Dalle chiacchiere da bar alle chiacchiere da Var, il calcio italiano è riuscito in un’impresa sulla carta titanica: introdurre uno strumento tecnologico per ridurre gli errori arbitrali e le conseguenti polemiche, sospetti e veleni, e ottenere l’effetto opposto, ovvero moltiplicare gli errori arbitrali, aggiungendo a quelli dei fischietti in campo quelli dei colleghi in sala monitor, e moltiplicare così polemiche, sospetti e veleni. L’episodio del calcio d’angolo assegnato all’Inter dal quale è scaturito l’autogol del vantaggio nerazzurro lunedì sera sulla Fiorentina è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: Bastoni crossa quando il pallone ha superato la linea di fondo di almeno 20 centimetri. Il Var? Non può intervenire perché il protocollo non lo consente. Risultato: quella immagine viene pubblicata milioni di volte sui social, sui siti e sui giornali, il clima diventa mefitico. Ieri La Verità ha rilanciato una proposta di puro buon senso e trasparenza: introdurre il Var a chiamata. Dare la possibilità all’allenatore o al capitano di una squadra di chiedere l’intervento del Var per un certo numero di volte in ogni match, richiamare l’arbitro al video e avere almeno la soddisfazione di sgomberare il campo da quella frase, «ma almeno valla a vedere!», che è entrata a far parte del lessico comune del popolo del pallone italiano. Tiziano Pieri, ex arbitro di Serie A, ieri ha messo il timbro dell’addetto ai lavori su questa proposta: «La soluzione migliore», ha detto Pieri, in riferimento alle feroci polemiche sugli arbitraggi, «è introdurre il Var a chiamata del quale si parla già da un po’. Il capitano o l’allenatore, una sola volta per tempo, può chiedere una on field review». Lo stesso Pierluigi Collina, icona dei fischietti globali, in una intervista a Repubblica, pur senza entrare nel merito della questione, ha suggerito di introdurre delle riforme. Certo, l’ok dovrebbe arrivare dall’ International Football Association Board, ma le resistenze sono tutte del sistema italiano, con il designatore Gianluca Rocchi contrario: «È chiaro che il Var a chiamata deresponsabilizza molto», ha detto Rocchi lo scorso 27 dicembre a Radio 1, «mettendo la responsabilità della chiamata in capo al club o all’allenatore». Secondo Rocchi, quindi, vanno nella direzione sbagliata i vertici internazionali di basket, hockey, karate, pallavolo, tennis, scherma, baseball e pure la Nfl, la leggendaria lega del football americano, che appena tre giorni fa ha celebrato l’evento del super bowl. Qui un coach non convinto della regolarità di un’azione al termine di questa lancia in campo un fazzoletto rosso e chiama l’arbitro al video per il cosiddetto «challenge». Può farlo per due volte a partita, che diventano tre se nelle prime due l’arbitro cambia decisione dopo aver rivisto l’azione. Negli ultimi due minuti, non si possono chiamare challenge per evitare che vengano usati per perdere tempo. Una procedura evidentemente troppo trasparente e lineare per essere adottata dal calcio italiano.
Il pallone in manicomio. Non solo per le falangi che annullano una pallagol, i polpastrelli che provocano un rigore, il palmo aperto ritenuto colpevole o innocente a seconda della luna dell’arbitro. Alla vigilia della volata finale della stagione, il calcio vive una scarica di schizofrenia causata dagli errori sempre più assurdi e clamorosi dei direttori di gara, che in un mondo digitale dominato dal Var riescono a prendere decisioni spannometriche come ai tempi di Concetto Lo Bello.
È un’annata grama, non c’è squadra che non lamenti un carnet di torti. E ciò che è accaduto nell’ultima tornata di campionato in Empoli-Milan (espulsione surreale di Fikayo Tomori), Como-Juventus (penalty negato ai lariani), Torino-Genoa (tonnara finale con proteste granata) fa risalire dai tombini l’odore antico di retropensieri e complotti. Dai torti alle torte, per il tifoso sotto stress il passo è breve. Eppure dovrebbe esserci il Var, la macchina della verità che in tempo reale risolve al ralenty situazioni ingarbugliate. Questo solo in teoria. Essendo gestito più o meno a rotazione dagli stessi arbitri che vanno in campo, il marchingegno sconta limiti e mediocrità di questi ultimi, che lo usano in modo difforme, talvolta casuale, calpestando il protocollo per salvaguardare l’ego ipertrofico da fischietto in bocca.
