Guai a paragonare José Mourinho a Giulio Cesare. Una Conference League non equivale alla conquista delle Gallie e una finale perduta con molti episodi dubbi in Europa League non corrisponde alla traversata del Rubicone. Eppure alea iacta est, il dado è tratto. Quei barbari d’oltreoceano dei Friedkin - i proprietari americani della Roma - sono stati dei Bruti, esonerando lo Special One e privando la tifoseria giallorossa di un condottiero dalla favella immaginifica e dalla tattica catenacciara, capace però di far sognare una città che non fremeva così dai tempi in cui Fabio Capello acciuffò uno scudetto fragoroso sotto la presidenza di Franco Sensi. Con Mourinho licenziato, la squadra sarà guidata da Daniele De Rossi, romano doc vissuto all’ombra del Pupone Francesco Totti, stavolta pronto a prendersi quegli spazi che era già riuscito a riempire, ma mai del tutto, nel cuore dei sostenitori. Fatale per l’allenatore portoghese è stata la scoppola buscata contro il Milan domenica scorsa a San Siro. Un 3-1 sonoro, una Roma mai capace di costituire un pericolo vero contro avversari rossoneri indomiti ma quest’anno zeppi di falle nella manovra e nei muscoli. Il girone d’andata della Roma non è stato formidabile: 29 punti, nona posizione in Serie A, una distanza siderale dal quarto posto utile per agganciare il treno della Champions League, non scordando la sconfitta nel derby di Coppa Italia. Mourinho contava ancora sull’apporto affabulatorio delle sue incursioni in conferenza stampa, sulla sua capacità di organizzare la difesa e poi, alla bisogna, di far entrare tutti gli attaccanti della rosa se necessitava un gol. Oltre che sulla sua costante qualità che gli è valsa gloria imperitura: l’eccellente esito dei tornei d’Europa. Quando conquistò due anni fa la Conference League, coppa a dire il vero modesta, Roma fu presa d’assalto da tifosi inebriati dal trionfo. Lo stesso stava per accadere l’anno scorso nella finale di Europa League: una partita drammatica, da gladiatori nell’arena, con l’andaluso Fernando che tocca la palla col braccio sul cross di Spinazzola. Per l’arbitro non è rigore, dice che il braccio era attaccato al corpo. Ancora oggi persistono molti molti dubbi. Si andò ai rigori, Rui Patricio parò un penalty a Montiel, ma l’esecuzione venne fatta ripetere: una bolgia, la Roma perse. Se, come avrebbe meritato, quel trofeo lo avesse messo in bacheca, forse oggi il tecnico lusitano sarebbe ancora al suo posto. Del resto, a lui si deve l’approdo di Romelu Lukaku a settembre a rimpolpare i ranghi di un attacco orfano di Abraham e con un Dybala talentuoso e dal guizzo creativo, ma a mezzo servizio. Dietro di loro, il deserto dei tartari. Stephan El Sharaawy è un prestigiatore che troppe volte svela i suoi trucchi, Belotti un gallo combattivo, ma che canta poco. Il centrocampo ha l’argentino Paredes dal piede educato ma mai troppo incisivo, e poi i mestieranti Cristante, Bove, Spinazzola non più dirompente come un tempo, una difesa fatta di centrali fragili. La Roma è priva di un gioco propositivo in fase di costruzione e questo penalizza l’ariete belga, ma la rosa a disposizione - complice pure l’impossibilità di realizzare una campagna acquisti completa per i paletti imposti dalla Uefa - ricorda una lancia spuntata. L’addio del direttore sportivo Tiago Pinto aveva fatto suonare l’allarme già qualche settimana fa: il transatlantico capitolino rischiava