest’articolo.
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La decisione sul caso Toscana: no al ruolo del sistema sanitario, sì al «federalismo».
La Consulta frena la corsa della Toscana verso la liberalizzazione del suicidio assistito. Ieri, la Corte ha stabilito che la legge non è illegittima nella sua interezza, ma in diverse disposizioni viola competenze statali esclusive. E benché i rilievi non riguardino il merito - il collegio, che d’altronde aveva già indicato i principi generali in base ai quali bisognerebbe permettere l’accesso alla procedura, non si oppone certo al suicidio assistito in sé - essi, tuttavia, colpiscono alcuni aspetti essenziali della legge. Si tratta di dettagli con cui Eugenio Giani sperava di mettere il turbo all’agenda radicale e progressista sul fine vita. Un obiettivo che si allontana, anche se il governatore a caldo esulta.
Intanto, i giudici hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 2 della norma toscana, giacché individua direttamente i requisiti per ottenere il suicidio assistito, facendo riferimento alle due precedenti sentenze della Consulta: quella del 2019 sul caso di dj Fabo e quella del 2024, che introduceva alcune precisazioni sul concetto di «trattamento di sostegno vitale». Alle Regioni, ha obiettato il collegio, è «precluso cristallizzare […] principi ordinamentali affermati da questa Corte in un determinato momento storico […] e oltretutto nella dichiarata attesa di un intervento del legislatore statale». Quei verdetti, insomma, non possono essere utilizzati dai governatori come un grimaldello contro il Parlamento. La Toscana ha violato «la competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile e penale».
Dell’articolo 4 è stata cassata solo la parte che prevede la possibilità di affidare a un «delegato» del malato il compito di presentare l’istanza: ciò, si legge nella sentenza, «deroga vistosamente al quadro normativo fissato dalla legge n. 219 del 2017», la quale «presuppone inequivocabilmente che la volontà di interrompere le cure (ovvero, in seguito alla sentenza n. 242 del 2019, di accedere al suicidio assistito) sia espressa personalmente». Sembra una minuzia, ma in effetti è stata blindata una garanzia ulteriore rispetto ai procedimenti più sbrigativi.
Incostituzionali anche gli articoli 5 e 6: entrambi prevedono, spiega il comunicato della Corte, «stringenti tempi per la verifica dei requisiti di accesso al suicidio medicalmente assistito e la definizione delle relative modalità di attuazione». Anche questo non è un particolare marginale: Marco Cappato e soci sono da anni impegnati in una campagna per il suicidio assistito «express». E continuano a lamentare la lentezza delle aziende sanitarie locali nell’esaminare i faldoni dei pazienti. La Corte ha obiettato che, ferma restando «la necessità di una sollecita presa in carico dell’istanza del richiedente», deve sempre essere consentita «la possibilità di svolgere tutti quegli approfondimenti clinici e diagnostici» che gli esperti ritengano «appropriati». Una valutazione scrupolosa mal si concilia con la fretta degli attivisti.
Dirimente pure la bocciatura dell’articolo 7, che impegna le Asl ad assicurare il supporto tecnico e farmacologico e l’assistenza sanitaria, in vista dell’autosomministrazione della dose letale. La Consulta, di nuovo, non si è espressa sulla liceità di coinvolgere il Servizio sanitario, terreno di scontro sulla proposta di legge che discuteranno le Camere. Ha però evidenziato l’illegittimità, per la Regione, di introdurre «un livello di assistenza sanitaria ulteriore». Fatto sta che proprio il tribunale di Firenze, in un’ordinanza poi ritenuta inammissibile, aveva sollevato il problema dell’obbligo, in capo alle aziende sanitarie, di reperire dispositivi azionabili con la voce o lo sguardo, qualora il malato fosse stato privo dell’uso degli arti per praticare l’iniezione fatale. Allora, la Consulta si era limitata a respingere le argomentazioni del magistrato, in quanto non adeguatamente motivate. Ma aveva sottolineato che, se quei macchinari fossero stati davvero reperibili in breve tempo, la persona che aveva invocato il suicidio assistito avrebbe avuto «diritto ad avvalersene». La questione, quindi, rimane aperta. E non sarà risolta dalla legge toscana, benché risultino «immuni da censure» le altre disposizioni della norma «federalista», che avrebbero mero carattere organizzativo e procedurale. Match quasi pari. Assist a chi caldeggia la legge nazionale.
