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2023-12-19
Vent’anni dopo il crac di Parmalat scomparso il 77% delle stalle italiane
Calisto Tanzi (Ansa)
Era il 15 dicembre del 2003, il castello di carte false costruito da Calisto Tanzi crollava. Vent’anni dopo lo scandalo Parmalat è lecito se non piangere almeno rimpiangere il latte versato? La risposta è sì. Dal crac di Collecchio è uscita stravolta la fisionomia del mercato, sono entrati nuovi protagonisti, chi alleva ha guadagnato sempre meno; l’arrivo di Lactalis ha cambiato i rapporti di forza e la zootecnia italiana soprattutto quella padana e del Nord Italia ha perduto protagonismo economico riversando in gran parte sulle stalle le inefficienze di filiera. Si è molto menato scandalo attorno alle quote latte, frutto anch’esse di una errata scelta politica: fu l’allora ministro agricolo Filippo Maria Pandolfi a barattare quote di produzione in stalla con quote di acciaio, sostenendo che gli onesti avrebbero pagato per colpa dei disonesti ricalcando il cliché della vulgata sull’evasione fiscale, ma la verità è che dopo lo scandalo Parmalat le stalle hanno vissuto anni durissimi.
Lo scandalo di Collecchio - va ricordato che la Parmalat non è mai ufficialmente fallita - ha fatto retrocedere l’Italia da primo protagonista del mercato del latte e dei formaggi a terra di conquista. Per la verità ci aveva già pensato Sergio Cragnotti con il fallimento della Cirio che aveva conquistato in forza dell’assai discussa privatizzazione di Cbd (Cirio Bertolli De Rica) voluta e gestita da Romano Prodi. Lo scandalo Eurolat, quello della Centrale del latte di Roma, i rapporti tra Sergio Cragnotti, Cesare Geronzi e Calisto Tanzi sono stati al centro della distruzione del comparto lattiero. Calisto Tanzi negli anni d’oro comprava e vendeva latte dall’Italia al Brasile, dall’America all’Argentina. Per avere un’idea di cosa ha significato il crac Parmalat basta considerare che nel 2002 un litro di latte si pagava 1,08 euro e dopo 20 anni il prezzo medio del fresco è 1,39 euro con un aumento secondo la stima del Codacons del 28,7%. Questo fino al marzo di quest’anno quando il fresco al supermercato è arrivato a sfiorare i 2 euro. Colpa degli allevatori? Spiega Giovanni Guarneri che per Alleanza cooperative dirige e rappresenta il settore lattiero caseario: «Da giugno 2022 a giugno 2023 il latte è aumentato dell’1,7% alla stalla arrivano a 56 centesimi ma il prezzo non copre i costi: solo i mangimi incidono per oltre 23 centesimi al litro. E però il prezzo finale è cresciuto tra i 10 e il 15%. Ci sarà da riflettere». Oggi l’Italia del latte è sostanzialmente in mano ai francesi. Perché?
Enrico Bondi, chiamato in fretta a gestire il crac, trasforma la Parmalat in public company, sorretto anche da Banca d’Italia. A un anno e mezzo dal disastro la riporta in Borsa e di fatto la espone all’Opa di Lactalis per la quale è un gioco da ragazzi comprarsela: con 4 miliardi i francesi che già si erano comprati la Galbani fanno banco. C’è una coazione a ripetere negativa in questo settore. Come ai tempi della seconda privatizzazione Cbd - la prima vendita della Sme a metà degli anni Ottanta era naufragata perché Prodi aveva cercato di favorire l’offerta di Carlo De Benedetti contro la cordata Ferrero-Barilla-Berlusconi - che il Professore decide di vendere a Carlo Saverio Lamiranda, a capo di un gruppetto di coltivatori lucani, che una volta smembrata la holding la rivende ai soliti noti (Unilever e Cragnotti), la Granarolo (secondo attore del mercato del latte e uno dei primi gruppi cooperativi) tenta con San Paolo di formare una cordata per rilevare la Parmalat, ma Collecchio è già in mano dei francesi. L’errore di Enrico Bondi fu di non indebitare Parmalat: la espose al mercato con un azionariato iperfrazionato e i bilanci in ordine perché il crac Parmalat aveva rivelato due cose, ovvero che il comparto industriale di Tanzi - dagli yogurt ai succhi di frutta, dal latte ai biscotti - era solido e la rete dei fornitori ben gestita e soprattutto che la Parmalat aveva capito in anticipo qual era il punto di crisi del latte, la scarsa durata.
