2025-02-13
«Mio papà Villaggio iniziò grazie a Jannacci»
Elisabetta Villaggio, nel riquadro Enzo Jannacci e Paolo Villaggio (Getty Images)
Parla la figlia del comico, da poco in libreria con «Fantozzi dietro le quinte»: «All’epoca si esibiva per hobby, quando Enzo annullò in extremis un suo spettacolo l’impresario mandò sul palco lui a improvvisare. In platea c’era pure Costanzo, che se lo portò a Roma».Per una volta, scompaginiamo il format. Anziché introdurre l’intervistato come «figlio di», invertiamo l’ordine abituale delle presentazioni.Scriviamo dunque: Paolo Villaggio era il padre di Elisabetta, regista, sceneggiatrice, autrice del volume Fantozzi dietro le quinte e del documentario (lo potete vedere su Raiplay) Mostruosamente Villaggio, una raccolta di racconti in prossima uscita, Madeira, ambientati nell’isola portoghese, con protagonisti in parte realmente esistiti e in parte inventati.«Grazie, perché quando il tornado Fantozzi investì le nostre vite, per staccarmi da quella etichetta di “figlia di” c’è voluto del tempo, me ne sono andata negli Stati Uniti per cinque anni per tornare a essere innanzi tutto Elisabetta».Non si pensi a una rottura insanabile, non ci fu nemmeno quando il padre vendette la casa dei nonni a Cortina, «quella della mia infanzia: a lungo non gli ho più rivolto la parola».Tanto che Elisabetta è diventata la custode della memoria di tutto quello che è stato e ha rappresentato il grande attore genovese.A partire dal personaggio che gli ha procurato l’immortalità: il mitico ragionier Ugo Fantozzi.Protagonista della rubrica che Villaggio teneva sul settimanale L’Europeo.Poi del libro omonimo pubblicato nel 1971, e del sequel Il secondo tragico Fantozzi (1974).Quindi della sua prima trasposizione cinematografica (in totale i film saranno 10) per la regia di Luciano Salce.Che arrivò nelle sale il 27 marzo 1975.Cinquant’anni or sono. Una serata che avrebbe cambiato per sempre la vita di vostro padre ma anche di tutti voi.«Tutti al cinema Barberini, dove c’era la proiezione “ufficiale”. Lui in auto con mamma e mio fratello Piero. Io e i miei compagni di scuola in un pulmino affittato da papà, che si raccomandò: “Entrate per conto vostro, da soli, senza dire chi siete”».Voleva sottrarvi alla curiosità altrui?«Più che altro, dovevamo capire quali erano le reazioni di chi era in sala, che non dovevano essere influenzate dalla presenza dei parenti prossimi. Tant’è che quando le luci si spensero, lui uscì e si fiondò con mio fratello a fare una sorta di tour, andando prima in un cinema del quartiere San Giovanni, poi in un altro ancora più periferico, per verificare, non visto, se la gente comune si divertiva davvero e si lasciava andare alle risate».Come in Vengo anch’io di Enzo Jannacci, per «vedere di nascosto l’effetto che fa».«Pensi che papà era in qualche modo debitore davvero a Jannacci».In che senso?«Mio padre si esibiva per hobby in una compagnia goliardica di studenti di Genova, la Baistrocchi, dove fu notato dall’impresario Ivo Chiesa. Una sera, aspettavano l’arrivo in questo teatrino proprio di Jannacci, molto popolare in quel momento grazie al successo di quella canzone. Ma Jannacci manda un telegramma per dare forfait causa indisposizione. Chiesa è disperato, e manda sul palco mio padre. Che, così raccontava lui, non sapendo che dire se ne uscì con: “Signori e signore, anche questa sera, come al solito, lo spettacolo non si farà”. Una signora in prima fila ridacchiò, e mio padre la fulminò: “Zitta lei, per favore”».Era nato il professor Krantz, «tetesco di Cermania», che scendeva le scale con in braccio i cammellini di pelouche e insolentiva il pubblico negli studi della Rai in bianco e nero.«Quella sera poteva rivelarsi un totale fallimento, la fine di una carriera neppure iniziata. Invece in platea c’era una persona, che era venuta a teatro solo per assistere allo spettacolo di Jannacci».La «camicia coi baffi».«Maurizio Costanzo, esatto. Che dopo la performance portò mio padre a mangiare la famosa focaccia con il formaggio, dalla Manuelina a Recco. Invitandolo a scendere a Roma per esibirsi nel suo cabaret, il “7 x 8”, piccolo ma frequentato da attori, artisti, dirigenti della Rai».Suo padre non ci pensò due volte, e partì.«Si consultò con qualche patema d’animo con mia madre, che non ebbe esitazioni: “Lascia il certo per l’incerto. Chiedi l’aspettativa e vai”. Mio padre era infatti impiegato alla Cosider».In base al «luogocomunismo», ci si sarebbe potuti aspettare che una donna con due figli negli anni Sessanta invitasse il marito alla cautela.«Mia madre ha sempre sostenuto mio padre. Ha sempre creduto fosse destinato a grandi cose, l’ha sempre difeso anche con le loro famiglie di origine, che nutrivano perplessità e sulla loro unione e sulla carriera di papà».A Roma che successe?