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A qualcuno non piace l’odore della cottura. Ma è dovuto allo zolfo, che è un vero elisir di giovinezza: rafforza le articolazioni e rende belli capelli, pelle e unghie.
Per molti freddolosi, la stagione del quale il solstizio è stato il 21 dicembre appena passato, ovvero l’inverno, è una stagione del cavolo nel senso di stagione antipatica. Per noi, che siamo freddolosi, ma accettiamo la «legge» del ciclo delle stagioni, l’inverno è invece una bella stagione, fredda, certo, ma tra camini, stufe, termosifoni, inverter e impianti a pavimento, be’ ci sono mille modi per scaldarsi, e casomai per noi l’inverno non è una stagione del cacchio poiché fredda, ma la stagione «dei» cavoli, che sono tanto buoni e fanno bene. E sono pure tanti. Uno di essi è il cavolo verza, molto radicato nella nostra nazione, in passato più al nord, ora ovunque. Anche chiamato semplicemente verza, il cavolo verza è una pianta orticola biennale della famiglia delle Brassicacee. Biennale vuol dire che si tratta di una pianta il cui ciclo biologico di vita dura due anni.
Il nome botanico del nostro cavolo verza è Brassica oleracea varietà sabauda. Potrete trovarlo indicato anche come Brassica oleracea var. capitata f. sabauda, poiché il genere Brassica specie oleracea si suddivide in otto gruppi di cultivar e quello del nostro è il gruppo capitata, cioè a forma di palla, di testa. La caratteristica che lo differenzia dagli altri cavoli a forma di palla, come il cavolo cappuccio o il cavolo cappuccio bianco, è che le sue foglie, che chinate una sull’altra costituiscono la tipica forma a palla di tutti questi cavoli, sono molto spesse, sono belle rugose e sono piene di nervature. E la forma finale è un po’ più aperta di quella del cavolo cappuccio. La nostra bella verza si chiama così perché molto diffusa in terra sabauda, quindi nel nord Italia, infatti anche i suoi altri nomi dialettali con cui è conosciuta anche nel resto d’Italia danno conto di questa localizzazione settentrionale: verzotto, cavolo sabaudo, cavolo di Savoia, cavolo lombardo, cavolo di Milano. E infatti le ricette tipiche lo vedono trionfare proprio al nord. Le foglie di verza sono la materia prima per un grande classico che si prepara all’ombra della Madunìna, gli involtini di verza milanesi. Il nostro si può mangiare anche crudo, a listarelle, sebbene in questo caso occorra avere dei denti buoni perché le foglie sono coriacee e perciò, alla fine, si preparano per lo più cotte. Fa eccezione quello che potremmo definire crudo fino a un certo punto della bella ricetta coreana kimchi, listarelle di foglie di cavolo verza fermentate e piccanti: una squisitezza che aiuta anche il microbiota, non mangiando poi noi italiani, a ben vedere, così tanti cibi fermentati. Il cavolo verza è tipicamente autunnale e invernale, si raccoglie infatti in questi mesi, ma ci sono anche varietà precoci che arrivano sulle nostre tavole prima. La tipica raccolta invernale di questo e di altri cavoli dipende dal fatto che il cavolo resiste bene al freddo e, addirittura, la gelata ne migliora il gusto. Il fatto che i cavoli in generale e il nostro cavolo verza in particolare siano ortaggi tipicamente invernali per la loro resistenza al freddo ne ha poi fatto una verdura «di resistenza» anche da altri punti di vista: nei secoli, i cavoli sono stati un importante fonte di nutrizione popolare, non diciamo unica, ma quasi... La parte più povera della popolazione poteva non mangiare pesce, né carne, se non quanto derivava dall’uccisione invernale del maiale, uno per tutta una famiglia, le cui preparazioni dovevano durare fino all’uccisione del nuovo maiale, l’inverno successivo: si trattava di poca carne pro capite, quindi, per un anno intero, carne anche conservata, in forma di salume, proprio per non gettare via niente dell’animale. Ma sebbene non mangiasse che briciole di pesce e di carne, il popolo aveva garantiti i cavoli, che per la coriacetà delle foglie si conservano freschi a lungo. Per questo motivo il cavolo verza è impiegato in tante ricette, dai primi, ai contorni, passando per i secondi. Perché abbondava sulle tavole di chi non aveva molto altro.