Calisto Tanzi aveva fatto di tutto per far passare la dicitura «Fresco blu» al suo latte che poteva allungare la vita a scaffale a otto giorni. Quella iniziativa nei primi anni Novanta fu boicottata dagli altri produttori, oggi il latte blu è indispensabile per chi imbottiglia. Tanto che Granarolo, il secondo operatore italiano, ha deciso di non produrre più latte fresco. Ma cosa ha determinato l’approdo di Lactalis in Parmalat? Che oggi i francesi sono i padroni non solo del latte ma anche dei formaggi e certamente del parmigiano reggiano. Lactalis ha chiuso il cerchio nel 2019 quando ha delistato Parmalat spostando tutto il quartier generale a Laval, la sede storica di questa holding del «bianco» che controlla il primo gruppo alimentare italiano. Lactalis è di proprietà dei Besnier, una famiglia che nulla fa trapelare del suo business e che da sempre controlla la holding dal quartiere generale nella Mayenne. L’ad di Lactalis Emmanuel Besnier è accreditato di un patrimonio personale di 10 miliardi, il gruppo che dirige nel 2022 ha fatturato 28,3 miliardi di euro. Il 10% di questo fatturato è realizzato in Italia. La capofila è considerata Galbani (1,8 miliardi) ma, ammette lo stesso Emmanuele Besnier, «se non avessimo acquisito Parmalat avremmo solo commercializzato formaggi, avere il nostro latte ci ha consentito uno sviluppo molto più rapido». Lactalis - nel mondo è il primo gruppo caseario: 270 stabilimenti in 51 Paesi, 85.000 dipendenti - ha annunciato investimenti in Italia per 7 miliardi - i suoi marchi Italiani oltre a Galbani e Parmalat sono Invernizzi, Locatelli, Cademartori, Vallelata, Ambrosi, Alival - intanto ha conquistato la leadership nel parmigiano reggiano: acquisendo la Nuova Castelli di Reggio Emilia è il primo distributore ed esportatore del formaggio emblema di Parma con 105.000 forme vendute ogni anno.
Ma per comprendere cosa è realmente successo dopo il crac Parmalat bisogna guardare alle stalle: negli ultimi 14 anni hanno chiuso il 77% degli allevamenti di bovine da latte e il numero dei bovini da latte è diminuito di quasi il 5%. In questi anni si è assistito a un lento deperimento delle centrali del latte. Ci sono gruppi cooperativi che crescono (Trevalli, Arborea, Grifo latte) ma molte aziende devono farei conti con la concentrazione del mercato. È il caso di alcune centrali del latte (quella di Brescia ha avuto però un boom di fatturato) strette nella morsa di aumenti vertiginosi dei costi (17%) e riduzione dei consumi (5%). Quella che in queste settimane si sta confrontando con il «fantasma» della Parmalat è la Centrale del latte di Roma. Il tribunale ha restituito al Comune di Roma le quote che erano in mano a Lactalis dopo una battaglia legale durata 30 anni. Ma ora orfana di Parmalat la Centrale deve ripensarsi. I lavoratori a metà novembre hanno scioperato, gli agricoltori sono sul chi vive: ci sono 30 milioni di litri di latte che venivano lavorati per Parmalat in attesa di un futuro e c’è preoccupazione per il prezzo alla stalla.
E di certo tra questi allevatori c’è chi rimpiange il latte versato.
Vent’anni dopo il crac di Parmalat scomparso il 77% delle stalle italiane
Correva l’anno 2003, dicembre, quando sui giornali italiani piombò il dramma del fallimento di Parmalat. L’8 dicembre si scoprì che i fondi che gravitavano intorno all’azienda non avevano liquidità. Le centinaia di milioni di euro assicurati dai vertici non esistevano. Come non esisteva neppure il conto corrente che, su carta intestata Bank of America, doveva garantire fondi per quasi 4 miliardi di euro in una società chiamata Bonlat. Fu l’inizio di un crack da 13 miliardi di euro, che portò al collasso una delle più importanti industrie agroalimentari italiani. Il 22 dicembre 2003 lo storico fondatore Calisto Tanzi venne iscritto nel registro degli indagati. Fu arrestato cinque giorni dopo. Tornò libero nel settembre del 2004, dopo quasi un anno tra carcere e arresti domiciliari. Dopo un processo durato più di dieci anni, fu condannato a 17 anni di carcere. Tanzi è morto il 1° gennaio 2022, portandosi con sé i ricordi di un’Italia che non esiste più. Quando Parmalat era vista come il latte italiano nel mondo, portando persino il suo marchio sulle maglie di calcio di squadre brasiliane o argentine. Ma Tanzi è anche ricordato per gli anni d’oro di Parma, una città che era diventata il centro d’Europa, quando negli anni Novanta la squadra di Nevio Scala vinceva le Coppe ed era persino la prima avversaria del Milan degli invincibili di Fabio Capello. Tanzi sarebbe potuto diventare persino l’avversario politico di Silvio Berlusconi. Ma le cose sono andate diversamente. Parmalat è comunque sopravvissuta a quegli scandali. La produzione e i lavoratori sono rimasti senza nemmeno troppi scossoni sociali. Persino