di essere condotto in porto da un altro capitano. Una girandola di reazioni ha ieri circondato Trigoria. Alcuni tifosi si sono presentati armati di volantini contro i Friedkin mentre il tecnico salutava il centro sportivo capitolino. Ryanair pubblicava un post sui social colmo d’ironia: «Ultima chiamata per José Mourinho, il tuo volo da Roma per Ovunque imbarcherà a breve». Ettore Viola, figlio dello storico presidente Dino Viola, si schiera con il mister esonerato: «Un fulmine a ciel sereno. L’attaccamento della curva a Mourinho è stato impagabile e sorprendente, e non credo che adesso, con l’arrivo di De Rossi, possiamo pensare di vincere il campionato. Si poteva arrivare fino a giugno con Josè». Gli fa eco Fabio Capello dai microfoni Sky: «Penso che queste società americane lavorino senza rispettare le persone con cui collaborano. Lo abbiamo visto al Milan con Maldini e oggi a Trigoria con Mourinho. Non c’è sensibilità dalle loro parti, solo business. Io invece penso che serva rispetto, magari accordandosi prima e separatamente e non con un comunicato e una telefonata». Di diverso avviso Marcello Lippi: «De Rossi è un ragazzo straordinario, una persona positiva. Sono sicuro che trasmetterà ai suoi giocatori qualità importanti e cose positive, gli auguro di cuore di fare bene», assieme all’ex attaccante polacco Boniek: «L’esonero di Mourinho è una scelta coraggiosa, impopolare ma intelligente». Ci sarà rimasto male il diciottenne Dean Huijsen, arrivato in prestito dalla Juve: aveva scelto i giallorossi convinto proprio dalle parole di Mou. Esattamente come Dybala, che stando agli spifferi dello spogliatoio avrebbe preso malissimo l’allontanamento del tecnico portoghese. Nel frattempo, con la felpa targata «Ddr», che non significa essere nostalgici della Stasi, Daniele De Rossi ha diretto il suo primo allenamento a Trigoria. «Desidero ringraziare la famiglia Friedkin per avermi affidato la responsabilità della guida tecnica della Roma: l’emozione di sedere sulla nostra panchina è indescrivibile», ha dichiarato. Per lui è pronto un contratto di sei mesi con opzione di rinnovo in caso di conquista di un posto in Champions League.
Nella finale di Europa League di Budapest ai giallorossi non basta il vantaggio firmato da Dybala nel primo tempo. Gli andalusi trovano il pari con una sfortunata autorete di Mancini a inizio ripresa e, dopo l'1-1 ai supplementari, si affidano al para rigori Bounou che ipnotizza lo stesso Mancini e Ibanez.
Nel calcio le certezze sono poche. Una di queste è il binomio Siviglia-Europa League. Nella finale di Budapest la Roma dei gladiatori di questa stagione, guidata dal condottiero José Mourinho, si è dovuta arrendere soltanto alla sorte dei calci di rigore e alla cabala appunto. Per la squadra andalusa si tratta infatti della settima finale vinta su altrettante disputate in questa competizione, al culmine di un'annata nata malissimo con i bassifondi della Liga per tutto il girone di andata e due cambi di allenatore, da Julen Lopetegui a Jorge Sampaoli, fino a José Luis Mendilibar, che da quando si è seduto sulla panchina del Siviglia, il 21 marzo, ha inanellato una serie di risultati che hanno consentito a Rakitic e compagni di raggiungere una posizione tranquilla in campionato e, soprattutto, di arrivare alla finale di Europa League dopo aver eliminato squadre blasonate come Manchester United ai quarti e Juventus in semifinale.
