Guai a paragonare José Mourinho a Giulio Cesare. Una Conference League non equivale alla conquista delle Gallie e una finale perduta con molti episodi dubbi in Europa League non corrisponde alla traversata del Rubicone. Eppure alea iacta est, il dado è tratto. Quei barbari d’oltreoceano dei Friedkin - i proprietari americani della Roma - sono stati dei Bruti, esonerando lo Special One e privando la tifoseria giallorossa di un condottiero dalla favella immaginifica e dalla tattica catenacciara, capace però di far sognare una città che non fremeva così dai tempi in cui Fabio Capello acciuffò uno scudetto fragoroso sotto la presidenza di Franco Sensi. Con Mourinho licenziato, la squadra sarà guidata da Daniele De Rossi, romano doc vissuto all’ombra del Pupone Francesco Totti, stavolta pronto a prendersi quegli spazi che era già riuscito a riempire, ma mai del tutto, nel cuore dei sostenitori. Fatale per l’allenatore portoghese è stata la scoppola buscata contro il Milan domenica scorsa a San Siro. Un 3-1 sonoro, una Roma mai capace di costituire un pericolo vero contro avversari rossoneri indomiti ma quest’anno zeppi di falle nella manovra e nei muscoli. Il girone d’andata della Roma non è stato formidabile: 29 punti, nona posizione in Serie A, una distanza siderale dal quarto posto utile per agganciare il treno della Champions League, non scordando la sconfitta nel derby di Coppa Italia. Mourinho contava ancora sull’apporto affabulatorio delle sue incursioni in conferenza stampa, sulla sua capacità di organizzare la difesa e poi, alla bisogna, di far entrare tutti gli attaccanti della rosa se necessitava un gol. Oltre che sulla sua costante qualità che gli è valsa gloria imperitura: l’eccellente esito dei tornei d’Europa. Quando conquistò due anni fa la Conference League, coppa a dire il vero modesta, Roma fu presa d’assalto da tifosi inebriati dal trionfo. Lo stesso stava per accadere l’anno scorso nella finale di Europa League: una partita drammatica, da gladiatori nell’arena, con l’andaluso Fernando che tocca la palla col braccio sul cross di Spinazzola. Per l’arbitro non è rigore, dice che il braccio era attaccato al corpo. Ancora oggi persistono molti molti dubbi. Si andò ai rigori, Rui Patricio parò un penalty a Montiel, ma l’esecuzione venne fatta ripetere: una bolgia, la Roma perse. Se, come avrebbe meritato, quel trofeo lo avesse messo in bacheca, forse oggi il tecnico lusitano sarebbe ancora al suo posto. Del resto, a lui si deve l’approdo di Romelu Lukaku a settembre a rimpolpare i ranghi di un attacco orfano di Abraham e con un Dybala talentuoso e dal guizzo creativo, ma a mezzo servizio. Dietro di loro, il deserto dei tartari. Stephan El Sharaawy è un prestigiatore che troppe volte svela i suoi trucchi, Belotti un gallo combattivo, ma che canta poco. Il centrocampo ha l’argentino Paredes dal piede educato ma mai troppo incisivo, e poi i mestieranti Cristante, Bove, Spinazzola non più dirompente come un tempo, una difesa fatta di centrali fragili. La Roma è priva di un gioco propositivo in fase di costruzione e questo penalizza l’ariete belga, ma la rosa a disposizione - complice pure l’impossibilità di realizzare una campagna acquisti completa per i paletti imposti dalla Uefa - ricorda una lancia spuntata. L’addio del direttore sportivo Tiago Pinto aveva fatto suonare l’allarme già qualche settimana fa: il transatlantico capitolino rischiava di essere condotto in porto da un altro capitano. Una girandola di reazioni ha ieri circondato Trigoria. Alcuni tifosi si sono presentati armati di volantini contro i Friedkin mentre il tecnico salutava il centro sportivo capitolino. Ryanair pubblicava un post sui social colmo d’ironia: «Ultima chiamata per José Mourinho, il tuo volo da Roma per Ovunque imbarcherà a breve». Ettore Viola, figlio dello storico presidente Dino Viola, si schiera con il mister esonerato: «Un fulmine a ciel sereno. L’attaccamento della curva a Mourinho è stato impagabile e sorprendente, e non credo che adesso, con l’arrivo di De Rossi, possiamo