i sindacati il 4 dicembre di quest’anno hanno organizzato un incontro a Bologna per ricordare quella fase complicata. «È così che è rinata ed è stata rilanciata la nuova Parmalat, oggi parte strategica di un’importante multinazionale come Lactalis», hanno detto all’unisono Cgil, Cisl e Uil raccontando in prima persona l’esperienza del crac finanziario e le vicende che hanno dato continuità all’attività produttiva dell’azienda, che non si è mai interrotta. Nel 2011 l’azienda è stata conquistata dai francesi di Lactalis. A portare avanti l’operazione fu il giovane Emmanuel Besnier, oggi 53 anni, a capo del colosso francese. Lactalis è il decimo gruppo lattiero-caseario al mondo con oltre 80.000 dipendenti e un fatturato 2022 di 28,3 miliardi di euro, in crescita del 28,4% sul 2021. Besnier, terza generazione alla guida della riservatissima Lactalis (società fondata nel 1933 dal nonno André Besnier a Laval, nella regione della Loira), ha accumulato una fortuna. Il suo patrimonio si aggira intorno ai 21 miliardi di dollari. L’operazione di acquisto di Parmalat all’epoca fu molto criticata in Francia come in Italia, vista la centralità strategica del nostro patrimonio agroalimentare. Nella primavera scorsa il magnate aveva visitato gli stabilimenti del gruppo, tra Lombardia ed Emilia-Romagna, da quello della Galbani a Casale Cremasco, al caseificio Tricolore di Reggio Emilia fino alla Parmalat a Collecchio. E al Corriere della Sera ha concesso la sua prima intervista. «Abbiamo 28 stabilimenti che ci rendono il gruppo lattiero-caseario più grande in Italia, che è il Paese dove il gruppo ha la maggiore capacità produttiva dopo la Francia con i suoi 66 stabilimenti», sottolinea Besnier, «Poi l’importanza della filiera con 1.500 allevatori dai quali raccogliamo 1,5 miliardi di litri di latte che trasformiamo in Italia». Besnier aveva parlato anche degli investimenti in Italia che ammontano a «circa 7 miliardi, compresi quelli fatti per far crescere le aziende acquisite, che restituiscono circa 2 miliardi di ricavi solo sul mercato italiano. Poi», ha aggiunto, «ci sono le esportazioni con il made in Italy. Prendiamo Galbani, emblematico: l’abbiamo lanciato negli Stati Uniti e in altri Paesi, la sua attività è raddoppiata ma il suo cuore produttivo e innovativo è rimasto a Corteolona». Tanzi è ormai un ricordo lontano.
«Tanzi ha peccato di vanità. Scandali simili possibili nonostante leggi e controlli»
«L’ultima volta che ho visto Calisto Tanzi doveva incominciar il consiglio di amministrazione di Parmalat che lo avrebbe commissariato con Enrico Bondi. Stava uscendo dal suo ufficio per entrare nella sala del consiglio attraverso una porta elettrica blindata. Appena aperta la porta ho visto che si specchiava e si metteva a posto i capelli. Se c’è una parola per raccontarlo, quella è di sicuro “la vanità” al suo essere imprenditore». L’avvocato Paolo Sciumé ha appena superato gli 80 anni, ma ha una forza e una memoria da trentenne. Siede in una sala riunioni del suo studio legale, non lontano dal Tribunale di Milano. In questi giorni cade il ventesimo anniversario del crack Parmalat, uno dei più grandi scandali che travolse il nostro Paese nel 2003, un’epoca lontanissima ma che con tutta probabilità può essere d’aiuto rileggere per comprendere anche la realtà di oggi. «Era un’altra Italia quella di 20 anni fa. Eravamo al culmine di una fase espansiva del capitalismo evoluto. Sarebbe riduttivo definirla globalizzazione. Vi era una presenza del mercato che sembrava voler essere totalizzante ed esaurire l’orizzonte del vivere. Parmalat era una realtà particolare, aveva una forte forma industriale che precedeva quella finanziaria, peraltro come si è visto perniciosa», ricorda Sciumé, un avvocato cresciuto in Comunione e liberazione con don Luigi Giussani sin dai primi anni Sessanta. «La forma con cui ho conosciuto il cattolicesimo e che costituisce l’appartenenza, cui debbo molto se non tutto, compresa la mia passione per il mio lavoro» diventando un legale di impresa tra i più stimati in Italia. Su Parmalat ha dovuto affrontare diversi processi. A Milano è stato assolto in via definitiva dalle accuse di aggiotaggio, mentre a Parma è stato condannato a due anni per bancarotta, indulto compreso. Ma nel 2019, dopo aver scontato la sua pena, la Corte di Bologna lo ha riabilitato elogiando la sua professionalità «pur a fronte del grave “incidente di percorso”, ormai risalente nel tempo».
Parmalat era già in Borsa dal 1992.
«Tanzi mi aveva chiamato proprio quell’anno, per entrare come amministratore indipendente. Non avevo alcun titolo esecutivo, né avevo fatto parte di organismi di controllo come peraltro non ne ho mai fatto parte successivamente».
La cultura imprenditoriale di allora era differente da quella di adesso.