Noi oggi abbiamo molto altro e ci sono molte persone che non amano i cavoli per il loro odore in cottura, leggermente azotato. Consigliamo a costoro non di tapparsi il naso, ma di attivare la cappa o aprire le finestre cucinandolo, sì, ma anche di imparare a considerarne l’odore una conseguenza di ciò che del cavolo ci fa bene mangiandolo. In 100 g di cavolo verza troviamo tra le 25 calorie circa, provenienti da 1,3 g di proteine, 0,1 g di lipidi, carboidrati 3,2 g, fibra totale 2,9 g di cui 0,35 g solubile e 2,53 g insolubile. Troviamo poi 90,7 g di acqua, ciò che fa del cavolo verza innanzitutto una verdura che ci idrata: in autunno e inverno dobbiamo bere liquidi per idratarci anche se non sentiamo lo stimolo della sete come in estate, ricordiamocelo. Le proteine vegetali sono pochine, come i lipidi, sono abbastanza irrilevanti anche i carboidrati, interessante è invece il versante fibra, che spiega anche perché sovente la verza accompagna tagli di carne grassi, come le salsicce, per esempio. La fibra solubile (cioè quella solubile in acqua) aiuta a controllare l’assorbimento di grassi e zuccheri, quindi contrasta l’iperglicemia, l’insulino-resistenza e l’ipercolesterolemia. La fibra insolubile fa lo stesso lavoro di «tampone» di grassi e zuccheri, ma in più aiuta in caso di stitichezza, emorroidi, ragadi, diverticolite e, in generale, aiuta l’intestino a funzionare bene. Per evitare meteorismo e gonfiore, si possono aggiungere semi di finocchio o accompagnare con un po’ di pane. Anche dal punto di vista dei sali minerali e delle vitamine la verza dona benessere: abbiamo il potassio che, insieme con la vitamina K, protegge il cuore. Poi abbiamo il calcio che serve per lo sviluppo e la salute di ossa e denti, il fosforo che oltre a far bene a ossa e denti trasforma il cibo di cui ci nutriamo in energia e regola il PH e la vitamina C, 37 mg, un buon apporto considerato che con 250 g di verza soddisfiamo il fabbisogno quotidiano (75 mg nell’uomo e 60 mg nella donna adulti). L’apporto di vitamina C ne fa anche un sostegno importante quando si combattono le malattie da raffreddamento, non a caso la medicina popolare ha ideato lo sciroppo di cavolo verza e miele come antinfiammatorio, espettorante e lenitivo per tosse e, estensivamente, aiuto per tutte le malattie da raffreddamento. Il cavolo verza aiuta anche lo stomaco, ha effetto protettivo sulla mucosa gastrica e funziona come calmante del reflusso gastroesofageo. Importante in esso è, come dicevamo, anche lo zolfo, responsabile dell’odore pungente, ma che aiuta ad essere più belli visto che rafforza e mantiene in salute capelli, unghie e pelle e anche a restare giovani, poiché rinforza le articolazioni, contenendo MSM. Ancora importanti la clorofilla, con effetto antiossidante, e i fitosteroli, utili per contrastare il colesterolo alto e in particolare il cosiddetto «colesterolo cattivo» cioè l’LDL che si deposita sulle pareti arteriose ispessendole, indurendole e così aumentando il rischio di problematiche cardiovascolari anche importanti. Secondo l’Airc, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, infine, la molecola indolo-3-carbinolo (I3C), presente in tutte le crocifere e quindi nel cavolo verza, pare essere in grado di ripristinare l’attività del gene PTEN, gene oncosoppressore che però se muta o malfunziona può far sviluppare e crescere il tumore. Questo gene opera anche in patologie metaboliche. Le dosi anticancro osservate nei laboratori americani che stanno studiando questo gene e il rapporto con la molecola contenuta anche nel cavolo verza sono superiori a qualche foglia di cavolo nel piatto, ma mangiarlo spesso e in buona quantità conduce verso quella direzione.
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