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2020-03-09
Vecchio vizio di Conte. Se il suo decreto terrorizza gli italiani «è colpa della Lega»
Caos nella forma e nella sostanza, più un maldestro tentativo di scaricabarile per tentare di allontanare da Palazzo Chigi la responsabilità della fuga di notizie che ha gettato l'Italia nel panico.
Poco dopo le 20.00 di sabato, numerose testate online sono già in grado di anticipare la bozza di decreto. Ecco corriere.it: «Ultim'ora. La decisione: chiuse Lombardia e 11 province del Centro-Nord». E repubblica.it: «Coronavirus, chiusa la Lombardia e altre 11 province». La verità è che chiunque viva nel circuito politico e mediatico ha già ricevuto per vie traverse su whatsapp la bozza del Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri) forse più drammatico dell'intera storia repubblicana. Inevitabile l'immediato rilancio televisivo e il lavoro delle redazioni dei quotidiani, che infatti chiuderanno nella notte scegliendo come titolo principale il decreto, pur se bozza.
Com'è facile prevedere, scatta il panico. Cominciano a girare video della stazione centrale di Milano presa d'assalto da viaggiatori pronti a tutto pur di salire sugli ultimi treni verso il Centro-Sud. Sui social network, alla discussione frenetica si accompagna una lucida consapevolezza: può essere questo il veicolo che fa transitare il virus verso la mezza Italia finora meno colpita. Non solo: da subito si percepiscono incongruenze, una totale vaghezza, e la gigantesca incognita legata ai controlli sulle disposizioni in cantiere.
È facile osservare che il governo, volendo, avrebbe potuto in pochi minuti, già verso le 20.30, diramare una nota di smentita della bozza. Stroncandone del tutto l'attendibilità o diffondendone la versione esatta. Nulla di tutto questo è accaduto.
In tarda serata, fonti di Palazzo Chigi si limitano a preannunciare una conferenza di Giuseppe Conte, che continua a slittare. Ma l'attesa si protrarrà fino alle 2.20 di notte, con il premier che si presenta davanti a una sola giornalista. E purtroppo non dissipa alcun dubbio. Conia la formula incomprensibile del «divieto non assoluto»: «Non abbiamo un divieto assoluto di trasferimento dal Nord alla restante parte del territorio, ma la necessità di motivarlo. C'è una ridotta mobilità». Alla domanda sui controlli, Conte chiama in causa le forze di polizia: «Saranno legittimate a fermare i cittadini e a chiedere spiegazioni». Morale: controlli di fatto casuali, essendo impossibile presidiare militarmente mezza Italia.
Poi il consueto surreale autoelogio: «Abbiamo scelto il criterio della verità e della trasparenza, e ci stiamo muovendo con lucidità, coraggio, fermezza e determinazione».
Quanto alla fuga di notizie, Conte prova a dare la colpa ai media: «È successa una cosa inaccettabile. Un decreto che stavamo formando l'abbiamo letto sui giornali. Ne va della correttezza dell'operato del governo e della sicurezza degli italiani. Questo non lo possiamo accettare».
Per la cronaca, la Gazzetta Ufficiale pubblicherà il Dpcm soltanto alle 13.15 di ieri, domenica, ben 17 ore dopo la fuga di notizie, e 11 ore dopo la conferenza di Conte.
Tutto tempo dedicato - invece - al blame game, al gioco di provare a spostare la colpa del leak lontano da Palazzo Chigi. A sinistra, provano a citare una parte di una nota della Cnn, che chiama in causa l'ufficio stampa della Regione Lombardia. Ma quella nota va letta tutta. Prima punta su Palazzo Chigi, attribuendo la responsabilità a uno stretto consigliere di un ministro («according to a close adviser to one of the ministers attending a Cabinet meeting»), e solo poi evoca anche («also») l'ufficio stampa lombardo, che peraltro diramerà una secca smentita. Inutile girarci intorno: anche al di là di questo singolo caso, è la comunicazione di Palazzo Chigi, che fa capo a Rocco Casalino, ad aver fatto naufragio lungo tutta questa crisi.
Veniamo ai contenuti del Dpcm. Di fatto, l'Italia viene divisa in due parti. Da una parte, un'immensa zona con regole più stringenti: tutta la Regione Lombardia e numerose province di Piemonte (Alessandria, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Vercelli e Asti), Veneto (Venezia, Padova, Treviso), Emilia Romagna (Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia, Modena), Marche (Pesaro e Urbino).
