2021-03-21
Dentro i giardini di una villa fiorentina dimora un colosso che ammazza i draghi
Il Colosso dell'Appennino di Villa Demidoff (iStock)
A Fiesole, nel bosco della magione che fu dei Medici, un gigante di pietra sbalordisce i visitatori. Arte così oggi è impossibile. Nelle settimane scorse abbiamo attraversato due celebri giardini italiani: il monumentale giardino di acque e statue di Valsanzibio, nel Padovano, e l'oasi incantata di Ninfa, nel Lazio. Ora migriamo alle porte di Firenze, o meglio, alle porte di Fiesole. In un territorio con una storia così importante, edifici e capolavori architettonici incastonati nei tessuti urbanistici quanto dispersi nelle campagne ondulate, c'è quel che resta di una delle ville più note del proprio tempo, e più ammirate, una vera dimora di delizie e spettacoli: il parco mediceo di Villa Demidoff, nel comune di Vaglia. Nella seconda metà del XVI secolo il granduca Francesco I de' Medici, figlio di Cosimo I, affida all'architetto e scultore Bernardo Buontalenti l'edificazione di una villa con giuochi d'acqua in un terreno collinare a nord di Firenze, detto Pratolino. I lavori fervono per cinque anni, fra il 1575 ed il 1580, viene edificata la villa e una serie di vasche e di statue e fontane fra le più magnifiche mai viste, addirittura automi, sviluppandosi su 20 ettari. Viene commissionata un'enorme statua all'artista fiammingo Jean de Boulogne, noto in Italia col nome di Giambologna, autore, fra le altre, della Fontana del Nettuno in Piazza Maggiore a Bologna e il Ratto delle Sabine per la Loggia dei Lanzi a Firenze. La statua ha per soggetto un enorme gigante barbuto, simbolo dell'Appennino Tosco Emiliano, un gigante giusto e impietoso, tanto da venir colto nell'atto di abbassarsi per schiacciare la testa di un drago o di un rettile luciferino, incarnazione del male e del vizio. La statua è alta 14 metri ma se fosse in piedi, dritto, sfiorerebbe i 20. Di fronte un laghetto popolato di piante fior di loto. Anni di restauro costati 300.000 euro lo hanno recentemente restituito all'iniziale magnificenza. Starci sotto garantisce una certa dose di emozione: la dimensione ciclopica, la perfezione anatomica, la lenta e secolare aggressione che pare pronto a esercitare su tutti coloro che alzano il naso per ammirarlo; e la barba, chilometrica, folta, un dipinto di luce. Alle sue spalle si spalanca una grotta ricoperta di conchiglie nella quale si può calare come in un viaggio iniziatico, mentre una scaletta risale e consente di penetrare fin nella possente testa. Nella testa del drago c'era un forno che poteva essere alimentato e grazie al quale sputare fuoco. Immaginatelo una notte d'estate, sotto un cielo di stelle, le signore in vestiti seicenteschi, gonne ampie e corpetti leggeri, ombrellini chiusi, uomini in giacca e canna di bambù, una danza, gli inchini e poi il drago che infiamma e il Colosso che lo abbatte definitivamente. La barba è ricoperta da vere stalattiti prelevate da grotte, così come altre statue presenti nei giardini delle ville di Tivoli sono mete strappate ai fondali mediterranei; oggi ci appare una barbarie ma al tempo il risultato artistico superava gli scrupoli e le blande morali ecologiche. L'ecosostenibilità di un progetto non era nemmeno un miraggio.Di quella residenza straordinaria i secoli hanno cancellato moltissimo: i Medici successivi al fondatore non lo considerano un posto d'elezione, tranne il caso dello stravagante Ferdinando de' Medici che sul finire del Seicento la fa restaurare. Nel Settecento l'arrivo dei Lorena non giova, poiché considerano queste proprietà una spesa superflua. Fra il 1819 e i primi anni Venti il Granduca Ferdinando fa abbattere quel che resta della villa e ridisegnare i giardini all'inglese, raggiungendo i 120 ettari attuali, occupati per metà da un bosco selvatico, quindi prati, pianori e quel che resta delle architetture: oltre al Colosso si possono visitare una statua in bronzo di Giove, la grotta di Cupido edificata dal Buontalenti nel 1577, una peschiera, cinque gamberaie, nonché l'ex paggeria, ampliata e divenuta Villa Demidoff, dal nome dell'industriale e collezionista russo che la acquista nel 1872. Un secolo più tardi passa in gestione alla Provincia di Firenze che attualmente lotta, fra mille restrizioni di budget, per mantenerla aperta al pubblico. Nel parco non mancano le sorprese botaniche: ad esempio dove sorgeva la villa ora crescono due splendidi alberi monumentali: un platano dai lunghi rami discendenti, con tronco piramidale e una circonferenza del tronco pari a 610 cm, ed una farnia col tronco di 710 cm, oltre a varie altre querce secolari.Fra le tante statue che ho ammirato nei giardini italiani il Colosso dell'Appennino resta, insieme ai mostri bomarziani, nel mio cuore di bambino cresciuto. Ogni volta che la penso, là, quasi dimenticata, mi viene da immaginarla nel cuore di una città d'arte, non sarebbe forse una star mondiale se si trovasse a Firenze, ad esempio nei giardini di Boboli, o in una piazza ad hoc nel centro, non meno delle grandi opere scultoree presenti a Roma o nelle altre capitali internazionali? La sua storia è qui, in questo parco ad una trentina di chilometri dal capoluogo, ma sarebbe davvero un crimine pensare, un giorno, ad un trasferimento? Ho chiesto cosa ne pensasse allo storico d'arte Luca Nannipieri, autore del saggio A cosa serve la storia dell'arte (Skira). Ecco quel che mi ha risposto: «Il Gigante del lago è uno dei massimi capolavori della fine del Rinascimento. Ha una forza magnetica incredibile di adesione e penetrazione con il lago e il boschetto alle spalle. Spostarla? Anche la Certosa di Pavia è un po' fuori mano, rispetto alle traiettorie del turismo internazionale. Spostiamola allora in centro a Milano, davanti la stazione dei treni, così la gente che arriva non deve neppure prendere la metropolitana... battuta a parte, lo spostamento delle opere e dei manufatti verso i luoghi di maggior interesse e frequentazione, dove possano maggiormente lustrare, è un retaggio di lontana ispirazione napoleonica che sarebbe il caso di lasciare ai secoli passati. Ne ho scritto nel mio ultimo libro: fino a pochi decenni fa, si pensava di salvare le opere a prescindere dai contesti di appartenenza: così Lord Elgin, ai primi dell'Ottocento, strappava i fregi del Partenone per “salvarli" a Londra. Oggi, per fortuna, abbiamo capito che le opere dei popoli non hanno un valore in sé stesse, ma un valore relazionale: è la relazione con ciò che hanno attorno che determina la rilevanza dell'opera stessa. Se tu un manufatto, un'architettura, un'espressione alfabetica, la estranei dal contesto per meglio conservarla ed esporla altrove, rimane solo una nuda esposizione, che nulla più dice dell'opera se non l'esposizione stessa». Oibò, senza saperlo sono espressione dello spirito napoleonico, ovviamente, anche in questo caso, sorpassato.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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