Alla Roma resta il rimpianto di essere arrivata a questo cruciale appuntamento con alcuni tra i giocatori più importanti non in perfette condizioni. Su tutti Paulo Dybala, in dubbio addirittura fino all'ultimo a causa dell'infortunio subito alcune settimane fa durante il match contro l'Atalanta, e schierato titolare da Mourinho. Finché c'è stata la Joya in campo si è vista una Roma sì sempre più attenta a non prenderle che a darle, ma con la netta consapevolezza che quando la palla arrivava al talento argentino qualcosa di buono sarebbe potuto accadere. Come effettivamente è avvenuto al 35' del primo tempo, quando dopo un contrasto a centrocampo tra Cristante e Fernando, Mancini ha subito verticalizzato per Dybala che, entrato in area, ha trovato il diagonale vincente con il suo mancino. L'ex Juve, però, è dovuto uscire al 68' sul risultato di 1-1, sostituito da un Wijnaldum entrato non come ci si potesse aspettare. Gli andalusi, nel secondo tempo molto più pericolosi anche grazie al doppio cambio operato da Mendilibar all'intervallo con Suso e Lamela al posto di Gil e Torres, hanno trovato il gol del pari al 55' grazie a una sfortunata autorete di Mancini, nel tentativo di anticipare En-Nesyri sul cross dalla destra di Jesus Navas. Il pareggio si protrae fino al 90' e al 120', che diventerà addirittura 146' sommando tutti i maxi recuperi concessi dall'arbitro tra tempi regolamentari ed extra. Il direttore di gara, l'inglese Anthony Taylor, non ha certamente offerto la sua miglior prestazione, soprattutto all'altezza di una finale di una competizione europea, prendendo alcune decisioni sbagliate, come per esempio il calcio di rigore prima concesso al Siviglia al 77' su un contatto in area tra Ibanez e Ocampos che avrebbe saputo tanto di sentenza, e poi corretto con l'aiuto del var. Video arbitro che è stato protagonista, per la prima volta nella storia, anche nella serie finale dei calci di rigore. Dopo il percorso netto dei tiratori del Siviglia, in gol con Ocampos, Lamela e Rakitic, e i due errori della Roma con Mancini e Ibanez che si sono fatti ipnotizzare dal para rigori Bounou, ad avere sul piede il penalty decisivo è stato Montiel. L'argentino, che meno di sei mesi fa aveva deciso, sempre dagli undici metri, la finale mondiale in Qatar contro la Francia, stavolta ha fallito il tiro dal dischetto, parato da Rui Patricio, ma il var ha richiamato Taylor dicendogli che il rigore andava ripetuto per irregolarità del portiere portoghese. Rewind. Gol. Déjà vu. Siviglia campione per la settima volta. Calciatori della Roma in lacrime, su tutti Dybala, e Mourinho che in conferenza stampa, oltre alla frecciata nei confronti dell'arbitro - «sembrava spagnolo» - ha dribblato ancora una volta le domande dei giornalisti sul suo futuro: «Voglio rimanere» - ha detto lo Special one che ha poi aggiunto - «Ma i miei giocatori meritano di più. E anche io merito di più. Sono un po' stanco di essere allenatore, essere uomo di comunicazione, di essere quello che dice che siamo stati derubati. Sono un po' stanco di essere tanto. Io voglio rimanere nella condizione di dare di più».
Chi conserva vaghe reminiscenze della commedia d’autore italiana, non faticherà a ricordare il Carlo Verdone del film Troppo forte, quando interpretava il coatto Oscar Pettinari: giovane stuntman a Cinecittà in cerca di gloria, si vantava di aver recitato in un grottesco film d’avventura intitolato La palude del caimano. Ieri, di quella pellicola fantasiosa, è andata in onda la versione 2.0: la palude era lo stadio Olimpico, il caimano José Mourinho, gran visir lusitano dei pantani vorticosi, quelli in cui l’avversario non si raccapezza e finisce inghiottito. Solo che il calcio è meglio del cinema, almeno nei colpi di scena. Dopo 90 minuti di equilibrio, con gli uomini di Pioli impegnati senza successo a proporre un gioco sbarazzino fatto di verticalizzazioni, fraseggi, ghirigori per favorire l’estro di Leao e il guizzo di Giroud, la commedia ha fatto posto ai film d’azione con gocce sparse di thriller: rete della Roma al minuto 93 con Abraham, pareggio matto e disperatissimo del Milan al minuto 97 con Saelemakers, entrato al posto di Diaz. Si chiude 1-1 un match terminato dopo 10 minuti di recupero, a testimonianza che contrasti fisici e perdite di