pensare di vincere il campionato. Si poteva arrivare fino a giugno con Josè». Gli fa eco Fabio Capello dai microfoni Sky: «Penso che queste società americane lavorino senza rispettare le persone con cui collaborano. Lo abbiamo visto al Milan con Maldini e oggi a Trigoria con Mourinho. Non c’è sensibilità dalle loro parti, solo business. Io invece penso che serva rispetto, magari accordandosi prima e separatamente e non con un comunicato e una telefonata». Di diverso avviso Marcello Lippi: «De Rossi è un ragazzo straordinario, una persona positiva. Sono sicuro che trasmetterà ai suoi giocatori qualità importanti e cose positive, gli auguro di cuore di fare bene», assieme all’ex attaccante polacco Boniek: «L’esonero di Mourinho è una scelta coraggiosa, impopolare ma intelligente». Ci sarà rimasto male il diciottenne Dean Huijsen, arrivato in prestito dalla Juve: aveva scelto i giallorossi convinto proprio dalle parole di Mou. Esattamente come Dybala, che stando agli spifferi dello spogliatoio avrebbe preso malissimo l’allontanamento del tecnico portoghese. Nel frattempo, con la felpa targata «Ddr», che non significa essere nostalgici della Stasi, Daniele De Rossi ha diretto il suo primo allenamento a Trigoria. «Desidero ringraziare la famiglia Friedkin per avermi affidato la responsabilità della guida tecnica della Roma: l’emozione di sedere sulla nostra panchina è indescrivibile», ha dichiarato. Per lui è pronto un contratto di sei mesi con opzione di rinnovo in caso di conquista di un posto in Champions League.
L'ultimo pistolero attraversa l'altopiano sul calesse guidato da Paolo Stoppa mentre le note di Ennio Morricone toccano i nervi e il cuore; c'è qualcosa del western in questa faccenda. Si va verso un'altra sfida, verso altre ferite, con il vento in faccia e l'animo pulito. Roba da duri come Daniele De Rossi, che a 36 anni per 500.000 euro vuole provare l'ebbrezza della Boca di Buenos Aires, dove se sbagli tre partite qualcuno ti punta un coltello alla gola. Posto di frontiera, niente a che vedere con le stazioni balneari arabe o cinesi dove i calciatori con pochi globuli rossi svernano almeno a 10 milioni a stagione per segnare gol a difese ancora improbabili.
Sono scelte. Mentre Stephan El Shaarawy a 27 anni è andato a prendere 13 milioni l'anno per tre anni a Shanghai e ha quasi raggiunto Graziano Pellè (15 a stagione) nella classifica degli uomini d'oro in prepensionamento, De Rossi ha voglia di continuare a lottare. Campionato vero, squadra sanguigna, tifosi bollenti e avversari impazienti di mostrare i tacchetti a fil di caviglia, in fondo come piace a lui. Nel mondo del pallone malinconicamente abitato da cascatori della vita, da fenomeni di cartapesta, da centravanti orgogliosi di stare a mollo sul gommone, da icone con un bidone di spazzatura al posto del cuore, è quasi un dovere accennare un blues a un uomo di 36 anni che non ha ancora smesso di emozionarsi. E che vuole provare dal vivo il senso più ruggente della tonnara argentina.
Alla Bombonera lo aspettano per il weekend e già lo adorano. Apriranno lo stadio per lui. I tifosi sanno che è un leader, che è un passionale e che è un campione del mondo. La lastra non dà controindicazioni, il fremito è totale. Anche numerosi tifosi della Roma, per affetto, hanno prenotato la maglia blu e oro numero 16. E continuano a chiedersi se una fine così malinconica non potesse essere evitata. Per lui tutto questo rappresenta già il passato: ha preso casa a Puerto Madero, ha iscritto i figli alla scuola italiana più prestigiosa della metropoli (dove l'italiano resta la lingua dei sogni) ed è pronto a vivere otto mesi dentro il suo romanzo di vita. Si è fatto un regalo e non lo nega: «Quello stadio mi toglie il respiro, l'ho detto più volte in famiglia e agli amici. È il più bello del mondo. Ricordo i video di Diego Maradona in quella bolgia, è un'immagine cara che porto con me da quando ero bambino. E poi tutti dicono che il tifo è il dodicesimo giocatore. Vado lì per toccare con mano dove lo è veramente da sempre».