In questa fascia, c'è il vincolo di evitare ogni spostamento delle persone fisiche (quindi le merci possono transitare) in entrata e in uscita dai territori (e al loro interno). Ci si potrà muovere solo «per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, spostamenti per motivi di salute». È consentito tornare presso il proprio domicilio o residenza. Chi abbia più di 37.5 di febbre è fortemente raccomandato (che sia positivo o no) di rimanere presso il proprio domicilio. Sono sospese le competizioni sportive (tranne quelle degli atleti professionisti, ma a porte chiuse), e stop anche a ogni altro evento culturale, fieristico, cinema, teatri, sale bingo, discoteche, scuole, università, cerimonie civili e religiose (funerali inclusi). Quanto a bar e ristoranti, è ammessa l'apertura solo dalle 6 alle 18, ma nel rispetto della distanza di sicurezza di almeno 1 metro, con sospensione dell'attività in caso di violazione.
Per tutto il resto del territorio nazionale, le norme sono meno stringenti. Sono comunque sospesi congressi, riunioni, meeting con coinvolgimento di personale medico e sanitario. Resta la chiusura di scuole e università. Aperti (non solo tra le 6 e le 18, ma anche dopo) bar e ristoranti, ma sempre rispettando la distanza tra i clienti.
La fuga (pericolosa) dei fuori sede. E al Sud li mettono in quarantena
Lasciando trapelare, sabato sera, la bozza del decreto che sigilla la Lombardia, il governo ha prodotto un clamoroso ribaltone storico: per la prima volta, il luogo da cui fuggire è diventato il Nord, la «terra promessa» il Meridione. Non appena ha iniziato a circolare la notizia del provvedimento probabilmente più grave dal dopoguerra, la stazione di Milano Centrale è stata presa d'assalto da lavoratori e studenti del Sud, ansiosi di salire sul primo treno, prima di rimanere prigionieri dentro la zona 1. Peccato che, in assenza di una regia razionale da parte di chi, da un mese a questa parte, inanella autogol comunicativi, questi esuli lasciati in balìa del panico, in quarantena ci finiranno davvero. Nei loro paesi.
Già, perché nella giornata di ieri, la Sicilia, la Puglia, la Campania, l'Abruzzo, il Lazio, la Sardegna, la Basilicata, la Calabria e persino la Toscana hanno annunciato che chiunque arrivi dalle zone interessate dall'ultimo decreto di Palazzo Chigi dovrà comunicarlo ai medici di famiglia o alle Asl competenti e dovrà osservare un periodo di 14 giorni di isolamento fiduciario in casa. Provvedimento severo, ma comprensibile. La fuga di notizie di sabato sera - dopo che per circa 5 giorni si era vociferato di estensioni della zona rossa alla Bergamasca, il che poteva aver già indotto qualcuno a svignarsela - ha allarmato governatori e sindaci delle aree d'Italia fuori dai focolai settentrionali: il timore è che qualcuno dei pendolari possa portare con sé, inconsapevolmente, il virus. Magari in luoghi della Penisola non attrezzati a fronteggiare un'epidemia altrettanto bene della Lombardia, le cui strutture sanitarie, nondimeno, sono adesso sottoposte a una pressione insostenibile.
È proprio a questa terribile eventualità che ha fatto riferimento il rimprovero di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, intervistato ieri da Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, su Rai 3: «La gente che è fuggita l'altra notte è un potenziale rischio per il Paese», ha protestato. Senza contare che la stazione di Milano affollata era esattamente il tipo di assembramento che si doveva evitare a tutti i costi.
Tra i presidenti di Regione, c'è stato chi ha lanciato appelli accorati ai conterranei. Sul sito della Calabria, guidata da Jole Santelli, è apparso un manifesto a caratteri cubitali: «Fermatevi. Non partite. Non tornate. Non tradite la Calabria e i vostri affetti». Michele Emiliano, governatore della Puglia, ha assunto toni drammatici: «Vi parlo come se foste i miei figli, i miei fratelli, i miei nipoti: fermatevi e tornate indietro. Scendete alla prima stazione ferroviaria, non prendete gli aerei per Bari e per Brindisi, tornate indietro con le auto, lasciate l'autobus alla prossima fermata. Non portate nella vostra Puglia l'epidemia lombarda, veneta ed emiliana». Il sindaco di Salerno, Enzo Napoli, ha spedito le ambulanze a controllare la temperatura a chi era arrivato in città con il Flixbus, bloccato in piazza della Concordia e lasciato ripartire per Matera solo dopo che era stato accertato che nessuno dei passeggeri aveva la febbre superiore ai 37,5° (la soglia critica indicata dal decreto di Giuseppe Conte). Alla fine, Attilio Fontana, logicamente tra i più preoccupati per la situazione, ha dovuto provare a minimizzare: «I supermercati saranno sempre riforniti. Non stiamo andando in guerra».