Le uniche certezze sono l’annullamento di un gol per fuorigioco di naso o di unghia (alla faccia del tanto sbandierato «spirito del gioco») e la certificazione se un pallone ha superato o no la linea di porta. Tutto il resto dipende ancora dagli dei. Vale a dire dagli arbitri, impegnati in una malinconica battaglia di retroguardia per difendere le loro prerogative da pubblici ufficiali. O come sosteneva il saggio Paolo Casarin in un’intervista alla Verità: «Sono gelosi della macchina e faticano a cedere una fetta di potere». Per uscire dall’equivoco servono due spallate: il Var a chiamata da parte degli allenatori e la separazione delle carriere che eviti (come per i pm) commistioni fra chi fischia e chi giudica il fischio.
Oggi i pasticci arbitrali sono sempre più imbarazzanti poiché milioni di tifosi davanti agli schermi ultrapiatti vedono in 4k la verità oggettiva dell’azione incriminata, non si capacitano delle chiamate lunari o delle non-chiamate in nome del «micro-contatto» ad minchiam (copyright Franco Scoglio) o del «braccio in dinamica». E finiscono per voltare le spalle alla terza azienda del Paese (4,5 miliardi di fatturato), schifati dalla pornografia lessicale usata dai vertici per coprire errori e vanità. Di fronte allo scempio, mentre Zlatan Ibrahimovic accende legittimamente l’ultimo incendio («Ciò che è successo non è accettabile, serve più rispetto per il Milan, manderemo una lettera di protesta all’Aia»), ecco le proposte che affiorano dalla palude. Vale la pena spiegarne la filosofia.
La prima è il Var a chiamata, quel «challenge» in uso nel tennis, nel basket, nel volley che supera ogni imbarazzo nel rapporto fra direttori di gara e varisti. In caso di situazioni molto dubbie su azioni decisive (un rigore, un’espulsione, un gol contestato) ogni squadra dovrebbe avere due carte da giocare per chiedere all’arbitro di andare a rivedere l’episodio al rallentatore. Dopodiché decide lui come sempre, quindi la vanità di casta è salva, ma lo fa con gli stessi strumenti tecnologici utilizzati dal tifoso sul divano. Bisogna aggiungere che il calcio sta timidamente andando in questa direzione e quello italiano potrebbe diventare il campionato pilota della sperimentazione. Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ha infatti scritto all’Ifab - l’organo internazionale deputato a modificare le regole - manifestando la volontà dell’Italia di fare da apripista alla riforma. «Vogliamo dare il nostro contributo per migliorare il calcio allo scopo di rendere il gioco sempre più attrattivo e spettacolare, soprattutto per i giovani. Sappiamo che il percorso verso l’innovazione deve essere condiviso e poi realizzato, ma se non si comincia non si arriverà mai a modificare lo status quo».
Per scardinare in modo definitivo le vischiosità psicologiche fra arbitri in campo e arbitri al Var (i primi infastiditi dall’invasività dei secondi, i secondi attenti a non urtare la suscettibilità dei primi perché domenica prossima potrebbero invertirsi i ruoli) sarebbe utile anche la separazione delle carriere. Esattamente come prevede la riforma del ministro Carlo Nordio nel campo minato della giustizia, osteggiata (e te credo) dai pm per un identico motivo: la perdita di potere davanti al controllo di un ente davvero «terzo». L’obiezione passatista a questa rivoluzione è facile da prevedere: se un arbitro non ha provato afrori e dinamiche del campo di gioco non può giudicare davanti a un televisore. Sciocchezze, allora tanto varrebbe arruolare ex calciatori che, oltre ad aver frequentato per anni le partite «da dentro», hanno vissuto sulla loro pelle gli errori arbitrali. Ed oggi, nelle trasmissioni tv, li giudicano con maggiore equilibrio e competenza.