La battaglia continua, questione di huevos. La possima sarà contro la critica che lo sta accogliendo in modo più freddo rispetto ai sostenitori del club; deve convincere gli opinionisti di non essere un vecchio tanguero in cerca dell'ultimo ingaggio. Il ds del Boca Juniors, che è Nicolas Burdisso, suo ex compagno di squadra, sa che può dare ancora molto per pensiero, tocco, cattiveria e corsa. Gli basta. «Tutti i calciatori che hanno voglia di vincere si trovano bene con uno stadio e una tifoseria che ti spingono. Difficile immaginare qualcosa di più bello», ha spiegato Burdisso dandogli il benvenuto. Per la verità qualcosa di più bello ci sarebbe: il Superclasico contro il River Plate nella Bombonera, ma non sarà così, perché il calendario prevede che quest'anno l'unica sfida si giochi al Monumental.
Del resto sono solo otto mesi, poi De Rossi deciderà cosa fare da grande. Se passare alla Major league soccer nel Los Angeles Fc con l'aiuto di James Pallotta (questione di rapporti da ricucire), oppure se chiuderla lì e diventare vice di Roberto Mancini in Nazionale. La scelta argentina è arrivata dopo un periodo tormentato. L'ex capitano della Roma era stato corteggiato dalla Fiorentina e stava per capitolare, quando si è ricordato due dettagli: contro i colori giallorossi non avrebbe potuto giocare e prima o poi quella maglia numero 16 regalatagli da Leandro Paredes avrebbe voluto indossarla. Ora è pronto e non ha paura di nulla, neppure di scendere in campo nella città dove il calcio non è solo una religione, ma un'ossessione. Quando, nel pieno dell'ultima devastante recessione il peso argentino diventò carta straccia, a Buenos Aires si consolarono chiamando la banconota da dieci pesos «dolar Messi» per continuare a guardare il mondo a testa alta.
La Boca, un altoforno di decibel e di passione. Il guerriero con la barba a punta non sarà certo il primo italiano a giocare con gli Xeneizes (i genovesi, quelli di Zena, che esportarono fatica, lavoro e dialetto), ma addirittura il quarto. Il primo fu Mario Busso, dal 1918 al 1927, anche lui romano, che fece in tempo a vincere otto titoli. Il secondo fu Giovanni Bratina nel 1948, solo 13 partite. Il terzo Nicolas Novello, otto campionati dal 1966, tre vinti. Se contiamo gli oriundi ci sono anche Gabriel Paletta e Pablo Osvaldo. Comunque rarità, stille di esotismo e di coraggio perché sarebbe più facile per chiunque trovare un ingaggio sicuro in Arabia Saudita a giocare a beach volley nel deserto.
Dopo le polemiche, i veleni sui retroscena del caso Totti, quel «giocherei anche a gettone» che sorprese tutti, la scelta del Boca Juniors riconcilia lui con la sua biografia e tutti noi con l'ultimo guerriero. Va dove lo porta il cuore e non i soldi. Va dove di statue ne ricordano solo due, per sempre. Quella di Evita Peron, così magra e poco avvenente che ogni mattina attorno al piedistallo la gente lascia generi alimentari («così mangia e si rinforza»). E quella di Carlos Gardel, l'inventore del tango, all'ingresso del cimitero di Chacarita. Gran fumatore, ogni giorno qualcuno gli mette una sigaretta accesa fra le dita come se fosse un cero. Amore, lame e rose rosse. Niente tattica, solo passione. La casa del guerriero è quella giusta.
È più difficile tirare un rigore in una finale di Champions o discutere un contratto con 2 milioni di tifosi accalcati attorno alla scrivania? L'anno scorso Daniele De Rossi ha sfiorato la prima emozione, quest'anno ha deciso di vivere la seconda. «Se voi dite che sto male, allora datemi 100.000 euro a presenza. Se pensate che io non possa giocare più di dieci partite, guadagnerò 1 milione. Se invece non gioco mai, resterò gratis», propone all'amministratore delegato della Roma, Guido Fienga, come estrema provocazione in un audio che sta facendo il giro d'Italia. È il potere petulante di Whatsapp, è la forza dei social che hanno fatto prigioniero il mondo del pallone. Basta una ditata e il più prolifico dei cannonieri diventa un ectoplasma (Mauro Icardi) o il più segreto dei colloqui si trasforma in uno show imbarazzante. È la vita in diretta, è il Truman Show e bisogna farci i conti. Con tutte le sue schizofrenie e le sue menzogne: l'anno scorso di questi tempi Antoine Griezmann finanziò un documentario per dichiarare eterno amore all'Atletico Madrid, tre giorni fa ha fatto un video per salutare i tifosi. Andrà al Barcellona.