Ieri, complici le denunce di esponenti della maggioranza come Vito Crimi e Alessia Morani, era stato diffuso lo screenshot di un pezzo del Cnn, che chiamava in causa l'ufficio stampa della Regione Lombardia come la fonte che aveva trasmesso la bozza del decreto. Nella versione integrale della prima stesura dell'articolo, però, era menzionato anche uno «stretto collaboratore di uno dei ministri» presenti alla riunione tra i membri dell'esecutivo. Fontana ha poi smentito di essere la «talpa», mentre Conte ha definito «inaccettabile la fuga di notizie sul decreto». La prima agenzia, verso le 19.30 di sabato, era partita da Roma e parlava di un «decreto che l'Ansa ha potuto visionare». Fatto sta che il pasticcio, scatenando il panico e innescando l'esodo, ha rischiato di provocare un'emergenza nell'emergenza.
Intanto, proseguono gli screzi tra enti locali e governo. Il Viminale, in una circolare indirizzata ai suoi rappresentanti territoriali, ha precisato che «non risultano coerenti con il quadro normativo le ordinanze delle Regioni contenti direttive ai prefetti», i quali rispondono «unicamente all'autorità nazionale». Un rimbrotto a Regioni e Comuni, entrati più volte in attrito con Conte durante la crisi del coronavirus, specialmente in merito ai provvedimenti di chiusura delle scuole. Così, da un lato va censurata l'irresponsabilità dei «profughi dell'aperitivo», che fino a sabato hanno affollato i locali di Milano e poi sono fuggiti prima della serrata definitiva, verso le città natie, dove un po' di movida resiste. Ma dall'altro, lascia di sale un governo che sta lasciando l'Italia come nave senza nocchiero.
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Riduci
La chiusura del Nord è sui siti per ore senza smentite. Pd e M5s accusano la Lombardia, ma lo spiffero viene dal Palazzo Chigi.La fuga (pericolosa) dei fuori sede. E al Sud li mettono in quarantena. Lavoratori e studenti di Milano e dintorni, incuranti dei rischi sanitari, assaltano treni e autobus notturni. Nove presidenti impongono l'isolamento. Il pugliese Michele Emiliano (Pd): «Non portateci l'epidemia lombarda».Lo speciale contiene due articoli. Caos nella forma e nella sostanza, più un maldestro tentativo di scaricabarile per tentare di allontanare da Palazzo Chigi la responsabilità della fuga di notizie che ha gettato l'Italia nel panico. Poco dopo le 20.00 di sabato, numerose testate online sono già in grado di anticipare la bozza di decreto. Ecco corriere.it: «Ultim'ora. La decisione: chiuse Lombardia e 11 province del Centro-Nord». E repubblica.it: «Coronavirus, chiusa la Lombardia e altre 11 province». La verità è che chiunque viva nel circuito politico e mediatico ha già ricevuto per vie traverse su whatsapp la bozza del Dpcm (Decreto del presidente del Consiglio dei ministri) forse più drammatico dell'intera storia repubblicana. Inevitabile l'immediato rilancio televisivo e il lavoro delle redazioni dei quotidiani, che infatti chiuderanno nella notte scegliendo come titolo principale il decreto, pur se bozza. Com'è facile prevedere, scatta il panico. Cominciano a girare video della stazione centrale di Milano presa d'assalto da viaggiatori pronti a tutto pur di salire sugli ultimi treni verso il Centro-Sud. Sui social network, alla discussione frenetica si accompagna una lucida consapevolezza: può essere questo il veicolo che fa transitare il virus verso la mezza Italia finora meno colpita. Non solo: da subito si percepiscono incongruenze, una totale vaghezza, e la gigantesca incognita legata ai controlli sulle disposizioni in cantiere. È facile osservare che il governo, volendo, avrebbe potuto in pochi minuti, già verso le 20.30, diramare una nota di smentita della bozza. Stroncandone del tutto l'attendibilità o diffondendone la versione esatta. Nulla di tutto questo è accaduto. In tarda serata, fonti di Palazzo Chigi si limitano a preannunciare una conferenza di Giuseppe Conte, che continua a slittare. Ma l'attesa si protrarrà fino alle 2.20 di notte, con il premier che si presenta davanti a una sola giornalista. E purtroppo non dissipa alcun dubbio. Conia la formula incomprensibile del «divieto non assoluto»: «Non abbiamo un divieto assoluto di trasferimento dal Nord alla restante parte del territorio, ma la necessità di motivarlo. C'è una ridotta mobilità». Alla domanda sui controlli, Conte chiama in causa le forze di polizia: «Saranno legittimate a fermare i cittadini e a chiedere spiegazioni». Morale: controlli di fatto casuali, essendo impossibile presidiare militarmente mezza Italia. Poi il consueto surreale autoelogio: «Abbiamo scelto il criterio della verità e della trasparenza, e ci stiamo muovendo con lucidità, coraggio, fermezza e determinazione». Quanto alla fuga di notizie, Conte prova a dare la colpa ai media: «È successa una cosa inaccettabile. Un decreto che stavamo formando l'abbiamo letto sui giornali. Ne va della correttezza dell'operato del governo e della sicurezza degli italiani. Questo non lo possiamo accettare». Per la cronaca, la Gazzetta Ufficiale pubblicherà il Dpcm soltanto alle 13.15 di ieri, domenica, ben 17 ore dopo la fuga di notizie, e 11 ore dopo la conferenza di Conte. Tutto tempo dedicato - invece - al blame game, al gioco di provare a spostare la colpa del leak lontano da Palazzo Chigi. A sinistra, provano a citare una parte di una nota della Cnn, che chiama in causa l'ufficio stampa della Regione Lombardia. Ma quella nota va letta tutta. Prima punta su Palazzo Chigi, attribuendo la responsabilità a uno stretto consigliere di un ministro («according to a close adviser to one of the ministers attending a Cabinet meeting»), e solo poi evoca anche («also») l'ufficio stampa lombardo, che peraltro diramerà una secca smentita. Inutile girarci intorno: anche al di là di questo singolo caso, è la comunicazione di Palazzo Chigi, che fa capo a Rocco Casalino, ad aver fatto naufragio lungo tutta questa crisi. Veniamo ai contenuti del Dpcm. Di fatto, l'Italia viene divisa in due parti. Da una parte, un'immensa zona con regole più stringenti: tutta la Regione Lombardia e numerose province di Piemonte (Alessandria, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Vercelli e Asti), Veneto (Venezia, Padova, Treviso), Emilia Romagna (Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia, Modena), Marche (Pesaro e Urbino). In questa fascia, c'è il vincolo di evitare ogni spostamento delle persone fisiche (quindi le merci possono transitare) in entrata e in uscita dai territori (e al loro interno). Ci si potrà muovere solo «per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, spostamenti per motivi di salute». È consentito tornare presso il proprio domicilio o residenza. Chi abbia più di 37.5 di febbre è fortemente raccomandato (che sia positivo o no) di rimanere presso il proprio domicilio. Sono sospese le competizioni sportive (tranne quelle degli atleti professionisti, ma a porte chiuse), e stop anche a ogni altro evento culturale, fieristico, cinema, teatri, sale bingo, discoteche, scuole, università, cerimonie civili e religiose (funerali inclusi). Quanto a bar e ristoranti, è ammessa l'apertura solo dalle 6 alle 18, ma nel rispetto della distanza di sicurezza di almeno 1 metro, con sospensione dell'attività in caso di violazione. Per tutto il resto del territorio nazionale, le norme sono meno stringenti. Sono comunque sospesi congressi, riunioni, meeting con coinvolgimento di personale medico e sanitario. Resta la chiusura di scuole e università. Aperti (non solo tra le 6 e le 18, ma anche dopo) bar e ristoranti, ma sempre rispettando la distanza tra i clienti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vecchio-vizio-di-conte-se-il-suo-decreto-terrorizza-gli-italiani-e-colpa-della-lega-2645433337.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-fuga-pericolosa-dei-fuori-sede-e-al-sud-li-mettono-in-quarantena" data-post-id="2645433337" data-published-at="1765636441" data-use-pagination="False"> La fuga (pericolosa) dei fuori sede. E al Sud li mettono in quarantena Lasciando trapelare, sabato sera, la bozza del decreto che sigilla la Lombardia, il governo ha prodotto un clamoroso ribaltone storico: per la prima volta, il luogo da cui fuggire è diventato il Nord, la «terra promessa» il Meridione. Non appena ha iniziato a circolare la notizia del provvedimento probabilmente più grave dal dopoguerra, la stazione di Milano Centrale è stata presa d'assalto da lavoratori e studenti del Sud, ansiosi di salire sul primo treno, prima di rimanere prigionieri dentro la zona 1. Peccato che, in assenza di una regia razionale da parte di chi, da un mese a questa parte, inanella autogol comunicativi, questi esuli lasciati in balìa del panico, in quarantena ci finiranno davvero. Nei loro paesi. Già, perché