«Oggi è molto diversa. Si sono moltiplicati i controlli, c’è una fila lunghissima di comitati rischi. Tuttavia, se una persona di cui ti fidi ti consegna un documento falso a te non verrà mai in mente che sia falso. A me hanno spesso contestato che i consiglieri di amministrazione non potevano non sapere di quello che accadeva dentro Parmalat. Ma ricordo che solo nel dicembre del 2003 Bank of America disse che presso la sua sede di New York non esistevano conti intestati a Parmalat…».
Fausto Tonna e Tanzi avevano fornito documenti falsi.
«Tonna semplificava così il lavoro dei revisori. Faceva lui quindi i controlli incrociati, con i risultati che abbiamo visto tutti…».
Potrebbe scoppiare un’altra Parmalat in Italia?
«A fronte di un enorme corpo di legge e controlli, credo che tutt’ora nelle grandi aziende manchi ancora un rapporto con le persone in quanto tale. Il risparmiatore non ha un contatto diretto con gli investitori del capitale. La legge sui Pir non ha avuto grande successo».
Qual è il suo rapporto con la magistratura?
«Diciamo che ho un rapporto dialettico. Ho scontato la mia pena, nel centro immigrati di Pozzallo, un’esperienza interessantissima. Ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La condanna sulla bancarotta si basava sulle stesse accuse di quella per aggiotaggio. C’è un ne bis in idem gigantesco. Le dico solo che ora la magistratura toglie dalle indagini gli amministratori indipendenti».
C’è un problema magistratura in Italia?
«Le spiego come la vedo. Chi mi fece l’interrogatorio, nel marzo del 2004, su Parmalat era il dottor Eugenio Fusco. Era giovane, si vedeva che voleva eccellere. Mi interrogò per 12 ore, chiedendomi che cosa avessi fatto il 9 dicembre, i giorni in cui Enrico Bondi aveva sostituito Tanzi su richiesta delle banche. Mi disse: cosa ha fatto per denunciare Tanzi?».
Lei cosa gli rispose?
«Nel dicembre 2003 nessuno poteva sospettare. Avevo ricevuto il giorno prima le chiamate di Corrado Passera, Pietro Modiano e Giancarlo Abete. Tutti volevano intervenire per salvare l’azienda. Ho spiegato a Fusco che io pensavo solo a come salvare l’azienda cioè a fare il mio dovere di consigliere come feci».
Possibile che nessuno si fosse accorto di quello che stava accadendo?
«Neppure le banche sapevano che la situazione era così tesa. Poi quando Tanzi non riuscì a trovare 150 milioni di euro a fronte di un’azienda che fatturava 4 miliardi all’anno, capirono che c’era qualcosa che non andava…».
E Fusco?
«L’ho incontrato vicino al tribunale poco tempo fa. Gli ho ricordato che alla fine dell’interrogatorio mi disse che potevo difendermi da solo, aggiungendo che riconoscevo che forse era stato un po’ troppo aggressivo come magistrato. Io gli dissi che io non dico mai “sono un avvocato”, ma “faccio l’avvocato”. È che lui mi rispose che anche lui diceva “faccio il magistrato”, non “sono un magistrato”. Nei magistrati vive spesso un pregiudizio, una moralità che sfiora spesso l’ideologia, che spesso agisce senza rispetto tra fatti e norme. Il tempo è della persona e quindi la lunghezza del processo come per me per 16 anni è già una pena. Dovrebbero tener conto del tempo e di chi ne è il proprietario».
I processi le hanno anche procurato diverse conseguenze economiche.
«Nel 2019 mi fu notificata una richiesta di risarcimento da 2 miliardi di euro, un punto di Pil. Ci fu una sentenza di condanna dove tutti i condannati di Parmalat dovevano risarcire il danno senza nessuna distinzione. Ho messo a disposizione di Parmalat tutti i miei beni, anche quelli intestati per fiducia al coniuge. C’è stata una transazione per 150.000 euro, rapportata alla responsabilità dalla Corte d’appello di Bologna che sancisce la mia fisionomia professionale e alla sproporzionalità di pene accessorie».
E ora come si sente?
«Mi sento come un nobile decaduto. Non sono stato condannato per corruzione, ma solo per il principio della possibile conoscibilità. Tutta questa vicenda ha lasciato taluni strascichi. In tanti mi hanno abbandonato, ma il debito regge la vita».
Di Tanzi cosa pensa?
«Non l’ho più visto dopo l’ultimo consiglio di amministrazione. Era una persona che aveva fatto molta beneficenza, aveva grande forza imprenditoriale, ma in lui c’era una vanità di essere protagonista. Nel suo ufficio c’era un tavolo in legno, un fratino moderno con due telefoni. Mentre gli parlavi, lui voleva sapere cosa succedeva a Milano e io di Cl gli raccontavo un po’ la situazione politica, lui alzava il telefono e diceva: “Ciao Ciriaco”».
