
In una sola giornata i contorsionismi della moviola hanno condotto a decisioni molto discutibili per Milan, Torino e Como. Gli arbitri (che sono un po’ come i giudici) devono cedere una quota di potere e dare alle panchine la chance di invocare il replay. Il pallone in manicomio. Non solo per le falangi che annullano una pallagol, i polpastrelli che provocano un rigore, il palmo aperto ritenuto colpevole o innocente a seconda della luna dell’arbitro. Alla vigilia della volata finale della stagione, il calcio vive una scarica di schizofrenia causata dagli errori sempre più assurdi e clamorosi dei direttori di gara, che in un mondo digitale dominato dal Var riescono a prendere decisioni spannometriche come ai tempi di Concetto Lo Bello. È un’annata grama, non c’è squadra che non lamenti un carnet di torti. E ciò che è accaduto nell’ultima tornata di campionato in Empoli-Milan (espulsione surreale di Fikayo Tomori), Como-Juventus (penalty negato ai lariani), Torino-Genoa (tonnara finale con proteste granata) fa risalire dai tombini l’odore antico di retropensieri e complotti. Dai torti alle torte, per il tifoso sotto stress il passo è breve. Eppure dovrebbe esserci il Var, la macchina della verità che in tempo reale risolve al ralenty situazioni ingarbugliate. Questo solo in teoria. Essendo gestito più o meno a rotazione dagli stessi arbitri che vanno in campo, il marchingegno sconta limiti e mediocrità di questi ultimi, che lo usano in modo difforme, talvolta casuale, calpestando il protocollo per salvaguardare l’ego ipertrofico da fischietto in bocca. Le uniche certezze sono l’annullamento di un gol per fuorigioco di naso o di unghia (alla faccia del tanto sbandierato «spirito del gioco») e la certificazione se un pallone ha superato o no la linea di porta. Tutto il resto dipende ancora dagli dei. Vale a dire dagli arbitri, impegnati in una malinconica battaglia di retroguardia per difendere le loro prerogative da pubblici ufficiali. O come sosteneva il saggio Paolo Casarin in un’intervista alla Verità: «Sono gelosi della macchina e faticano a cedere una fetta di potere». Per uscire dall’equivoco servono due spallate: il Var a chiamata da parte degli allenatori e la separazione delle carriere che eviti (come per i pm) commistioni fra chi fischia e chi giudica il fischio.Oggi i pasticci arbitrali sono sempre più imbarazzanti poiché milioni di tifosi davanti agli schermi ultrapiatti vedono in 4k la verità oggettiva dell’azione incriminata, non si capacitano delle chiamate lunari o delle non-chiamate in nome del «micro-contatto» ad minchiam (copyright Franco Scoglio) o del «braccio in dinamica». E finiscono per voltare le spalle alla terza azienda del Paese (4,5 miliardi di fatturato), schifati dalla pornografia lessicale usata dai vertici per coprire errori e vanità. Di fronte allo scempio, mentre Zlatan Ibrahimovic accende legittimamente l’ultimo incendio («Ciò che è successo non è accettabile, serve più rispetto per il Milan, manderemo una lettera di protesta all’Aia»), ecco le proposte che affiorano dalla palude. Vale la pena spiegarne la filosofia.La prima è il Var a chiamata, quel «challenge» in uso nel tennis, nel basket, nel volley che supera ogni imbarazzo nel rapporto fra direttori di gara e varisti. In caso di situazioni molto dubbie su azioni decisive (un rigore, un’espulsione, un gol contestato) ogni squadra dovrebbe avere due carte da giocare per chiedere all’arbitro di andare a rivedere l’episodio al rallentatore. Dopodiché decide lui come sempre, quindi la vanità di casta è salva, ma lo fa con gli stessi strumenti tecnologici utilizzati dal tifoso sul divano. Bisogna aggiungere che il calcio sta timidamente andando in questa direzione e quello italiano potrebbe diventare il campionato pilota della sperimentazione. Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ha infatti scritto all’Ifab - l’organo internazionale deputato a modificare le regole - manifestando la volontà dell’Italia di fare da apripista alla riforma. «Vogliamo dare il nostro contributo per migliorare il calcio allo scopo di rendere il gioco sempre più attrattivo e spettacolare, soprattutto per i giovani. Sappiamo che il percorso verso l’innovazione deve essere condiviso e poi realizzato, ma se non si comincia non si arriverà mai a modificare lo status quo». Per scardinare in modo definitivo le vischiosità psicologiche fra arbitri in campo e arbitri al Var (i primi infastiditi dall’invasività dei secondi, i secondi attenti a non urtare la suscettibilità dei primi perché domenica prossima potrebbero invertirsi i ruoli) sarebbe utile anche la separazione delle carriere. Esattamente come prevede la riforma del ministro Carlo Nordio nel campo minato della giustizia, osteggiata (e te credo) dai pm per un identico motivo: la perdita di potere davanti al controllo di un ente davvero «terzo». L’obiezione passatista a questa rivoluzione è facile da prevedere: se un arbitro non ha provato afrori e dinamiche del campo di gioco non può giudicare davanti a un televisore. Sciocchezze, allora tanto varrebbe arruolare ex calciatori che, oltre ad aver frequentato per anni le partite «da dentro», hanno vissuto sulla loro pelle gli errori arbitrali. Ed oggi, nelle trasmissioni tv, li giudicano con maggiore equilibrio e competenza.L’unica cosa da evitare è l’immobilismo che fa crescere i sospetti e riporta il pallone al manicomio di stagioni impresentabili, per fortuna alle spalle. È curioso notare che la schizofrenia arbitrale non riguarda solo l’Italia. La scorsa settimana perfino il Real Madrid si è lamentato per un presunto complotto parlando di «sistema manipolato» e «arbitri screditati che falsificano la realtà». Aveva semplicemente perso una partita. Ma si sa che i blancos hanno un altro, personalissimo e insuperabile problema: la lesa maestà.
Dario Fabbri (Ansa)
L’esperto Dario Fabbri: «Se l’Ucraina in futuro cambiasse regime, diventerebbe un cavallo di Troia dei russi. La corruzione? A quelle latitudini è normale. Putin ha ottenuto solo vittorie tattiche, adesso gli serve la caduta di Zelensky».
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 novembre con Flaminia Camilletti
Benjamin Netanyahu (Ansa)
Colpi sulle forze Onu in Libano. Gerusalemme: «Abbiamo confuso i soldati per sospetti a causa del maltempo». E l’esercito avverte: «Se necessario operazioni a Gaza».
Ennesimo attacco alle stazioni Unifil in Libano da parte dell’Idf, ennesimo rimpallo di responsabilità. «Le forze israeliane (Idf) hanno aperto il fuoco contro peacekeeper di Unifil da un tank Merkava nei pressi di una postazione allestita da Israele in territorio libanese» ha denunciato Unifil ieri mattina, precisando che «i colpi sono arrivati a circa cinque metri dai peacekeeper, che erano a piedi» e sono stati costretti a mettersi al riparo. «I caschi blu hanno chiesto alle Idf di cessare il fuoco tramite i canali di collegamento di Unifil. Sono riusciti ad allontanarsi in sicurezza circa trenta minuti dopo, quando il carro armato Merkava si è ritirato all'interno della postazione delle Idf. Fortunatamente nessuno è rimasto ferito». Poco dopo l’Idf si è difeso chiarendo di non aver «sparato deliberatamente» contro le forze di pace delle Nazioni Unite in Libano. Hanno affermato di aver scambiato i soldati per «sospetti» a causa «delle cattive condizioni meteorologiche».
Un volo breve, un dirottatore Naif e un mistero ancora irrisolto. Ecco la storia del terrorista a bordo di Northwest 305.