Nel caso De Rossi sono preminenti i contenuti di un lungo addio, il valore di una maglia, quei 18 anni da guerriero che - come diceva Enrico Cuccia riferendosi a certi pacchetti azionari - non si contano ma si pesano. Esasperato dal gioco a mosca cieca sul rinnovo del contratto, De Rossi getta sulla scrivania l'ultima carta: un accordo a gettone, neanche fosse una schiappa per completare l'organico e non una bandiera, anzi l'ultima bandiera giallorossa. Il retroscena della conversazione finita su Whatsapp è clamoroso perché dimostra due verità antitetiche: che il capitano della Roma ama così tanto la maglia da proporsi eventualmente pure gratis («se non gioco mai») e che il capitano della Roma - esattamente come decine di monumenti di altre squadre - non sa come si esce di scena senza sbracare.
La vicenda è goffa, è cominciata male e finisce peggio. Perfino con un'aggravante rispetto agli stucchevoli ultimi mesi dell'avventura pallonara di Francesco Totti: qui non c'è un Luciano Spalletti al quale dare ogni colpa. In realtà è tutto molto semplice: a 35 anni De Rossi avrebbe voluto un ultimo contratto importante e la Roma del presidente italoamericano presidente James Pallotta non aveva intenzione di offrirglielo. Così nel colloquio decisivo arriva a offrirsi a cottimo, quasi a ore, aggiungendo per sdrammatizzare: «Ho fatto una battuta del genere». La sua versione, inviata con un audio a un amico e da quest'ultimo messa in circolo non si sa quanto involontariamente, prosegue così. «Fienga mi ha detto: è quello che avrei voluto proporti io. Ma è una riflessione nata e morta lì, perché mi stava dicendo che non mi avrebbero tenuto. Due ore e mezza di colloquio. Poi arrivo a casa e mi fa: ho chiamato il presidente e mi ha detto che allora è ok. Ma come, non mi hanno detto niente per un anno, poi mi chiamano per dirmi che mi cacciano via e dopo 40 minuti arrivo a casa e mi dicono: non va bene, allora se vuoi facciamo il contratto?».
Siamo al Bagaglino, anche perché secondo De Rossi la Roma avrebbe fatto sua la proposta a gettone, neppure presa in considerazione fino a quel momento. Secondo parte della tifoseria, affezionatissima al campione, l'anima nera del film sarebbe la vecchia conoscenza Franco Baldini, consulente di mercato del presidente con quartiere generale a Londra. Così proprio davanti alla London Tower ieri è comparso uno striscione molto trasteverino: «Prima Totti, poi Ddr. Baldini verme!». In realtà la versione di De Rossi non è l'unica variazione sul tema del lungo addio e i dirigenti della Roma raccontano una storia un po' diversa rispetto a quel «non mi hanno detto niente per un anno, poi mi chiamano per dirmi che mi cacciano via».
Premesso che un club ha tutto il diritto di ammainare una bandiera (la Juventus lo ha fatto con Alessandro Del Piero e Gianluigi Buffon, l'Inter con Xavier Zanetti, il Milan con Paolo Maldini, tutti quasi in silenzio), in realtà gli incontri con De Rossi sarebbero stati tre, con la società trasparente nel disegnare un orizzonte sul quale la figura dell'anziano capitano non si stagliava più con il ruolo da protagonista. Progetti tecnici, ipotesi di allenatori e soprattutto un imperativo: la necessità di alzare il livello di intensità atletica per essere all'altezza del calcio che si gioca in Europa. La lezione di Liverpool, Ajax, Tottenham, Eintracht, Atalanta ha colto nel segno. Se gli altri corrono di più è perfino lecito provare a raggiungerli con nuovi metodi d'allenamento anche a Trigoria.
