
Daniele De Rossi non andrà a svernare in Cina. Indosserà la maglia del Boca Juniors nello stadio più caldo del mondo.L'ultimo pistolero attraversa l'altopiano sul calesse guidato da Paolo Stoppa mentre le note di Ennio Morricone toccano i nervi e il cuore; c'è qualcosa del western in questa faccenda. Si va verso un'altra sfida, verso altre ferite, con il vento in faccia e l'animo pulito. Roba da duri come Daniele De Rossi, che a 36 anni per 500.000 euro vuole provare l'ebbrezza della Boca di Buenos Aires, dove se sbagli tre partite qualcuno ti punta un coltello alla gola. Posto di frontiera, niente a che vedere con le stazioni balneari arabe o cinesi dove i calciatori con pochi globuli rossi svernano almeno a 10 milioni a stagione per segnare gol a difese ancora improbabili.Sono scelte. Mentre Stephan El Shaarawy a 27 anni è andato a prendere 13 milioni l'anno per tre anni a Shanghai e ha quasi raggiunto Graziano Pellè (15 a stagione) nella classifica degli uomini d'oro in prepensionamento, De Rossi ha voglia di continuare a lottare. Campionato vero, squadra sanguigna, tifosi bollenti e avversari impazienti di mostrare i tacchetti a fil di caviglia, in fondo come piace a lui. Nel mondo del pallone malinconicamente abitato da cascatori della vita, da fenomeni di cartapesta, da centravanti orgogliosi di stare a mollo sul gommone, da icone con un bidone di spazzatura al posto del cuore, è quasi un dovere accennare un blues a un uomo di 36 anni che non ha ancora smesso di emozionarsi. E che vuole provare dal vivo il senso più ruggente della tonnara argentina.Alla Bombonera lo aspettano per il weekend e già lo adorano. Apriranno lo stadio per lui. I tifosi sanno che è un leader, che è un passionale e che è un campione del mondo. La lastra non dà controindicazioni, il fremito è totale. Anche numerosi tifosi della Roma, per affetto, hanno prenotato la maglia blu e oro numero 16. E continuano a chiedersi se una fine così malinconica non potesse essere evitata. Per lui tutto questo rappresenta già il passato: ha preso casa a Puerto Madero, ha iscritto i figli alla scuola italiana più prestigiosa della metropoli (dove l'italiano resta la lingua dei sogni) ed è pronto a vivere otto mesi dentro il suo romanzo di vita. Si è fatto un regalo e non lo nega: «Quello stadio mi toglie il respiro, l'ho detto più volte in famiglia e agli amici. È il più bello del mondo. Ricordo i video di Diego Maradona in quella bolgia, è un'immagine cara che porto con me da quando ero bambino. E poi tutti dicono che il tifo è il dodicesimo giocatore. Vado lì per toccare con mano dove lo è veramente da sempre».La battaglia continua, questione di huevos. La possima sarà contro la critica che lo sta accogliendo in modo più freddo rispetto ai sostenitori del club; deve convincere gli opinionisti di non essere un vecchio tanguero in cerca dell'ultimo ingaggio. Il ds del Boca Juniors, che è Nicolas Burdisso, suo ex compagno di squadra, sa che può dare ancora molto per pensiero, tocco, cattiveria e corsa. Gli basta. «Tutti i calciatori che hanno voglia di vincere si trovano bene con uno stadio e una tifoseria che ti spingono. Difficile immaginare qualcosa di più bello», ha spiegato Burdisso dandogli il benvenuto. Per la verità qualcosa di più bello ci sarebbe: il Superclasico contro il River Plate nella Bombonera, ma non sarà così, perché il calendario prevede che quest'anno l'unica sfida si giochi al Monumental. Del resto sono solo otto mesi, poi De Rossi deciderà cosa fare da grande. Se passare alla Major league soccer nel Los Angeles Fc con l'aiuto di James Pallotta (questione di rapporti da ricucire), oppure se chiuderla lì e diventare vice di Roberto Mancini in Nazionale. La scelta argentina è arrivata dopo un periodo tormentato. L'ex capitano della Roma era stato corteggiato dalla Fiorentina e stava per capitolare, quando si è ricordato due dettagli: contro i colori giallorossi non avrebbe potuto giocare e prima o poi quella maglia numero 16 regalatagli da Leandro Paredes avrebbe voluto indossarla. Ora è pronto e non ha paura di nulla, neppure di scendere in campo nella città dove il calcio non è solo una religione, ma un'ossessione. Quando, nel pieno dell'ultima devastante recessione il peso argentino diventò carta straccia, a Buenos Aires si consolarono chiamando la banconota da dieci pesos «dolar Messi» per continuare a guardare il mondo a testa alta.La Boca, un altoforno di decibel e di passione. Il guerriero con la barba a punta non sarà certo il primo italiano a giocare con gli Xeneizes (i genovesi, quelli di Zena, che esportarono fatica, lavoro e dialetto), ma addirittura il quarto. Il primo fu Mario Busso, dal 1918 al 1927, anche lui romano, che fece in tempo a vincere otto titoli. Il secondo fu Giovanni Bratina nel 1948, solo 13 partite. Il terzo Nicolas Novello, otto campionati dal 1966, tre vinti. Se contiamo gli oriundi ci sono anche Gabriel Paletta e Pablo Osvaldo. Comunque rarità, stille di esotismo e di coraggio perché sarebbe più facile per chiunque trovare un ingaggio sicuro in Arabia Saudita a giocare a beach volley nel deserto.Dopo le polemiche, i veleni sui retroscena del caso Totti, quel «giocherei anche a gettone» che sorprese tutti, la scelta del Boca Juniors riconcilia lui con la sua biografia e tutti noi con l'ultimo guerriero. Va dove lo porta il cuore e non i soldi. Va dove di statue ne ricordano solo due, per sempre. Quella di Evita Peron, così magra e poco avvenente che ogni mattina attorno al piedistallo la gente lascia generi alimentari («così mangia e si rinforza»). E quella di Carlos Gardel, l'inventore del tango, all'ingresso del cimitero di Chacarita. Gran fumatore, ogni giorno qualcuno gli mette una sigaretta accesa fra le dita come se fosse un cero. Amore, lame e rose rosse. Niente tattica, solo passione. La casa del guerriero è quella giusta.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.