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L’ex gioiello tricolore è stato rilevato dai francesi. I produttori di latte, stretti fra aumenti dei costi, calo dei consumi e concentrazione del mercato in mano ai colossi, denunciano: «Il prezzo non copre le uscite». La società d’Oltralpe che si è mangiata Collecchio è la prima del settore nel nostro Paese con 66 stabilimenti. L’ad: «Abbiamo lanciato Galbani negli Stati Uniti. L’avvocato allora amministratore indipendente del gruppo, Paolo Sciumé, condannato a due anni per bancarotta: «Se qualcuno di cui ti fidi ti dà un documento non pensi che è falso». Lo speciale contiene tre articoli.Era il 15 dicembre del 2003, il castello di carte false costruito da Calisto Tanzi crollava. Vent’anni dopo lo scandalo Parmalat è lecito se non piangere almeno rimpiangere il latte versato? La risposta è sì. Dal crac di Collecchio è uscita stravolta la fisionomia del mercato, sono entrati nuovi protagonisti, chi alleva ha guadagnato sempre meno; l’arrivo di Lactalis ha cambiato i rapporti di forza e la zootecnia italiana soprattutto quella padana e del Nord Italia ha perduto protagonismo economico riversando in gran parte sulle stalle le inefficienze di filiera. Si è molto menato scandalo attorno alle quote latte, frutto anch’esse di una errata scelta politica: fu l’allora ministro agricolo Filippo Maria Pandolfi a barattare quote di produzione in stalla con quote di acciaio, sostenendo che gli onesti avrebbero pagato per colpa dei disonesti ricalcando il cliché della vulgata sull’evasione fiscale, ma la verità è che dopo lo scandalo Parmalat le stalle hanno vissuto anni durissimi. Lo scandalo di Collecchio - va ricordato che la Parmalat non è mai ufficialmente fallita - ha fatto retrocedere l’Italia da primo protagonista del mercato del latte e dei formaggi a terra di conquista. Per la verità ci aveva già pensato Sergio Cragnotti con il fallimento della Cirio che aveva conquistato in forza dell’assai discussa privatizzazione di Cbd (Cirio Bertolli De Rica) voluta e gestita da Romano Prodi. Lo scandalo Eurolat, quello della Centrale del latte di Roma, i rapporti tra Sergio Cragnotti, Cesare Geronzi e Calisto Tanzi sono stati al centro della distruzione del comparto lattiero. Calisto Tanzi negli anni d’oro comprava e vendeva latte dall’Italia al Brasile, dall’America all’Argentina. Per avere un’idea di cosa ha significato il crac Parmalat basta considerare che nel 2002 un litro di latte si pagava 1,08 euro e dopo 20 anni il prezzo medio del fresco è 1,39 euro con un aumento secondo la stima del Codacons del 28,7%. Questo fino al marzo di quest’anno quando il fresco al supermercato è arrivato a sfiorare i 2 euro. Colpa degli allevatori? Spiega Giovanni Guarneri che per Alleanza cooperative dirige e rappresenta il settore lattiero caseario: «Da giugno 2022 a giugno 2023 il latte è aumentato dell’1,7% alla stalla arrivano a 56 centesimi ma il prezzo non copre i costi: solo i mangimi incidono per oltre 23 centesimi al litro. E però il prezzo finale è cresciuto tra i 10 e il 15%. Ci sarà da riflettere». Oggi l’Italia del latte è sostanzialmente in mano ai francesi. Perché? Enrico Bondi, chiamato in fretta a gestire il crac, trasforma la Parmalat in public company, sorretto anche da Banca d’Italia. A un anno e mezzo dal disastro la riporta in Borsa e di fatto la espone all’Opa di Lactalis per la quale è un gioco da ragazzi comprarsela: con 4 miliardi i francesi che già si erano comprati la Galbani fanno banco. C’è una coazione a ripetere negativa in questo settore. Come ai tempi della seconda privatizzazione Cbd - la prima vendita della Sme a metà degli anni Ottanta era naufragata perché Prodi aveva cercato di favorire l’offerta di Carlo De Benedetti contro la cordata Ferrero-Barilla-Berlusconi - che il Professore decide di vendere a Carlo Saverio Lamiranda, a capo di un gruppetto di coltivatori lucani, che una volta smembrata la holding la rivende ai soliti noti (Unilever e Cragnotti), la Granarolo (secondo attore del mercato del latte e uno dei primi gruppi cooperativi) tenta con San Paolo di formare una cordata per rilevare la Parmalat, ma Collecchio è già in mano dei francesi. L’errore di Enrico Bondi fu di non indebitare Parmalat: la espose al mercato con un azionariato iperfrazionato e i bilanci in ordine perché il crac Parmalat aveva rivelato due cose, ovvero che il comparto industriale di Tanzi - dagli yogurt ai succhi di frutta, dal latte ai biscotti - era solido e la rete dei fornitori ben gestita e soprattutto che la Parmalat aveva capito in anticipo qual era il punto di crisi del latte, la scarsa durata. Calisto Tanzi aveva