Davanti a questa necessità, secondo la società De Rossi avrebbe chiesto tempo; in questa stagione gli infortuni si sono moltiplicati e l'incertezza sul futuro era palpabile. A questo punto Pallotta avrebbe deciso di non rinnovare, ma di agevolare il passaggio del giocatore alla Lega americana, suo vecchio pallino. Sempre da dentro la Roma arriva una smentita: mai il club avrebbe accettato il contratto a gettone. Una prassi del tutto inusuale nel mondo del pallone, se non per sontuosi calciatori stagionali come fu David Beckham nel Milan del 2009, ma adottata nel basket fino a qualche anno fa per coprire lunghi infortuni o togliersi qualche sfizio artistico. Nel 2015 Metta World Peace, stella dei Los Angeles Lakers, venne a giocare tre mesi a Cantù e lo stesso Kobe Bryant (durante il lockout della Nba) fu a un passo dal firmare un contratto per due mesi nella Virtus Bologna.
Tornando a De Rossi, dopo le rivelazioni via Whatsapp la rottura diventa insanabile. Siamo agli stracci sul ballatoio e Antonio Conte (prossimo allenatore dell'Inter) pare abbia chiamato il guerriero romano nella consapevolezza che un paio d'anni ruggenti a Milano possa ancora farli. In tutto questo non sfugge un'ultima necessità: quella di imparare l'arte di saper smettere, di evitare la pretesa di Pantheon immediato. E di metabolizzare la lezione impagabile di monsieur Michel Platini, che a 32 anni disse semplicemente: «Mi ritiro perché non ce la faccio più. L'importante è essere sinceri con sé stessi».
La sua personale guerra con gli americani, Daniele De Rossi l'ha iniziata ai mondiali del 2006, quando ruppe il naso a Brian McBride, e l'ha finita ieri, quando James Pallotta ha spezzato il cuore a lui. Dopo aver varcato il cancello di Trigoria a 11 anni, il centrocampista giallorosso ne è uscito a 35: per la società finisce qui, non c'è rinnovo del contratto. Sembrava amore eterno, poi lei gli ha detto che lo vede più come un dirigente.
È finita con una conferenza stampa un po' surreale, con lui che potrebbe ribaltare il tavolo e avere i tifosi dalla propria, ma non lo fa, perché Ddr è così, sa tracciare confini precisissimi tra il tifo e il rispetto, tra il furore e l'intelligenza, tra la fazione e la nazione. Magra consolazione, per i tifosi romanisti che ora piombano nello psicodramma e anche gli altri non è che si sentano tanto bene. Dei due dioscuri della romanità, infatti, De Rossi rappresenta un romanismo sublimato, universale, laddove invece Francesco Totti vi era immerso fino alla saturazione, senza alcuna distanza. Totti è quello che segna alla Lazio e mostra la maglia «Vi ho purgato ancora», che vince per 4-0 con la Juve e fa il gesto «quattro e a casa» e che ha in questa dimensione il suo elemento naturale, da cui non si distacca. Se non sei romanista, ammiri il calciatore eccezionale, ma non entri in quel sistema di senso. È per questo che Totti diventa anche un giocatore «istituzionale», a Roma: l'uomo immagine, il calciatore spot, adottato dai palazzi.
De Rossi è diverso. Parlando del suo rapporto con la Lazio, in un'intervista disse di provare per i cugini «un odio calcistico ed eterno. Ma c'è del rispetto. Durante il derby, allo stadio, mi insultano ma io trovo ciò del tutto normale. E finisce lì. Non ho mai avuto problemi con dei tifosi della Lazio passeggiando per Roma. In nessun quartiere. E questo lo rispetto». Persino più eretiche, in termini di faide calcistiche, le sue dichiarazioni di filo juventinismo dello scorso dicembre: «Credo di aver imparato dai miei avversari juventini, che per tanto tempo sono stati miei compagni di nazionale, per questo per certi versi mi sento molto simile a loro. Più invecchio più mi sento simile a quel tipo di mentalità».
Essendo capace di mettere del metodo tra sé e la fede calcistica di una vita, De Rossi ha anche evitato l'effetto logoramento che invece caratterizzò il lungo addio di Totti. Le parole di ieri, pur senza lasciare nessuna frecciatina nella faretra, trasudano visione: «Ho sempre parlato poco, perché non mi piace e non c'era niente da dire, inoltre non volevo distrarre la squadra. Ci sta una società che decide chi deve giocare e come. Avrei potuto essere importante per loro, ma decide la società. Qualcuno un punto lo deve mettere. Il mio rammarico non è quello, mi è dispiaciuto che ci siamo parlati poco».