L’unica cosa da evitare è l’immobilismo che fa crescere i sospetti e riporta il pallone al manicomio di stagioni impresentabili, per fortuna alle spalle. È curioso notare che la schizofrenia arbitrale non riguarda solo l’Italia. La scorsa settimana perfino il Real Madrid si è lamentato per un presunto complotto parlando di «sistema manipolato» e «arbitri screditati che falsificano la realtà». Aveva semplicemente perso una partita. Ma si sa che i blancos hanno un altro, personalissimo e insuperabile problema: la lesa maestà.
Dario Hubner è il simbolo del centravanti di provincia che ha nel fiuto per il gol la sua caratteristica principale. Insieme a Igor Protti, è l’unico calciatore che si è aggiudicato il titolo di capocannoniere delle tre massime categorie italiane: nel 1991/92 con il Cesena in serie C1 (13 gol), nel 1995/96 con il Brescia in Serie B (22 gol), nel 2001/02 con il Piacenza in Serie A (24 gol).
Perché l’Italia ha tanta difficoltà a trovare buoni centravanti?
«Credo che il primo motivo sia che oggi nelle squadre primavera italiane ci sono moltissimi stranieri. Nelle primavere di quando giocavamo noi, su 20 giocatori 18 erano italiani. Oggi, purtroppo, gli stranieri sono la maggioranza. Il problema inizia da qui».
E l’arrivo dall’estero di centravanti per la serie A?
«Sicuramente, ma quelli già maturi è un conto, mentre la carenza di giovani è un altro. Ai miei tempi quasi tutte le società professionistiche di Serie A e B avevano almeno un centravanti cresciuto in casa, oggi la maggior parte delle squadre prendono stranieri di 17 e 18 anni che giocano nelle formazioni primavera».
Che senso ha?
«È una domanda che andrebbe fatta ai dirigenti, forse il costo è minore, ma la verità è questa. Se guardiamo le formazioni delle squadre primavera, notiamo quanti stranieri ci sono, mentre se torniamo indietro a 30 anni fa le squadre primavera sia dei club maggiori che di quelli meno blasonati erano composte quasi totalmente da italiani. Su 100 attaccanti, 5 o 6 buoni ne uscivano, mentre oggi sono molti meno e fa fatica anche a uscirne uno».
Tu chi reputi oggi il miglior attaccante italiano?
«Sicuramente Immobile, ma inizia ad avere una certa età e subisce qualche infortunio. Sta uscendo un po’ Scamacca, Belotti magari andando alla Fiorentina ora potrà giocare un po’ di più e dimostrare il suo valore, però non abbiamo tantissima scelta. Quando giocavo io in Serie A c’erano Vieri, Inzaghi, Del Piero, Totti. Restavano a casa attaccanti come Montella, che faceva 15 gol all’anno in serie A. Quest’anno, se guardiamo gli attaccanti italiani vediamo Scamacca, Raspadori, bravi ma giovani. Se vuoi vincere qualcosa a livello internazionale ci vogliono attaccanti di esperienza».
Il tuo rapporto con la nazionale?
«È stato quello di un tifoso. Non ci sono mai andato, sono stato vicino ma come ho detto all’epoca era difficilissimo battere la concorrenza di tutti gli attaccanti forti che avevamo. Per andare in nazionale dovevi aver fatto almeno 200 presenze in serie A, oggi è più facile arrivarci perché la concorrenza è minore».
Che pensi di Spalletti?
«È un allenatore che ha sempre fatto bene nella sua carriera, sa lavorare benissimo con il gruppo e può far bene. Ricordo però una frase molto semplice che ha detto Carlo Ancelotti: è meglio un allenatore scarso con una squadra forte che un allenatore forte con una squadra scarsa. Spalletti è bravo, ma deve avere un gruppo di giocatori forti se vuole centrare qualche obiettivo importante. Anche il miglior allenatore del mondo senza una squadra forte non vince niente».
In questi ultimi due anni c’è stata la tendenza di molti attaccanti ad andare a giocare in Arabia. Ora molti tornano indietro perché la vita da quelle parti è molto diversa che da noi. Che ne pensi?
