
La Roma ha deciso di non rinnovare il contratto al suo capitano, ieri l'annuncio senza polemiche ma con tanto rammarico. Cresciuto all'ombra di Totti, ha saputo farsi notare per posizioni coraggiose fuori dal campo. E la «Bild» gli diede del fascista.La sua personale guerra con gli americani, Daniele De Rossi l'ha iniziata ai mondiali del 2006, quando ruppe il naso a Brian McBride, e l'ha finita ieri, quando James Pallotta ha spezzato il cuore a lui. Dopo aver varcato il cancello di Trigoria a 11 anni, il centrocampista giallorosso ne è uscito a 35: per la società finisce qui, non c'è rinnovo del contratto. Sembrava amore eterno, poi lei gli ha detto che lo vede più come un dirigente. È finita con una conferenza stampa un po' surreale, con lui che potrebbe ribaltare il tavolo e avere i tifosi dalla propria, ma non lo fa, perché Ddr è così, sa tracciare confini precisissimi tra il tifo e il rispetto, tra il furore e l'intelligenza, tra la fazione e la nazione. Magra consolazione, per i tifosi romanisti che ora piombano nello psicodramma e anche gli altri non è che si sentano tanto bene. Dei due dioscuri della romanità, infatti, De Rossi rappresenta un romanismo sublimato, universale, laddove invece Francesco Totti vi era immerso fino alla saturazione, senza alcuna distanza. Totti è quello che segna alla Lazio e mostra la maglia «Vi ho purgato ancora», che vince per 4-0 con la Juve e fa il gesto «quattro e a casa» e che ha in questa dimensione il suo elemento naturale, da cui non si distacca. Se non sei romanista, ammiri il calciatore eccezionale, ma non entri in quel sistema di senso. È per questo che Totti diventa anche un giocatore «istituzionale», a Roma: l'uomo immagine, il calciatore spot, adottato dai palazzi. De Rossi è diverso. Parlando del suo rapporto con la Lazio, in un'intervista disse di provare per i cugini «un odio calcistico ed eterno. Ma c'è del rispetto. Durante il derby, allo stadio, mi insultano ma io trovo ciò del tutto normale. E finisce lì. Non ho mai avuto problemi con dei tifosi della Lazio passeggiando per Roma. In nessun quartiere. E questo lo rispetto». Persino più eretiche, in termini di faide calcistiche, le sue dichiarazioni di filo juventinismo dello scorso dicembre: «Credo di aver imparato dai miei avversari juventini, che per tanto tempo sono stati miei compagni di nazionale, per questo per certi versi mi sento molto simile a loro. Più invecchio più mi sento simile a quel tipo di mentalità». Essendo capace di mettere del metodo tra sé e la fede calcistica di una vita, De Rossi ha anche evitato l'effetto logoramento che invece caratterizzò il lungo addio di Totti. Le parole di ieri, pur senza lasciare nessuna frecciatina nella faretra, trasudano visione: «Ho sempre parlato poco, perché non mi piace e non c'era niente da dire, inoltre non volevo distrarre la squadra. Ci sta una società che decide chi deve giocare e come. Avrei potuto essere importante per loro, ma decide la società. Qualcuno un punto lo deve mettere. Il mio rammarico non è quello, mi è dispiaciuto che ci siamo parlati poco». Esteticamente, a scorrere le immagini della sua carriera, De Rossi sembra aver ripercorso il cammino dell'Urbe a ritroso: putto biondissimo e sbarbato come un rampollo del patriziato imperiale, all'esordio, si è pian piano trasformato in uno dei guerrieri ancestrali del Primo re, tutti asce e carne cruda. Un divenir selvatico che non ha però coinciso con l'appannamento del cervello, sempre vigile fuori dal campo, meno nel rettangolo verde, dove ha impilato una sua personalissima collezione di cartellini rossi evitabili. L'uomo, tuttavia, è sempre stato non banale e non conformista, spigoloso il giusto, troppo pungente nella bolla di buoni sentimenti che avvolge e stritola il calcio. «Le persone del mio liceo», ha raccontato il centrocampista alla rivista francese So Foot, «erano dei ragazzi per lo più di sinistra. Io ero con loro, ma non ero come loro. Scrutavo, osservavo, ascoltavo, cercavo anch'io di comprendere qual era la mia identità ma ero meno interessato alla politica. Nella mia scuola c'erano sempre delle autogestioni, dei blocchi, delle occupazioni e devo dire che non ero di quelli che si piantavano con le bandiere ma piuttosto di quelli che ne approfittavano per restare a casa a dormire». Tant'è che quelli della Bild, nel 2012, prima di un Italia-Germania, lo scomunicarono direttamente come un «estremista di destra, fan di Benito Mussolini». I francesi, in verità, gli offrirno una chance di redenzione, ma all'assist sulla Roma di Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini risponde citando Trilussa, il poeta antidemocratico amato da Julius Evola: «È meno conosciuto all'estero di Fellini e Pasolini ma è uno che Roma l'ha saputa descrivere. Prendi un libro, aprilo: respiri l'odore di Roma. Le parole traspirano romanità». C'è quindi una beffarda ironia della sorte e forse un ordine segreto delle cose nel fatto che nella sua Ostia, qualche giorno fa, un tizio abbia deciso di cancellare un murale a lui dedicato credendo che fosse «opera di Casapound», che invece, stavolta, non c'entrava un bel niente. È come se ci fosse un'istintiva dimensione politica, in De Rossi, non tanto e non solo per le reminiscenze di giovinezza di cui si è detto, quanto per un certo modo di vedere il mondo del calcio, e non solo. «Sono contento di aver avuto nemici», ha detto ieri, in conferenza stampa, con un atto schmittiano inconsapevole. È bello avere dei nemici, terribile è non averne. Chi ha amici combatte, e il combattimento è una forma di riconoscimento dell'altro. Nel 2010 fece infuriare i vertici della polizia dichiarando: «Il calcio italiano è ostaggio degli ultrà? No, è ostaggio delle televisioni, degli sponsor, certo anche degli ultrà, però loro sono una parte positiva del calcio. La tessera del tifoso? Non sono favorevole. Non mi piace la schedatura preventiva. Allora bisognerebbe fare anche la tessera del poliziotto. Chi va allo stadio a fare a coltellate non sta bene, come un poliziotto che prende a pugni un ragazzetto sul motorino». Dopo una doppietta in nazionale, dedicò i gol al suocero appena scomparso in circostanze violente e controverse, anche in quel caso scatenando un putiferio: «Penso che tra tutte le cose che i genitori dovrebbero trasmettere ai figli ci dovrebbe essere: onorare le persone della tua famiglia, non difenderle sempre a tutti i costi, ma onorarle, rispettarle e ricordarle sempre. Ricordare una persona che amiamo e rendergli omaggio non vuol dire che è giusto fare quello che ha fatto. Non si tratta di copiare dei comportamenti sbagliati né di incoraggiarli. Quel gesto era semplicemente un omaggio a qualcuno a cui ho voluto bene. Non mi sono pentito di quella dedica. Ecco». Mancherà al calcio italiano, uno capace di parlare così nello stanco rituale delle interviste del dopo partita. E adesso? L'intenzione è quella di andare avanti, ovviamente all'estero: Cina, Qatar, forse Turchia. Oppure l'America. Più che un trasferimento, una vendetta.
Matteo Ricci (Ansa)
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