«Mio padre era partito con una valigina, e qualche ricambio, sicuro che si sarebbe trattato di un’esperienza di corto respiro. Invece “sfondò” davanti a una platea in cui c’erano Ennio Flaiano, Pietro Garinei e Sandro Giovannini, Marco Ferreri e Ugo Tognazzi, con cui nascerà una grande amicizia. Una sera lo vide Giovanni Salvi, un alto dirigente della Rai, che gli proporrà - vincendo le resistenze dei suoi colleghi al vertice di viale Mazzini - di partecipare a un varietà che sarebbe andato in onda da Milano, Quelli della domenica».Il programma debuttò a fine gennaio 1968. A Roma suo padre quando era sbarcato?«Nell’autunno 1967. Dall’esibirsi per diletto a Genova agli schermi della Rai nel volgere di pochi mesi. Un’accelerazione incredibile. Aveva scommesso su sé stesso, e aveva vinto».Sarà stato al settimo cielo.«Sì. Anche se il giorno in cui lo vidi davvero appagato, con lui che non stava più nella pelle, sarebbe arrivato 17 anni dopo».Con il Leone d'Oro alla carriera alla Mostra di Venezia.«Ritirandolo dalle mani di Ermanno Olmi, pronunciò un discorso, senza finte ipocrisie e falsa generosità, per condividerne il valore con altri due grandi attori, due comici, che non l’avevano mai ricevuto: Walter Chiari e Ugo Tognazzi. “Uno lo conoscevo poco, l’altro è stato un mio grande amico, non sono qui ma mi pare giusto ricordarli”. E chiuse tra gli applausi ringraziando per quel premio dato a un comico “da vivo”, perché in fondo “i comici in Italia non hanno diritto di cittadinanza”. Essere stato considerato figlio di un Dio minore, un attore di serie B, un clown, lo aveva ferito, anche se non l’aveva mai confessato».Fu una sorta di riabilitazione.«Necessaria e meritata. I comici non devono essere necessariamente dei buffoni, mio padre era colto, oserei definirlo un intellettuale che avrebbe potuto insegnare storia all’università, per i libri letti e la cultura assimilata. I libri su Fantozzi (Alessandro Baricco li ha inseriti nella lista dei 50 da leggere) erano scritti in modo così scorrevole e puntuale, da essere già una sceneggiatura. Si pensi ai dettagli, che so, perfino dell’abbigliamento, tipo i mutandoni ascellari».«Fantozzi aveva un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per cui andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero!», potrei citare a memoria brani dei libri e sequenze dei film.«Ci sono bambini che non sanno chi sia Villaggio, ma conoscono Fantozzi e le sue battute. Anche perché sono usate a piene mani oggi dai social, per i meme di politica o di sport, “ragioniere che fa, batti lei?”, “92 minuti di applausi”, “è una cagata pazzesca”, “salivazione azzerata”, fino alla Coppa Cobram, la gara in bicicletta che è diventata un appuntamento sul lago di Garda».E tutto ebbe inizio con quel primo capitolo della saga cinematografica dell’Italia fantozziana, che rimase in programmazione otto mesi. Una durata «mostruosa».«Sì. Fantozzi incassò oltre 6 miliardi di lire dell’epoca al botteghino (pari a 38 milioni di euro di oggi, ndr). Al primo posto nella classifica degli incassi nella stagione 1974-75. Al 49esimo posto in quella dei film italiani più visti di sempre, con otto milioni di spettatori paganti».Oggi, a 10 euro a biglietto, quegli otto milioni di fan avrebbero fatto lievitare l’incasso finale a 80 milioni di euro. Raggiunta fama e ricchezza, vi sarete ritrovati circondati da amici. Non tutti sinceri, visto che alla fine suo padre riservò giudizi agrodolci ai molti che si erano dileguati quando la sua stella si era offuscata.«Non si riferiva a quelli veri, scomparsi perché venuti a mancare. Ma di quelli di un certo generone romano, abituati a vivere alle spalle della sua grande generosità, e poi rivelatisi per quello che erano».Alla fine, chi era Fantozzi? E chi era suo padre?«Paolo Villaggio era un uomo libero, che è sempre andato controcorrente, non si è mai fatto inquadrare e ingabbiare da niente e nessuno, la sua ironia lo ha fatto vivere senza annoiarsi, condita da quel cinismo che lo salvava dal cadere e dallo scadere nel luogo comune. Proprio per questo, Fantozzi incarnava l’italiano medio, l’antieroe del lavoro dipendente, frustrato nelle sue ambizioni, immerso in un grigiore quotidiano cui mio padre guardava in realtà con affetto, mascherato dal cinismo. Villaggio non avrebbe mai infierito su Fantozzi, perché Fantozzi siamo noi, e lui non se la prendeva con i deboli. Ma non sopportava i cretini, motivo per cui non apprezzava - eccezion fatta per Marco Pannella - i politici, che reputava pure bugiardi».
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