«È una decisione personale, ognuno è libero di fare quello che vuole. Sicuramente capita che ciò che era stato promesso non viene mantenuto. Un giocatore a fine carriera che vuole prendere molti soldi fa anche bene ad andare, i giovani un po’ meno. Dipende dalle valutazioni di ciascuno: magari un ragazzo di 22 anni va lì per un paio di stagioni, si mette a posto e poi torna in Europa».
Tu ci saresti andato?
«Una volta che ci vai, devi accettare tutto, per cui se devo prendere 1 milione di euro in Italia e me ne danno 4 in Arabia…».
Il giocatore più forte con il quale hai giocato?
«Ho avuto con me Pirlo, che era giovane ma già un fenomeno. Poi ho giocato con Baggio e con tantissimi campioni. Ricordo anche calciatori fortissimi che non hanno avuto enorme successo come Poggi, Dolcetti, Scarafoni».
Gli assist migliori chi te li faceva?
«Pirlo, ma citarne uno è troppo riduttivo».
Il miglior allenatore incontrato?
«Ne ho avuti tanti, e penso che ognuno mi abbia lasciato qualcosa. Qualche nome: Mazzone, Novellino, Sonetti».
Anche ai tuoi tempi c’era tutta questa attenzione agli schemi?
«Tatticamente si lavorava sempre, occorreva conoscere nel dettaglio il modo in cui giocava la squadra avversaria. La differenza era che non c’erano tutte queste statistiche, dal possesso palla ai passaggi giusti o sbagliati. Oggi alla fine delle partite tutti vanno a controllare i dati, ai miei tempi si giocava più tranquilli. Contava il risultato e la prestazione che avevi fatto, nessuno andava a vedere la percentuale dei passaggi giusti».
Il giocatore più forte contro il quale hai giocato?
«Sicuramente Ronaldo il Fenomeno. Lo dico sempre: quello che faceva in campo non era umano. Potenza, scatto, pallone incollato al piede in rapidità, incredibile. Ho giocato contro Zidane, Del Piero, Totti e tantissimi altri, però per me lui non era di un altro pianeta».
Il difensore più difficile da superare? Il più duro?
«Il più duro? Pensa che mi sono trovato ad affrontare Mihajilovc, Stam, Nesta, Samuel. Ogni domenica c’era uno forte contro».
Il gioco era più ruvido di adesso, senza il Var e tante moviole?
«Era un calcio diverso, dove l’aspetto fisico contava molto di più. Una trattenuta minima, una entrata duretta non era quasi mai considerata fallo, per essere ammoniti bisognava entrare pesanti. Adesso al minimo tocco danno rigore, al primo fallo scatta l’ammonizione, era un calcio più maschio diciamo».
Si dice spesso che il calcio italiano è quello più esasperato tatticamente, era così anche ai tuoi tempi?
«Il calcio italiano è da sempre molto tattico. Si lavorava per difendersi bene e ripartire in contropiede, Il calcio italiano è sempre stato molto organizzato. Si era organizzati, non è che si andava ognuno per conto suo».
Oggi i procuratori fanno il bello e il cattivo tempo. Hanno troppo potere?
«Sicuramente contavano anche ai miei tempi. Chi aveva un procuratore che conosceva bene i dirigenti era avvantaggiato, senza alcun dubbio. Certo per farti un contratto le società guardavano le cose di campo, non quanti followers avevi su Instagram come oggi. Era tutto molto semplice: si badava a quante presenze e quanti gol avevi fatto l’anno prima».
Quindi pensi che oggi anche il seguito abbia un valore?
«Credo di sì».
Il rapporto con gli arbitri?
«C’erano arbitri con i quali potevi parlare e altri no. Io con gli arbitri ho sempre avuto un rapporto buono, a volte mandavo io a quel paese loro, a volte loro mandavano a quel paese me, dipendeva da chi sbagliava. Mi è capitato diverse volte di vedermi annullare un gol che secondo me era regolare, oppure di subire un fallo che secondo me era da rigore. Io protestavo e dicevo “arbitro ma questo era rigore”, l’arbitro rispondeva “Dario io ho visto così”. Era un dialogo positivo».