tempo assortite non sono mancati. Un punto in classifica che potrebbe far comodo a entrambe le compagini, ma sia chiaro, Mou è una volpe: sapeva di puntare al pareggio, rifilando magari qualche zampata improvvisa nei minuti conclusivi, forte della probabilità che alla Juventus qualche penalizzazione di fine stagione verrà inflitta e che la qualificazione alle coppe che contano non è in pericolo. Lo Special One ha costruito una formazione - pur attrezzata sul terminale offensivo con Belotti e Abraham - densissima a centrocampo: Celik, Cristante, Matic, Spinazzola, quest’ultimo abile incursore. Non scordando Pellegrini sulla trequarti, vivace e accorto, e la difesa a tre con Kumbulla che però si rompe quasi subito durante uno scontro di gioco, rimpiazzato da Bove, che va a scambiarsi la posizione con Cristante. Il Milan gioca con la maglia bianca, schiera gli uomini migliori, da Magic Mike Maignan tra i pali, alla difesa composta da Calabria e Theo Hernandez sulle fasce, con gli esperti Kjaer e Tomori al centro. In mezzo al campo Tonali e il pupillo di mister Pioli, quel Rade Krunic gregario per tutte le evenienze. Davanti, Diaz e Leao a supporto di Giroud a mezzo servizio, con il tendine d’Achille un po’ infiammato, e Bennacer a far da raccordo. Le emozioni tardano a venire, i rossoneri palleggiano, i giallorossi impediscono ai varchi di aprirsi. Al minuto 17 ci prova Pellegrini su calcio piazzato, Mancini di testa non direziona il pallone. Già Pellegrini pochi minuti prima aveva impensierito la retroguardia milanista sfruttando una sponda del gallo Belotti. Tomori e Matic si beccano i cartellini gialli, il Milan si scuote, Diaz azzarda il traversone, Krunic non è preciso nell’aggancio. I campioni d’Italia capiscono l’antifona e fanno di necessità virtù. Sanno che Leao è l’uomo giusto per sbloccare risultati incollati sul pari e tentano di servirlo. Ci prova Tonali ma il portoghese, dopo aver ricevuto il pallone in verticale, viene chiuso da Mancini. Sempre Leao, una manciata di minuti prima, si era prodotto in un tiro a giro alla Lorenzo Insigne, mandando la sfera a lato. Theo cade in alcune occasioni sotto gli interventi degli avversari, qualcuno dagli spalti si lamenta dell’eccessiva teatralità dei capitomboli, ma i contrasti ci sono eccome. In uno di questi, Tomori patisce una botta alla coscia e nel secondo tempo viene sostituito dal giovane dell’under 21 tedesca Malick Thiaw. Prima che l’arbitro Orsato fischi la pausa, c’è tempo per un paio di occasioni, una targata Calabria, l’altra Pellegrini, ma la sostanza mostra un dato incontrovertibile: si giochicchia senza occasioni lampanti. Pure nel secondo tempo la situazione non pare diversa. Mourinho fa entrare l’ex di turno, nonché ex bimbo prodigio di Milanello El Sharaawy, il Milan aspetta una decina di minuti per cambiare Diaz, meno pirotecnico del solito, con Saelemakers, provando a sfruttare la voglia del belga di sacrificarsi con costrutto. A fine partita, al biondo fiammingo verrà eretto un monumento equestre: è stato lui a capitalizzare l’imbeccata di Leao, calciando di destro e infilando Rui Patricio, e a evitare ai suoi la sconfitta. Durante i botta e risposta precedenti, fino al novantesimo, il copione già visto nella prima frazione di gara era rimasto analogo. Kjaer mura una conclusione di Pellegrini su assist di Abraham al 65’, Leao prova a inventarsi traiettorie ben controllate dai rivali. La girandola delle sostituzione non pare ravvivare lo spettacolo: il belga dall’occhio depresso De Ketelaere rimpiazza Bennacer, Kalulu entra in luogo di Kjaer, all’88’, quando ormai la partita è incanalata verso lo 0-0, Origi prende il posto di Giroud. Ma è durante il terzo minuto di recupero che il destino suona la carica giallorossa. Celik vede Abraham scattare e lo serve puntuale, l’attaccante inglese in piena area di rigore valuta un tiro angolato con cui superare Maignan e realizza il gol secondo i suoi piani balistici. In casa rossonera si accende il dramma, una sconfitta di quel tipo sarebbe una mazzata per il morale e un’iniezione di autostima eccessiva per Mourinho che, sul quel versante, è già zavorrato. Ecco allora che i milanisti si riversano in avanti, fino al guizzo di Leao per Saelemakers, non un fenomeno, ma un calciatore utilissimo alla causa.