fatto di tutto per far passare la dicitura «Fresco blu» al suo latte che poteva allungare la vita a scaffale a otto giorni. Quella iniziativa nei primi anni Novanta fu boicottata dagli altri produttori, oggi il latte blu è indispensabile per chi imbottiglia. Tanto che Granarolo, il secondo operatore italiano, ha deciso di non produrre più latte fresco. Ma cosa ha determinato l’approdo di Lactalis in Parmalat? Che oggi i francesi sono i padroni non solo del latte ma anche dei formaggi e certamente del parmigiano reggiano. Lactalis ha chiuso il cerchio nel 2019 quando ha delistato Parmalat spostando tutto il quartier generale a Laval, la sede storica di questa holding del «bianco» che controlla il primo gruppo alimentare italiano. Lactalis è di proprietà dei Besnier, una famiglia che nulla fa trapelare del suo business e che da sempre controlla la holding dal quartiere generale nella Mayenne. L’ad di Lactalis Emmanuel Besnier è accreditato di un patrimonio personale di 10 miliardi, il gruppo che dirige nel 2022 ha fatturato 28,3 miliardi di euro. Il 10% di questo fatturato è realizzato in Italia. La capofila è considerata Galbani (1,8 miliardi) ma, ammette lo stesso Emmanuele Besnier, «se non avessimo acquisito Parmalat avremmo solo commercializzato formaggi, avere il nostro latte ci ha consentito uno sviluppo molto più rapido». Lactalis - nel mondo è il primo gruppo caseario: 270 stabilimenti in 51 Paesi, 85.000 dipendenti - ha annunciato investimenti in Italia per 7 miliardi - i suoi marchi Italiani oltre a Galbani e Parmalat sono Invernizzi, Locatelli, Cademartori, Vallelata, Ambrosi, Alival - intanto ha conquistato la leadership nel parmigiano reggiano: acquisendo la Nuova Castelli di Reggio Emilia è il primo distributore ed esportatore del formaggio emblema di Parma con 105.000 forme vendute ogni anno. Ma per comprendere cosa è realmente successo dopo il crac Parmalat bisogna guardare alle stalle: negli ultimi 14 anni hanno chiuso il 77% degli allevamenti di bovine da latte e il numero dei bovini da latte è diminuito di quasi il 5%. In questi anni si è assistito a un lento deperimento delle centrali del latte. Ci sono gruppi cooperativi che crescono (Trevalli, Arborea, Grifo latte) ma molte aziende devono farei conti con la concentrazione del mercato. È il caso di alcune centrali del latte (quella di Brescia ha avuto però un boom di fatturato) strette nella morsa di aumenti vertiginosi dei costi (17%) e riduzione dei consumi (5%). Quella che in queste settimane si sta confrontando con il «fantasma» della Parmalat è la Centrale del latte di Roma. Il tribunale ha restituito al Comune di Roma le quote che erano in mano a Lactalis dopo una battaglia legale durata 30 anni. Ma ora orfana di Parmalat la Centrale deve ripensarsi. I lavoratori a metà novembre hanno scioperato, gli agricoltori sono sul chi vive: ci sono 30 milioni di litri di latte che venivano lavorati per Parmalat in attesa di un futuro e c’è preoccupazione per il prezzo alla stalla. 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Fu l’inizio di un crack da 13 miliardi di euro, che portò al collasso una delle più importanti industrie agroalimentari italiani. Il 22 dicembre 2003 lo storico fondatore Calisto Tanzi venne iscritto nel registro degli indagati. Fu arrestato cinque giorni dopo. Tornò libero nel settembre del 2004, dopo quasi un anno tra carcere e arresti domiciliari. Dopo un processo durato più di dieci anni, fu condannato a 17 anni di carcere. Tanzi è morto il 1° gennaio 2022, portandosi con sé i ricordi di un’Italia che non esiste più. Quando Parmalat era vista come il latte italiano nel mondo, portando persino il suo marchio sulle maglie di calcio di squadre brasiliane o argentine. Ma Tanzi è anche ricordato per gli anni d’oro di Parma, una città che era diventata il centro d’Europa, quando negli anni Novanta la squadra di Nevio Scala vinceva le Coppe ed era persino la prima avversaria del Milan degli invincibili di Fabio Capello. Tanzi sarebbe potuto diventare persino l’avversario politico di Silvio Berlusconi. Ma le cose sono andate diversamente. Parmalat è comunque sopravvissuta a quegli scandali. La produzione e i lavoratori sono rimasti senza nemmeno troppi scossoni sociali. Persino i sindacati il 4 dicembre di quest’anno hanno organizzato un incontro a Bologna per ricordare quella fase complicata. «È così che è rinata ed è stata rilanciata la nuova Parmalat, oggi parte strategica di un’importante multinazionale come Lactalis», hanno detto all’unisono Cgil, Cisl e Uil raccontando in prima persona l’esperienza del crac finanziario e le vicende che hanno dato continuità all’attività