Sei ancora adesso un mito del calcio di provincia, ma hai avuto la possibilità di fare una tournée col Milan. Quali ricordi hai?
«Ho fatto 12 giorni bellissimi, ricordo una società che era avanti 10 anni rispetto alle altre. Te ne rendevi conto già quando entravi a Milanello, un centro sportivo perfetto».
L’anno scorso il Napoli ha vinto lo scudetto con mesi di anticipo, oggi galleggia a metà classifica: come te lo spieghi?
«L’anno scorso Spalletti è riuscito a tirare fuori il 110% da tutti i giocatori. Ha avuto un anno anche favorevole, con la Juve che regalava punti, il Milan e l’Inter che non tenevano il passo. Sono quei famosi anni in cui ti va bene tutto».
Chi è stato il più grande giocatore della storia del calcio?
«Pelè non me lo ricordo, Maradona l’ho visto. Oggi Maradona avrebbe fatto quattro volte quello che è riuscito a fare all’epoca sua. Con il modo in cui lo marcavano, i falli che gli facevano, oggi le squadre avversarie finirebbero in sette, oppure lui farebbe quattro gol a partita».
Il campionato estero che guardi con più piacere?
«Il campionato inglese: vanno a mille all’ora, mi piace molto».
«Alla fine a bordo ci è salito lui». Nel salone Garibaldi (il Transatlantico del Senato), passa Gregorio De Falco e qualcuno non riesce a trattenersi la battuta. Colui che, intimando a Francesco Schettino di non abbandonare la Costa Concordia che stava affondando, divenne tanto famoso da essere eletto senatore con M5s per poi abbandonare il gruppo grillino, ha trovato ieri sera l'ultimo approdo nella pattuglia dei nuovi «responsabili», evocati e inseguiti in modo ossessivo negli ultimi giorni dal premier Giuseppe Conte e dai suoi emissari. Con lui, si sono imbarcati in questa avventura politica dalla base numerica esile e dagli esiti politici incerti, i personaggi più eterogenei, che hanno avuto, nell'ilarità generale, la «benedizione» di Domenico Scilipoti, presente per lunghi tratti a Palazzo Madama e impaziente di vedere di persona le gesta dei suoi emuli. Il risultato, però, non è stato esaltante: numeri a dir poco ballerini, maggioranza assoluta non raggiunta e uno scarto con l'opposizione che rende la caduta possibile a ogni stormir di fronde. Alla fine i sì sono 156 (140 i no e 16 gli astenuti).
La giornata non ha regalato momenti drammatici o siparietti in Aula, a differenza della frizzante seduta di lunedì a Montecitorio, dove il presidente di turno è dovuto più volte intervenire per sedare urla o far rimuovere gli striscioni. Era d'altra parte lecito attendersi che il premier Giuseppe Conte ripetesse sostanzialmente il discorso fatto alla Camera e così è stato, e ciò ha tolto ulteriore interesse a un dibattito che si è protratto stancamente per tutta la giornata. Mentre la vera partita si giocava nei meandri dei corridoi del Palazzo o sulle chat protette, Conte ha svolto il compitino impegnando l'emiciclo, come lunedì, per circa un'ora. In cima ai suoi pensieri, dunque, anche ieri c'è stato l'appello urbi et orbi a puntellare la sua traballante maggioranza, con annesse possibilità di progressione in carriera a livello di governo a Parlamento per i peones che volessero seguirlo. «Chiediamo un appoggio limpido», ha detto Conte, «un appoggio trasparente, che si fondi sulla convinta adesione a un progetto politico», ma non ha potuto glissare sull'importanza del passaggio al Senato: «I numeri sono importanti, oggi lo sono ancor di più, questo è un passaggio fondamentale nella vita istituzionale del nostro Paese ed è ancora più importante la qualità del progetto politico». Una messa a punto, poi, sulle parole spese il giorno prima rispetto all'ipotesi di una nuova legge elettorale, per le quali è stato accusato di aver offerto in modo disinvolto e scavalcando