Domanda secca, Ivan Zazzaroni: chi vince lo scudetto?
«La Roma. Lo dico per esclusione, perché sarà una stagione imprevedibile, con 50 giorni d’interruzione».
Però lei dice Roma, perché le piace Mourinho o perché ha fatto una buona campagna acquisti?
«Mi piace molto Mourinho. La Roma ha fatto una buona campagna, ma incompleta, prendendo un paio di ottime pedine. Se vincesse sarebbe miracoloso. Però, ripeto, questa è un’annata strana».
Ivan Zazzaroni, direttore responsabile del Corriere dello Sport-Stadio e del Guerin sportivo, storiche testate del Gruppo Amodei (anche Tuttosport, Autosprint, Motosprint, Auto e In Moto) va controcorrente e i quarant’anni di giornalismo sportivo sulle spalle vengono in aiuto. Se i suoi colleghi pronosticano Inter, Milan o Juventus, lui dice Roma e si vedrà. Conduttore dal 2004 con Fabio Caressa di Deejay Football Club su Radio Deejay, già commentatore di Tiki Taka e, da dopodomani, di Pressing del lunedì su Italia Uno, è apprezzato dal pubblico extrasportivo come giurato di Ballando con le stelle su Rai 1.
Sono settimane di griglie e podi, direttore: campionato anomalo con i Mondiali in mezzo?
«Molto anomalo, perché costringe le squadre a due ritiri diversi. Alcuni giocatori, purtroppo gli stranieri, torneranno dal Qatar carichi o scarichi in funzione del risultato. Chi avrà disputato semifinali e finale avrà pochi giorni per ripartire. Io sono stato da subito contrario a questo mondiale perché la Fifa si è svenduta, come spesso fa».
Giudizio pesante.
«Si interrompe una stagione per fare un mondiale per ragioni finanziarie, politiche ed elettorali. Come succede con la Coppa d’Africa».
Cioè?
«Si era arrivati alla decisione di giocarla a fine stagione come la Coppa America, ma poi la nuova società di marketing cinese ha imposto la competizione nella stagione migliore per la Cina, cioè in gennaio».
Ha ragione Aurelio De Laurentiis a dire che non prenderà più giocatori africani?
«Totalmente. Un club perde calciatori importanti per due mesi, al netto di possibili infortuni».
Anche per i Mondiali in Qatar hanno prevalso interessi economici e politici?
«Tutti sanno che non è giusto giocare un Mondiale che spezza la stagione. La Fifa per statuto dovrebbe tutelare il calcio e i suoi attori, e invece distrugge questo sport, minandone la regolarità. Falsandolo alla radice. Qatar 2022 si farà - è troppo tardi per fermarlo, troppi i miliardi e gli interessi, troppe le vittime - non lasciamoci però ingannare dalle campagne moralizzatrici, o dai proclami populisti. Questi signori pensano al potere, “il bene del calcio” non è mai una priorità».
Cosa la fa pensare che l’Italia sia fuori per la seconda volta consecutiva?
«L’impresa è stata vincere gli Europei. È giusto che siamo fuori perché non facciamo nulla per migliorare. Il nostro calcio è alla deriva sia dal punto di vista finanziario che tecnico. Ma temo che continueremo a parlarci addosso».
Spietato.
