2020-12-27
«Verso una società infetta con corpi sani»
Gianni Canova (Pier Marco Tacca/Getty Images)
Il rettore dello Iulm Gianni Canova: «Abbiamo sacrificato tutto per paura del Covid. Nessun dittatore avrebbe sognato un delitto tanto perfetto: perfino durante la guerra i cinema restavano aperti. Politici e medici sono incapaci di comunicare e creano solo allarmismo» «Il vuoto come unico rimedio per tutelare la salute, la sostituzione definitiva del sociale con il social; nessun dittatore distopico avrebbe osato sognare un delitto tanto perfetto». È la descrizione più autentica della realtà al tempo del Covid. Ce la regala il professor Gianni Canova, rettore dell'università Iulm di Milano, tempio della comunicazione italiana. Un originale tipo di accademico che quasi tutte le sere è dentro il 50 pollici a spiegarci su Sky le magie del cinema, a cogliere i punti di contatto e di rottura tra fiction e realtà. Forse per questo la lettera agli studenti in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico è qualcosa di speciale. Semplice e profonda, capace di attraversare la grande fibrillazione del contagio con una parola chiave: attesa. Attesa di cosa, professor Canova, oltre che del vaccino? «Di un cambio di passo. Assodato che l'università non debba essere un erogatore automatico di saperi preconfezionati, ma un laboratorio di idee e un avamposto civile, il primo compito è una battaglia culturale in difesa dell'idea stessa di socialità. Bisogna ribadire che nessuna didattica a distanza sostituirà mai la presenza. L'università è condivisione». Per mesi lo smart working è sembrato la soluzione ideale. «Serve solo in alcuni casi e nell'emergenza. Durante il lockdown di primavera ho ricevuto molte mail di studenti. Una mi ha particolarmente colpito: “Prof ho nostalgia del campus perché lì, anche quando vai in caffetteria con gli amici, le idee vengono fuori come funghi dopo un temporale". A questi ragazzi abbiamo rubato un anno di vita e gli effetti si vedranno fra 20 anni». Nel discorso agli studenti lei parla della «monadizzazione del mondo». «Protetti da scafandri mentali immateriali, inibiti al contatto fisico con l'altro da guanti e mascherine, con l'attività tattile interdetta e sanzionata, oggi facciamo della sopravvivenza del corpo il feticcio a cui immolare tutto, soprattutto il nostro bisogno di socialità. È finita l'era del noi. Fare comunità oggi è il massimo pericolo per la salute, ma non dimentichiamo che l'uomo è un animale sociale». È uno stato di necessità per salvaguardare i più deboli. «Mi rendo conto ma l'altro non è l'untore. Se arriviamo a vederlo come un pericolo finiremo per essere corpi sani in una società infetta. Un po' come accade al protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo: lui guarisce, ma in un mondo che è malato alle radici. L'ignavia, l'acquiescenza. È questa la malattia che siamo chiamati a combattere nelle nostre università». Ci si rinchiude e la cultura muore? «Non capisco perché questo Paese decida alternativamente di chiudere e riaprire tutto ma tenga sprangati musei, cinema e teatri dove i tassi di contagio erano bassissimi. È incomprensibile. Piuttosto si doveva fare come per i ristoranti, aperti la mattina e non la sera. Nel 1944 i cinema, i teatri, lavoravano sotto i bombardamenti. Si ricorda il film di François Truffaut L'ultimo metro? Organizzavano gli spettacoli per tempo ed erano a casa per il coprifuoco». La cultura inibita è un problema, il suo ultimo libro si intitola Ignorantocrazia. «Oggi un terzo degli italiani è analfabeta funzionale. Otto su dieci non sono mai entrati in un teatro, nove su dieci non sono mai andati a un concerto che non fosse di musica leggera. E sei su dieci non leggono un libro in tutta una vita. C'è una grande emergenza culturale che non si vuole vedere, non ne parla nessuno. E questa stagione peggiora solo le cose». Parola chiave, attesa. Aspettiamo che tutto torni come prima. «Sarebbe un altro errore, sperarlo significa non avere capito niente. Design, moda, niente funzionerà più come prima. Non ci sarà bisogno di sei collezioni all'anno, ne basteranno la metà ma più qualitative. La pandemia ci costringerà a cambiare gli scenari: molte professioni decolleranno, molte declineranno. E tutte avranno bisogno di imparare a comunicare». Non viviamo già in una società che comunica h24? «L'esperienza di quest'anno è stata micidiale, c'è bisogno di reinventare tutto. Comunicazione istituzionale, medica, informazione pura e semplice dei media: stiamo comunicando malissimo, creiamo solo confusione e allarmismo nei cittadini. Per capire cosa fare a Capodanno devi dedicare un giorno della tua esistenza sulla Terra, non esiste. E poi che tu sia ingegnere o medico, social media manager o avvocato, avrai bisogno di elaborare un pensiero critico». E qui torna al centro l'università. «Nella lettera a Lucilio, 2.000 anni fa, Seneca diceva: “Bisogna essere capaci di avere un pensiero originale". È la chiave di tutto. Per interpretare il futuro dobbiamo aiutare i nostri ragazzi a pensare con la propria testa e a trovare il punto di congiunzione fra passione e talento». Per ottenere quale risultato? «Amare il proprio lavoro senza noia, senza rancore. Come scrive Primo Levi, questa è l'esperienza umana che ti avvicina alla felicità». Per riuscirci l'università dovrà essere più libera da condizionamenti. «Bisogna sburocratizzare e dare più libertà agli atenei. I metodi di reclutamento dei docenti, tutti consegnati al feticismo delle pubblicazioni sulle riviste di fascia A, rischiano di premiare il conformismo invece che la ricerca originale, il pensiero eretico. Albert Einstein ha scritto un solo articolo nella sua vita, ma ha cambiato il mondo. Oggi non andrebbe da nessuna parte». Al grande esperto di cinema, quale film ci dà il senso dell'attesa? «Tutti i film di Alfred Hitchcock, perché la suspence è l'arte dell'attesa. Il problema è che l'attesa è ambigua, non sai mai se ciò che aspetti arriverà».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
Ecco #DimmiLaVerità del 17 settembre 2025. Il nostro Giorgio Gandola commenta le trattative nel centrodestra per la candidatura a presidente in Veneto, Campania e Puglia.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)