il Parlamento, un vantaggio ai partitini centristi. Parole che però sono apparse più come una excusatio non petita e non hanno fatto breccia nell'uditorio: «Leggo interpretazioni maliziose», ha affermato il premier, «negli anni passati abbiamo vissuto la frantumazione della rappresentanza, si sono affermati nuovi partiti in modo nuovo e prorompente, se vogliamo ricomporre il quadro non è possibile farlo con una legge che costringa sensibilità diverse nello stesso involucro». Marcia indietro pure sulla minaccia dello spread, visto che ieri, a governo traballante, aveva aperto in calo. La correzione di rotta più sostanziale, ai più, è sembrata quella sulla collocazione internazionale dell'Italia, all'indomani delle dure critiche dell'opposizione (e di qualche mugugno nella maggioranza) per l'improbabile equiparazione tra i rapporti con gli Usa e quelli con la Cina. Su questo tasto Conte, con uno zelo verosimilmente dovuto al «peccato originale» della tiepida condanna dei fatti di Capitol Hill, ha battuto molto: «Guardiamo con grande attenzione alla presidenza Biden con cui inizieremo a lavorare subito a partire dalla nostra presidenza del G20. Abbiamo una ampia agenda in comune che spazia dal multilateralismo, alla transazione verde e digitale». Non arretra di fronte a Renzi, presente in Aula e pronto a intervenire, continuando a non nominarlo ma affondando il colpo: «È complicato governare», ha detto Conte, «con chi dissemina mine nella maggioranza, con chi ti accusa di immobilismo e di correre troppo, di non decidere e di decidere troppo», per poi rincarare la dose nella replica, nel tardo pomeriggio: «Avete scelto la strada dello scontro e degli attacchi mediatici, nessuno può avere la pretesa della verità, delle soluzioni migliori nell'interesse del Paese».
Ed è proprio nell'intervento del suo antagonista Matteo Renzi, i cui parlamentari hanno confermato l'astensione, che il dibattito d'Aula ha avuto il picco di interesse, con le parole al vetriolo di quest'ultimo, che ha parlato di «mercato indecoroso delle poltrone». «Mi auguro», ha detto ancora Renzi, «che sia almeno una maggioranza perché raccogliticcia lo è sicuramente». Parole dure anche dal leader della Lega e dell'opposizione, Matteo Salvini, che ha parlato non di «responsabili», bensì di «complici per non perdere la poltrona», chiudendo tra le proteste dei grillini, per aver ricordato una frase choc di Beppe Grillo contro gli stessi senatori a vita (applauditissima Liliana Segre) che oggi hanno sostenuto Conte, ricordando che il Garante del M5s li definì gente che «muore mai o muore troppo tardi». Prima di loro, erano intervenuti per assicurare il sostegno al governo, tra gli altri, l'ex premier Mario Monti, l'ex presidente della Camera, Pierferdinando Casini, il senatore Tommaso Cerno, che ha colto l'occasione per annunciare il rientro nel Pd e il citato De Falco. Poi, l'arrivo alla spicciolata degli altri «neo volenterosi». Colpo di teatro finale, la rissa sul voto di Lello Ciampolillo del Misto: mentre Elisabetta Casellati, che aveva chiesto se c'era qualcuno che ancora doveva votare, annunciava il termine delle operazioni, lui s'è fatto avanti. Seduta sospesa, poi vengono ammessi i due voti al fotofinish: il suo e quello di Riccardo Nencini.
Poco edificante il quadro d'insieme della nuova compagine giallorossa, che già da oggi sarà alle prese con il nuovo scostamento di bilancio. Iv ha già assicurato che non farà mancare i suoi voti, ma senza soccorsi esterni, i voti ottenuti al Senato non basteranno dato che, per l'approvazione di questo provvedimento, sarà necessaria la maggioranza assoluta. «Se non ci sono i numeri», ha detto Conte, «si va casa». Non servirà molto per capire se ha bluffato.