«Prendiamo quelli che hanno vinto gli Europei un anno fa. Lorenzo Insigne e Federico Bernardeschi sono andati a Toronto, Giorgio Chiellini a Los Angeles, Leonardo Bonucci ha la sua età, Gigio Donnarumma è molto criticato, Domenico Berardi non ha avuto offerte, Ciro Immobile non si muove dalla Lazio».
Responsabilità dei club?
«Ognuno pensa ai cavoli propri, nessuno ha un senso generale del sistema. Chi tenta strade nuove prima o poi viene segato. Sono molto scettico».
Ripartiamo dall’ultimo campionato, contano più le idee dei soldi?
«No. Prima dell’ultimo campionato nessuno si era rinforzato, l’Inter aveva perso Hakimi e Lukaku, la Juventus Cristiano Ronaldo, il Napoli aveva trattenuto giocatori da vendere. Poi, certo, il Milan ha fatto meglio».
Lo scudetto l’ha perso l’Inter?
«Certo. E anche il Napoli con i 6 punti ceduti all’Empoli e la sconfitta in casa con la Fiorentina».
Il Milan ha vinto con i giovani, qualche giocatore carismatico e una politica di risparmi.
«Sicuramente è una strada. Però contestualizziamola in una stagione in cui le altre hanno avuto problemi. La Juventus ha perso i 30 gol di Ronaldo. La Roma non aveva fatto un vero mercato. Il Milan ha mostrato motivazione, spirito di gruppo e qualità in giocatori come Leao e Theo Hernandez».
Cosa vuol dire che l’Inter ha ripreso Lukaku e la Juventus Pogba?
«Lukaku è stata una grande opportunità, mai visto un giocatore venduto a 115 milioni e ripreso per 8 più bonus. La Juve può comprare solo se vende. Lo stesso la Roma che ha preso Dybala a parametro zero».
È il risultato delle politiche degli anni scorsi?
«Delle non politiche... Delle spese folli che hanno creato gravi problemi di bilancio, acuiti dalla pandemia».
La Juventus si è indebolita o rafforzata?
«Indebolita sia numericamente che qualitativamente. Per vincere lo scudetto bisogna fare 75-80 gol. Questa Juve può arrivare a 60, attribuendone 25 a Vlahovic. Dybala e Morata in una stagione grigia ne hanno fatti 19. I nuovi Kostic e Di Maria non so quanti ne garantiranno».
Tornerà Federico Chiesa e c’è Kean.
«Chiesa rientrerà a gennaio. Kean è sul mercato».
A centrocampo Locatelli e Zakaria sono stati aggiunti a McKennie, Rabiot, Arthur, poi ha preso Pogba, ma ora serve anche Paredes: il problema non sarà un altro?
«La Juve insegue il momento. Ha preso Vlahovic e Zakaria a gennaio, spendendo gran parte del budget. È vero che c’è stato l’aumento di capitale di 400 milioni, però se fai operazioni come queste non puoi più spendere a giugno. Infatti, ha preso a zero Pogba e Di Maria per innestare qualità, ma forse senza avere un progetto di lungo respiro».
Il Milan più che spendere investe?
«Sì, continua la politica dei giovani perché i suoi dirigenti sanno quello che vogliono in funzione di quello che hanno. Frederic Massara è uno dei migliori direttori sportivi in circolazione. Giovani ne hanno sbagliati pochi: Tonali, Leao, Theo, Kalulu, Tomori… E se non stai nei loro parametri ti mollano, come si è visto con Donnarumma e Kessie».
Kessie dovrebbe giocare nel Barcellona.
«Se supera i problemi di bilancio. Negli ultimi anni il Barcellona ha preso Coutinho, Dembélé, Griezman, Depay spendendo 500 milioni. Messi percepiva 53 milioni netti a stagione. Il Barcellona è tutelato perché si chiama Barcellona, se si chiamasse Real Saragozza sarebbe già fallito».
È giusto che questi club vogliano la Superlega?
«Il principio non è sbagliato, ma è stato presentato male».