Esteticamente, a scorrere le immagini della sua carriera, De Rossi sembra aver ripercorso il cammino dell'Urbe a ritroso: putto biondissimo e sbarbato come un rampollo del patriziato imperiale, all'esordio, si è pian piano trasformato in uno dei guerrieri ancestrali del Primo re, tutti asce e carne cruda. Un divenir selvatico che non ha però coinciso con l'appannamento del cervello, sempre vigile fuori dal campo, meno nel rettangolo verde, dove ha impilato una sua personalissima collezione di cartellini rossi evitabili. L'uomo, tuttavia, è sempre stato non banale e non conformista, spigoloso il giusto, troppo pungente nella bolla di buoni sentimenti che avvolge e stritola il calcio.
«Le persone del mio liceo», ha raccontato il centrocampista alla rivista francese So Foot, «erano dei ragazzi per lo più di sinistra. Io ero con loro, ma non ero come loro. Scrutavo, osservavo, ascoltavo, cercavo anch'io di comprendere qual era la mia identità ma ero meno interessato alla politica. Nella mia scuola c'erano sempre delle autogestioni, dei blocchi, delle occupazioni e devo dire che non ero di quelli che si piantavano con le bandiere ma piuttosto di quelli che ne approfittavano per restare a casa a dormire». Tant'è che quelli della Bild, nel 2012, prima di un Italia-Germania, lo scomunicarono direttamente come un «estremista di destra, fan di Benito Mussolini». I francesi, in verità, gli offrirno una chance di redenzione, ma all'assist sulla Roma di Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini risponde citando Trilussa, il poeta antidemocratico amato da Julius Evola: «È meno conosciuto all'estero di Fellini e Pasolini ma è uno che Roma l'ha saputa descrivere. Prendi un libro, aprilo: respiri l'odore di Roma. Le parole traspirano romanità».
C'è quindi una beffarda ironia della sorte e forse un ordine segreto delle cose nel fatto che nella sua Ostia, qualche giorno fa, un tizio abbia deciso di cancellare un murale a lui dedicato credendo che fosse «opera di Casapound», che invece, stavolta, non c'entrava un bel niente. È come se ci fosse un'istintiva dimensione politica, in De Rossi, non tanto e non solo per le reminiscenze di giovinezza di cui si è detto, quanto per un certo modo di vedere il mondo del calcio, e non solo. «Sono contento di aver avuto nemici», ha detto ieri, in conferenza stampa, con un atto schmittiano inconsapevole. È bello avere dei nemici, terribile è non averne. Chi ha amici combatte, e il combattimento è una forma di riconoscimento dell'altro.
Nel 2010 fece infuriare i vertici della polizia dichiarando: «Il calcio italiano è ostaggio degli ultrà? No, è ostaggio delle televisioni, degli sponsor, certo anche degli ultrà, però loro sono una parte positiva del calcio. La tessera del tifoso? Non sono favorevole. Non mi piace la schedatura preventiva. Allora bisognerebbe fare anche la tessera del poliziotto. Chi va allo stadio a fare a coltellate non sta bene, come un poliziotto che prende a pugni un ragazzetto sul motorino».
Dopo una doppietta in nazionale, dedicò i gol al suocero appena scomparso in circostanze violente e controverse, anche in quel caso scatenando un putiferio: «Penso che tra tutte le cose che i genitori dovrebbero trasmettere ai figli ci dovrebbe essere: onorare le persone della tua famiglia, non difenderle sempre a tutti i costi, ma onorarle, rispettarle e ricordarle sempre. Ricordare una persona che amiamo e rendergli omaggio non vuol dire che è giusto fare quello che ha fatto. Non si tratta di copiare dei comportamenti sbagliati né di incoraggiarli. Quel gesto era semplicemente un omaggio a qualcuno a cui ho voluto bene. Non mi sono pentito di quella dedica. Ecco».
Mancherà al calcio italiano, uno capace di parlare così nello stanco rituale delle interviste del dopo partita. E adesso? L'intenzione è quella di andare avanti, ovviamente all'estero: Cina, Qatar, forse Turchia. Oppure l'America. Più che un trasferimento, una vendetta.