Sta sconquassando, speriamo non definitivamente, il mondo del calcio, già tormentatissimo: si chiama il Var (è corretta la formulazione maschile, come ha stabilito anche l'Accademia della crusca, tuttavia molti insistono a citarlo al femminile), ovvero il Video assistente arbitrale. Traduzione dall'inglese di Video assistant referee (arbitro). In parole più povere, la moviola - invocata da lustri - che aiuta, più precisamente: dovrebbe aiutare, gli arbitri delle partite di calcio a prendere giuste decisioni, grazie alla possibilità di una verifica televisiva immediata.
Problemi risolti? Purtroppo, assolutamente no. L'ultimo devastante episodio riguarda il derby tra Torino e Juventus: il difensore bianconero Matthjis De Light tocca il pallone con il braccio, ma l'arbitro Daniele Doveri non concede il rigore alla squadra granata (che alla fine perde per 0-1). In una partita precedente, a Lecce, lo stesso De Light aveva allontanato - analogamente - il pallone con un braccio e l'arbitro Paolo Valeri aveva assegnato il rigore alla squadra pugliese. A seguire, dopo i due episodi (e molti altri) polemiche roventi, che di certo non si spegneranno, anzi prevedibilmente si moltiplicheranno.
Nelle intenzioni di chi ha deciso di introdurlo, il Var avrebbe dovuto portare giustizia e certezza di giudizi, nelle partite di calcio. Non è stato affatto così. Al contrario: le polemiche dilagano. Per molte ragioni, a mio parere le principali sono queste:
1 il regolamento non è chiaro;
2 alcuni arbitri, forse scontenti per aver perduto la facoltà di decidere senza vigilanze televisive si comportano come vogliono, senza cura per le regole;
3 le decisioni sono contraddittorie, vedi gli episodi di Lecce-Juventus e subito dopo di Torino-Juventus;
4 non è chiaro quando l'arbitro possa, o debba, ricorrere al Var;
5 ciliegina sulla torta, l'irriducibilità dei tifosi, anche di fronte all'evidenza.
Cosa si può fare, allora, per evitare che lo sport più amato dagli italiani diventi sempre meno credibile e rischi di essere rovinato dagli errori arbitrali? Prima decisione da prendere: il sorteggio totale per le designazioni nelle varie partite. Oggi, spesso infischiandosi del Var, gli arbitri indispettiscono i giocatori e il pubblico assai più di prima. Non credo che gli arbitri siano diffusamente corrotti. Però i club hanno la facoltà di considerare «indesiderabili» alcuni arbitri, non graditi. E questa assurdità porta la maggioranza degli arbitri a una (consapevole o no) sudditanza psicologica verso i club più potenti e popolari. È umano, direi: chi di noi, se fossimo arbitri, vorrebbe essere escluso dalla possibilità di dirigere Juventus-Inter o Milan-Roma, ed essere invece designato a partitine di seconda o terza fascia? Il sorteggio eliminerebbe questo problema: ricordo che fu applicato solo due volte e lo scudetto andò al Verona e alla Sampdoria, club rispettabili, ma non certo tra i più potenti nel Palazzo del calcio. Semplice coincidenza?
Ma torniamo al Var, che sta infuocando gli animi, anziché tranquillizzarli. Una decisione immediata dovrebbe essere quella di attribuire agli allenatori la possibilità di chiedere l'intervento televisivo almeno due volte durante la partita. Come succede in altri sport. E con la televisione, visibile per tutti, come nel tennis (per verificare se la pallina è dentro o fuori) o nella pallavolo. Questa regola ridurrebbe l'arroganza, o la noncuranza, di certi arbitri, che a volte ignorano le scorrettezze più gravi e plateali, senza neanche sentire la necessità di rivolgersi alla moviola. Bisognerebbe poi rendere più chiaro, divulgandolo, il regolamento, oggi complicato e astruso anche per gli addetti ai lavori.
Infine, un dubbio e un paradosso. Il dubbio: i grandi club (direi abitualmente privilegiati) come reagirebbero di fronte all'esigenza di una maggior trasparenza? Il paradosso: si va allo stadio per vedere la partita da vicino, finirà che tutto sarà deciso dalla televisione e quindi potremo restare comodamente a casa sul divano (fantozzianamente: pizza, birra e rutto libero).