Sarebbe una competizione poco democratica?
«Quando in Italia la Juventus vince 9 campionati di fila, in Spagna vincono sempre Real Madrid e Barcellona, in Portogallo Benfica e Porto, in Gran Bretagna Manchester City o Liverpool, in Francia il Paris Saint-Germain cosa c’è di democratico?».
Ai romantici piacciono storie come l’Atalanta.
«All’interno di campionati antidemocratici ci sono società come l’Atalanta, il Sassuolo, il Chievo di una volta. Ma anche la nuova Super-champions si mangerà i campionati. Gli unici furbi sono gli inglesi perché, con poche eccezioni, i loro soldi rimangono in casa».
Ma la Champions la vince il Real Madrid.
«Il Real ha scoperto dopo alcune partenze di avere grandi giocatori come il Benzema de-ronaldizzato e Vinicius. E ha ritrovato un allenatore come Ancelotti che sa gestire queste situazioni. L’anno scorso, dopo che Allegri si è accordato con la Juve invece di andare a Madrid, Carlo si è proposto a Florentino Pérez e ha vinto Liga, Champions e Supercoppa. A volte i progetti nascono in modo curioso».
Perché i tifosi interisti ce l’hanno con lei?
«Perché il mio giornale ha anticipato i problemi economici, puntualmente confermati, di Steven Zhang. Grazie al lavoro di Alessandro Giudice, il nostro analista finanziario, avevamo informazioni dalla Cina. Ma se sfiori una società subito qualcuno ti accusa di volerla destabilizzare. L’abbiamo talmente destabilizzata che poi l’Inter ha vinto il campionato».
Non la contestano per un modo diverso di sottolineare le sconfitte di Inter e Juve?
«Non mi pare di enfatizzare quelle dell’Inter e minimizzare quelle della Juve. Sono identificato come nemico, leggo certi striscioni… I miei giudizi non sono condizionati dall’ammirazione che nutro per alcune persone».
Chi sono?
«Mourinho, Massimiliano Allegri, Carlo Ancelotti, Sinisa Mihajlovic, Gian Piero Gasperini, Maurizio Sarri e naturalmente Roberto Mancini che è un vincente da 40 anni. Diciamo che ho buoni rapporti con parecchi allenatori. Ma se vincono vincono, se perdono perdono».
La favola del Monza?
«Intanto mi fa piacere perché risiedo a Monza. Galliani è sempre avanti, adesso si è inventato l’obbligo d’acquisto condizionato: se ci salviamo il giocatore resta, se no torna a casa. Dopo aver comprato l’impossibile negli anni Ottanta ha capito che i tempi sono cambiati. Difficile che un giocatore straniero accetti l’acquisto condizionato, perciò hanno preso soprattutto italiani».
Dove arriva?
«Galliani dice che l’obiettivo è il decimo posto, ma in cuor suo punta al sesto. Non è uno da traguardi piccoli».
Molti dicono che Mediaset sia filo-interista come la Gazzetta dello Sport e il Corriere della Sera, mentre il gruppo Amodei sarebbe filo-juventino come Sky e che per questo il Milan sarebbe sottovalutato.
«Il Corriere dello Sport non è filo-juventino, ma guarda alle piazze di Roma, Lazio e Napoli. Poi essendoci Stadio siamo attenti anche a Bologna e Fiorentina. Tuttosport è il giornale di Torino. Non è vero che il Milan è poco considerato, il suo scudetto ha fatto la fortuna della Gazzetta. Le vittorie condizionano le vendite. Quando la Roma ha vinto la Conference League abbiamo venduto 40.000 copie solo nel Lazio».
Il più grande allenatore italiano?
«Ancelotti: per quello che ha vinto, per quello che è e per quello che è rimasto. Carletto è la semplificazione e l’aristocrazia del calcio. L’anno scorso ha battuto Psg, Chelsea, Liverpool e City. Dopo la finale di Parigi gli hanno chiesto come aveva vinto? E lui: “Il portiere ha parato, il centravanti ha segnato”. Un maestro».