produttiva dell’azienda, che non si è mai interrotta. Nel 2011 l’azienda è stata conquistata dai francesi di Lactalis. A portare avanti l’operazione fu il giovane Emmanuel Besnier, oggi 53 anni, a capo del colosso francese. Lactalis è il decimo gruppo lattiero-caseario al mondo con oltre 80.000 dipendenti e un fatturato 2022 di 28,3 miliardi di euro, in crescita del 28,4% sul 2021. Besnier, terza generazione alla guida della riservatissima Lactalis (società fondata nel 1933 dal nonno André Besnier a Laval, nella regione della Loira), ha accumulato una fortuna. Il suo patrimonio si aggira intorno ai 21 miliardi di dollari. L’operazione di acquisto di Parmalat all’epoca fu molto criticata in Francia come in Italia, vista la centralità strategica del nostro patrimonio agroalimentare. Nella primavera scorsa il magnate aveva visitato gli stabilimenti del gruppo, tra Lombardia ed Emilia-Romagna, da quello della Galbani a Casale Cremasco, al caseificio Tricolore di Reggio Emilia fino alla Parmalat a Collecchio. E al Corriere della Sera ha concesso la sua prima intervista. «Abbiamo 28 stabilimenti che ci rendono il gruppo lattiero-caseario più grande in Italia, che è il Paese dove il gruppo ha la maggiore capacità produttiva dopo la Francia con i suoi 66 stabilimenti», sottolinea Besnier, «Poi l’importanza della filiera con 1.500 allevatori dai quali raccogliamo 1,5 miliardi di litri di latte che trasformiamo in Italia». Besnier aveva parlato anche degli investimenti in Italia che ammontano a «circa 7 miliardi, compresi quelli fatti per far crescere le aziende acquisite, che restituiscono circa 2 miliardi di ricavi solo sul mercato italiano. Poi», ha aggiunto, «ci sono le esportazioni con il made in Italy. Prendiamo Galbani, emblematico: l’abbiamo lanciato negli Stati Uniti e in altri Paesi, la sua attività è raddoppiata ma il suo cuore produttivo e innovativo è rimasto a Corteolona». Tanzi è ormai un ricordo lontano. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ventanni-dopo-il-crac-parmalat-2666666377.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tanzi-ha-peccato-di-vanita-scandali-simili-possibili-nonostante-leggi-e-controlli" data-post-id="2666666377" data-published-at="1703006547" data-use-pagination="False"> «Tanzi ha peccato di vanità. Scandali simili possibili nonostante leggi e controlli» «L’ultima volta che ho visto Calisto Tanzi doveva incominciar il consiglio di amministrazione di Parmalat che lo avrebbe commissariato con Enrico Bondi. Stava uscendo dal suo ufficio per entrare nella sala del consiglio attraverso una porta elettrica blindata. Appena aperta la porta ho visto che si specchiava e si metteva a posto i capelli. Se c’è una parola per raccontarlo, quella è di sicuro “la vanità” al suo essere imprenditore». L’avvocato Paolo Sciumé ha appena superato gli 80 anni, ma ha una forza e una memoria da trentenne. Siede in una sala riunioni del suo studio legale, non lontano dal Tribunale di Milano. In questi giorni cade il ventesimo anniversario del crack Parmalat, uno dei più grandi scandali che travolse il nostro Paese nel 2003, un’epoca lontanissima ma che con tutta probabilità può essere d’aiuto rileggere per comprendere anche la realtà di oggi. «Era un’altra Italia quella di 20 anni fa. Eravamo al culmine di una fase espansiva del capitalismo evoluto. Sarebbe riduttivo definirla globalizzazione. Vi era una presenza del mercato che sembrava voler essere totalizzante ed esaurire l’orizzonte del vivere. Parmalat era una realtà particolare, aveva una forte forma industriale che precedeva quella finanziaria, peraltro come si è visto perniciosa», ricorda Sciumé, un avvocato cresciuto in Comunione e liberazione con don Luigi Giussani sin dai primi anni Sessanta. «La forma con cui ho conosciuto il cattolicesimo e che costituisce l’appartenenza, cui debbo molto se non tutto, compresa la mia passione per il mio lavoro» diventando un legale di impresa tra i più stimati in Italia. Su Parmalat ha dovuto affrontare diversi processi. A Milano è stato assolto in via definitiva dalle accuse di aggiotaggio, mentre a Parma è stato condannato a due anni per bancarotta, indulto compreso. Ma nel 2019, dopo aver scontato la sua pena, la Corte di Bologna lo ha riabilitato elogiando la sua professionalità «pur a fronte del grave “incidente di percorso”, ormai risalente nel tempo».Parmalat era già in Borsa dal 1992. «Tanzi mi aveva chiamato proprio quell’anno, per entrare come amministratore indipendente. Non avevo alcun titolo esecutivo, né avevo fatto parte di organismi di controllo come peraltro non ne ho mai fatto parte successivamente». La cultura imprenditoriale di