nella giornata di ieri, la Sicilia, la Puglia, la Campania, l'Abruzzo, il Lazio, la Sardegna, la Basilicata, la Calabria e persino la Toscana hanno annunciato che chiunque arrivi dalle zone interessate dall'ultimo decreto di Palazzo Chigi dovrà comunicarlo ai medici di famiglia o alle Asl competenti e dovrà osservare un periodo di 14 giorni di isolamento fiduciario in casa. Provvedimento severo, ma comprensibile. La fuga di notizie di sabato sera - dopo che per circa 5 giorni si era vociferato di estensioni della zona rossa alla Bergamasca, il che poteva aver già indotto qualcuno a svignarsela - ha allarmato governatori e sindaci delle aree d'Italia fuori dai focolai settentrionali: il timore è che qualcuno dei pendolari possa portare con sé, inconsapevolmente, il virus. Magari in luoghi della Penisola non attrezzati a fronteggiare un'epidemia altrettanto bene della Lombardia, le cui strutture sanitarie, nondimeno, sono adesso sottoposte a una pressione insostenibile. È proprio a questa terribile eventualità che ha fatto riferimento il rimprovero di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma, intervistato ieri da Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, su Rai 3: «La gente che è fuggita l'altra notte è un potenziale rischio per il Paese», ha protestato. Senza contare che la stazione di Milano affollata era esattamente il tipo di assembramento che si doveva evitare a tutti i costi. Tra i presidenti di Regione, c'è stato chi ha lanciato appelli accorati ai conterranei. Sul sito della Calabria, guidata da Jole Santelli, è apparso un manifesto a caratteri cubitali: «Fermatevi. Non partite. Non tornate. Non tradite la Calabria e i vostri affetti». Michele Emiliano, governatore della Puglia, ha assunto toni drammatici: «Vi parlo come se foste i miei figli, i miei fratelli, i miei nipoti: fermatevi e tornate indietro. Scendete alla prima stazione ferroviaria, non prendete gli aerei per Bari e per Brindisi, tornate indietro con le auto, lasciate l'autobus alla prossima fermata. Non portate nella vostra Puglia l'epidemia lombarda, veneta ed emiliana». Il sindaco di Salerno, Enzo Napoli, ha spedito le ambulanze a controllare la temperatura a chi era arrivato in città con il Flixbus, bloccato in piazza della Concordia e lasciato ripartire per Matera solo dopo che era stato accertato che nessuno dei passeggeri aveva la febbre superiore ai 37,5° (la soglia critica indicata dal decreto di Giuseppe Conte). Alla fine, Attilio Fontana, logicamente tra i più preoccupati per la situazione, ha dovuto provare a minimizzare: «I supermercati saranno sempre riforniti. Non stiamo andando in guerra». Ieri, complici le denunce di esponenti della maggioranza come Vito Crimi e Alessia Morani, era stato diffuso lo screenshot di un pezzo del Cnn, che chiamava in causa l'ufficio stampa della Regione Lombardia come la fonte che aveva trasmesso la bozza del decreto. Nella versione integrale della prima stesura dell'articolo, però, era menzionato anche uno «stretto collaboratore di uno dei ministri» presenti alla riunione tra i membri dell'esecutivo. Fontana ha poi smentito di essere la «talpa», mentre Conte ha definito «inaccettabile la fuga di notizie sul decreto». La prima agenzia, verso le 19.30 di sabato, era partita da Roma e parlava di un «decreto che l'Ansa ha potuto visionare». Fatto sta che il pasticcio, scatenando il panico e innescando l'esodo, ha rischiato di provocare un'emergenza nell'emergenza. Intanto, proseguono gli screzi tra enti locali e governo. Il Viminale, in una circolare indirizzata ai suoi rappresentanti territoriali, ha precisato che «non risultano coerenti con il quadro normativo le ordinanze delle Regioni contenti direttive ai prefetti», i quali rispondono «unicamente all'autorità nazionale». Un rimbrotto a Regioni e Comuni, entrati più volte in attrito con Conte durante la crisi del coronavirus, specialmente in merito ai provvedimenti di chiusura delle scuole. Così, da un lato va censurata l'irresponsabilità dei «profughi dell'aperitivo», che fino a sabato hanno affollato i locali di Milano e poi sono fuggiti prima della serrata definitiva, verso le città natie, dove un po' di movida resiste. Ma dall'altro, lascia di sale un governo che sta lasciando l'Italia come nave senza nocchiero.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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