Il più grande giocatore italiano?
«Sono baggista da sempre. In Dybala rivedo un po’ di Roberto».
Per riportare una coppa europea in Italia serviva Mou. Che in conferenza fa uno dei suoi show
La Roma batte il Feyenoord 1-0 a Tirana, decisivo un gol di Nicolò Zaniolo nel primo tempo, e conquista la prima edizione della Conference League. Per i giallorossi un titolo internazionale dopo la Coppa delle Fiere del 1961 e la Coppa Angloitaliana del 1972, per lo Special One è il quinto trofeo europeo.
José Mourinho e la Roma colorano il cielo di Tirana di giallorosso. Nella prima finale della Conference League disputata all'Arena Kombëtare, lo Special One e i giallorossi hanno battuto gli olandesi del Feyenoord 1-0 con un gol segnato al 32' del primo tempo da Nicolò Zaniolo, finalmente decisivo, e riportano una coppa internazionale in Italia dopo 12 anni di digiuni, finali perse e competizioni come l'Europa League snobbate e considerate con troppa superficialità un impiccio del giovedì sera. Era infatti dal 2010 che un club italiano non trionfava in Europa, con l'Inter del Triplete che la sera del 22 maggio sollevava al cielo di Madrid la Champions League. Guarda caso, sotto la guida del portoghese.
Con questo trofeo la Roma impreziosisce una bacheca che a livello generale non veniva aggiornata dal 2008 con la vittoria della Coppa Italia, e in ambito internazionale contava una Coppa delle Fiere del 1961 e una Coppa Angloitaliana del 1972. E non ce ne vorrà nessun tifoso romanista se ci permettiamo di dire che questo è il primo trofeo internazionale della sua storia. Alla Roma e al suo allenatore vanno fatti i complimenti perché ci hanno creduto fin dall'inizio e fin dalla prima partita del 19 agosto in Turchia a Trebisonda contro il Trabzonspor, passando per trasferte in Ucraina, il doppio viaggio al Circolo Polare Artico contro il Bodo-Glimt, con quella sconfitta per 6-1 che ha bruciato così tanto che deve aver fatto scattare qualcosa nella testa del gruppo giallorosso, e infine qui a Tirana, dove la squadra è arrivata con 55 partite stagionali sulle gambe ma ha giocato una gara tosta, difensiva certo, ma a dimostrazione che le finali, quando c'è in palio un trofeo da portare a casa, vanno vinte, punto e basta. E a sottolineare questo concetto con poteva che essere lo stesso Mourinho che nel post partita, in conferenza stampa ha ricordato una domanda che un giornalista gli aveva posto alla vigilia della finale, riguardo a quanto sia molto difficile vincere giocando un bel calcio. «È molto difficile vincere» ha risposto Mou - «Bisogna avere tanti ingredienti, la nostra squadra ha fatto 55 partite e siamo arrivati alla finale in questa condizione di stanchezza fisica e mentale». L'allenatore portoghese dal 2003, anno in cui ha cominciato a vincere in Europa con il Porto, non ha praticamente fallito nessun appuntamento europeo. Dopo la Coppa Uefa con il Porto nel 2003 e il bis in Champions nel 2004, è arrivata un'altra Champions League con l'Inter nel 2010, un'Europa League con il Manchester United nel 2017 e, appunto, la Conference con la Roma, diventando il terzo allenatore, insieme a leggende come Giovanni Trapattoni e Udo Lattek a vincere tre competizioni europee diverse.
Mourinho che riesce a stupire una volta sempre di più, non solo con i risultati, ma anche con quella che è la sua altra grande abilità: i colpi di scena e le trovate comunicative. Mentre rispondeva alla seconda domanda dei giornalisti in conferenza stampa, i suoi giocatori fanno irruzione in sala con champagne e cori «Campeones, campeones», lui si unisce a loro e, gioco di prestigio, ne approfitta per dileguarsi e dribblare le altre domande.