allora era differente da quella di adesso. «Oggi è molto diversa. Si sono moltiplicati i controlli, c’è una fila lunghissima di comitati rischi. Tuttavia, se una persona di cui ti fidi ti consegna un documento falso a te non verrà mai in mente che sia falso. A me hanno spesso contestato che i consiglieri di amministrazione non potevano non sapere di quello che accadeva dentro Parmalat. Ma ricordo che solo nel dicembre del 2003 Bank of America disse che presso la sua sede di New York non esistevano conti intestati a Parmalat…». Fausto Tonna e Tanzi avevano fornito documenti falsi. «Tonna semplificava così il lavoro dei revisori. Faceva lui quindi i controlli incrociati, con i risultati che abbiamo visto tutti…». Potrebbe scoppiare un’altra Parmalat in Italia?«A fronte di un enorme corpo di legge e controlli, credo che tutt’ora nelle grandi aziende manchi ancora un rapporto con le persone in quanto tale. Il risparmiatore non ha un contatto diretto con gli investitori del capitale. La legge sui Pir non ha avuto grande successo». Qual è il suo rapporto con la magistratura?«Diciamo che ho un rapporto dialettico. Ho scontato la mia pena, nel centro immigrati di Pozzallo, un’esperienza interessantissima. Ho fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La condanna sulla bancarotta si basava sulle stesse accuse di quella per aggiotaggio. C’è un ne bis in idem gigantesco. Le dico solo che ora la magistratura toglie dalle indagini gli amministratori indipendenti».C’è un problema magistratura in Italia? «Le spiego come la vedo. Chi mi fece l’interrogatorio, nel marzo del 2004, su Parmalat era il dottor Eugenio Fusco. Era giovane, si vedeva che voleva eccellere. Mi interrogò per 12 ore, chiedendomi che cosa avessi fatto il 9 dicembre, i giorni in cui Enrico Bondi aveva sostituito Tanzi su richiesta delle banche. Mi disse: cosa ha fatto per denunciare Tanzi?». Lei cosa gli rispose? «Nel dicembre 2003 nessuno poteva sospettare. Avevo ricevuto il giorno prima le chiamate di Corrado Passera, Pietro Modiano e Giancarlo Abete. Tutti volevano intervenire per salvare l’azienda. Ho spiegato a Fusco che io pensavo solo a come salvare l’azienda cioè a fare il mio dovere di consigliere come feci». Possibile che nessuno si fosse accorto di quello che stava accadendo?«Neppure le banche sapevano che la situazione era così tesa. Poi quando Tanzi non riuscì a trovare 150 milioni di euro a fronte di un’azienda che fatturava 4 miliardi all’anno, capirono che c’era qualcosa che non andava…». E Fusco?«L’ho incontrato vicino al tribunale poco tempo fa. Gli ho ricordato che alla fine dell’interrogatorio mi disse che potevo difendermi da solo, aggiungendo che riconoscevo che forse era stato un po’ troppo aggressivo come magistrato. Io gli dissi che io non dico mai “sono un avvocato”, ma “faccio l’avvocato”. È che lui mi rispose che anche lui diceva “faccio il magistrato”, non “sono un magistrato”. Nei magistrati vive spesso un pregiudizio, una moralità che sfiora spesso l’ideologia, che spesso agisce senza rispetto tra fatti e norme. Il tempo è della persona e quindi la lunghezza del processo come per me per 16 anni è già una pena. Dovrebbero tener conto del tempo e di chi ne è il proprietario». I processi le hanno anche procurato diverse conseguenze economiche.«Nel 2019 mi fu notificata una richiesta di risarcimento da 2 miliardi di euro, un punto di Pil. Ci fu una sentenza di condanna dove tutti i condannati di Parmalat dovevano risarcire il danno senza nessuna distinzione. Ho messo a disposizione di Parmalat tutti i miei beni, anche quelli intestati per fiducia al coniuge. C’è stata una transazione per 150.000 euro, rapportata alla responsabilità dalla Corte d’appello di Bologna che sancisce la mia fisionomia professionale e alla sproporzionalità di pene accessorie».E ora come si sente?«Mi sento come un nobile decaduto. Non sono stato condannato per corruzione, ma solo per il principio della possibile conoscibilità. Tutta questa vicenda ha lasciato taluni strascichi. In tanti mi hanno abbandonato, ma il debito regge la vita». Di Tanzi cosa pensa?«Non l’ho più visto dopo l’ultimo consiglio di amministrazione. Era una persona che aveva fatto molta beneficenza, aveva grande forza imprenditoriale, ma in lui c’era una vanità di essere protagonista. Nel suo ufficio c’era un tavolo in legno, un fratino moderno con due telefoni. Mentre gli parlavi, lui voleva sapere cosa succedeva a Milano e io di Cl gli raccontavo un po’ la situazione politica, lui alzava il telefono e diceva: “Ciao Ciriaco”».
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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