È il simbolo universale dello spionaggio, al femminile. Con episodi e aspetti romanzeschi. Fu l'amante di principi e altri personaggi nobili, di grandi militari, di uomini celebri nel mondo. Fu indagata e condannata a morte per tradimento, in Francia, come spia che agiva a favore della Germania, durante la prima guerra mondiale, nel 1917. Al momento della fucilazione Mata Hari (Leeuwarden, in Olanda, 7 agosto 1876 - Vincennes, in Francia, 15 ottobre 1917) mostrò grande dignità e indiscutibile coraggio. Non volle essere bendata, e aveva indossato uno dei suoi abiti più eleganti, con uno splendido cappellino in testa. Aveva scelto un abito grigio perla, con corsetto di pizzo, tricorno e cappotto blu. Romanzesca la sua fine: il plotone di esecuzione, secondo le usanze, agì presso il castello di Vincennes. Degli undici colpi sparati contro di lei, otto andarono a vuoto, uno la colpì al ginocchio, uno al fianco, il terzo, fatale, al cuore. Nessuno reclamò la sua salma, che fu sepolta in una fossa comune. «Non abbiate paura per me, sorella. Saprò morire. State per assistere a una bella morte». Con queste parole Mata Hari si congedò da suor Marie, la monaca che l'aveva assistita nella prigione di Saint-Lazare, carcere femminile del X arrondissement di Parigi, e le fu vicina fino all'ultimo.
La prima curiosità, al di là della sua leggendaria qualità seduttiva, riguarda l'avvenenza fisica: era bella, la celebre spia, era sexy? E in che misura?
Mata Hari, di origine malese (il nome significa «l'occhio dell'alba», quindi il sole), era molto diversa dalle connazionali olandesi: carnagione olivastra, quasi scura, capelli neri, occhi neri e penetranti, 1.78 di altezza (per l'epoca quindi molto alta), magra, aria esotica, non bellissima, ma sinuosa e sensuale: risultava, a tutti, immediatamente affascinante. Il Times scrisse di lei: «Un'avvenenza che sconfina nell'incredibile, con una figura dal fascino strano e dalle movenze di una belva divina che si conduca in una foresta incantata». Si affermò come ballerina. Durante le sue esibizioni era vestita con sottili veli traslucidi, poi se ne spogliava, lasciandoli cadere a terra uno dopo l'altro, finché non le rimanevano addosso solo i gioielli orientali che amava e, a volte, una maglia dello stesso colore della pelle. Il suo show consisteva nello spogliarsi lentamente, tuttavia lei non mostrò mai il seno nudo. Appariva evidente il suo disagio. Ma perché, qual era il motivo? Mata Hari affermò perfino, un giorno, che il suo violento marito le aveva, addirittura strappato i capezzoli, in un impeto di gelosia. Ma si trattava di una bugia. La verità è che le cupole di bronzo ingioiellate, che mascheravano i suoi seni durante gli spettacoli, dovevano nasconderne le dimensioni minuscole.
Il successo di danzatrice provocò una curiosità cui lei non poté sottrarsi e fece coincidere l'immagine privata con quella pubblica: «Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - raccontò ai giornalisti, tra poche verità e numerose menzogne - «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India... ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Viṣṇu e della dea Kālī.... persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio... la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti è terribile... conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene».
Mata Hari - hanno scritto - è l'impersonificazione della definizione tutta francese de La Vraie Vie, la vita vera, fatta di momenti di bellezza indicibile e di profonda depressione, di lealtà e di tradimenti, di paure e di momenti calmi e tranquilli.
Stratega, tattica, invidiata, spesso odiata, e sempre dotata di profondità, sensibilità e in perenne speranza nei confronti dell'Amore, come si deduce da un estratto dei suoi scritti:
«C'è un mito greco che mi ha sempre affascinato e che, penso abbia molti elementi che ricorrono nella vostra storia, perlomeno in una variante adottata presso alcuni popoli: “Amore e Psiche". Ogniqualvolta ripenso a questo mito, mi domando: potremo mai scorgere il vero volto dell'amore? E comprendo ciò che i greci intendevano insegnare con quella storia: l'amore è un atto di fede nell'altro, e il suo volto misterioso deve restare sempre celato. Bisogna vivere ogni momento con trasporto ed emozione perché, se cerchiamo di decifrarlo e comprenderlo, la magia di quel sentimento supremo scompare».
Margaretha Geertruida Zelle, era questo il vero nome di Mata Hari, nacque in una cittadina del nord dei Paesi Bassi nel 1876, figlia di Heer Adam Zelle - proprietario di una bottega di cappelli, di un mulino e di una fattoria - e di Antje var der Meulen. Grazie al lavoro paterno, la famiglia Zelle poteva permettersi di vivere in un sontuoso palazzo al centro della città, ma ben presto il padre di Margaretha fallì e dichiarò bancarotta e la madre, gravemente malata, morì nel 1890. Costretta a lasciare la casa natale, viene mandata dal padrino a Sneek e poi spedita a Leida, in un collegio per future maestre.
Orfana, dopo la morte della mamma e senza un papà che l'aveva abbandonata per fuggire con un'altra donna, viene espulsa un paio d'anni dopo per aver avuto una relazione con il preside. A 18 anni, annoiata e infelice, risponde a un annuncio di matrimonio pubblicato sul giornale da un ufficiale, un certo Rudolph MacLeod. Ma non cambiò nulla dopo il sì. L'ufficiale, molto più anziano di lei, aveva pochi soldi, molti debiti e un buon numero di storie extraconiugali. Dopo la morte del primo figlio, di appena due anni, andò via. Nel 1902 arrivò la separazione, poi il divorzio. Con Rudolph la futura Mata Hari si era trasferita nell'isola di Sumatra, in Indonesia. Ma Margaretha era abituata agli agi europei. Ai rapporti inquieti con il marito, spesso brutale, si aggiunge la perdita di uno dei due figli, Norman, morto all'improvviso, probabilmente avvelenato. Margaretha sprofonda nella depressione e il marito decide di chiedere per la famiglia il trasferimento in un'isola vicina, Giava. Ed ecco la prima svolta: una sera viene invitata ad assistere a uno spettacolo di balli tradizionali. L'eleganza dei movimenti dei danzatori giavesi incanta e travolge Margaretha. E nasce Mata Hari.
Margaretha torna a casa dello zio all'Aia. Ma anche in Olanda resta poco e nel marzo del 1903 si trasferisce a Parigi. È la stagione sfavillante della Belle Époque.
Margaretha Zelle nei teatri e nei bar di Parigi trova la fortuna. Anche se non ha soldi, fa la modella, balla in teatri di pessimo livello, si prostituisce. Nel febbraio del 1905 la vera svolta: casualmente entra in casa della cantante Kiréevsky, che organizzava spettacoli di beneficenza, per vecchi e nuovi ricchi. Quella notte, la prima per Mata Hari, si esibisce in una danza seducente sfilandosi lentamente i veli che vestono il suo corpo fino a rimanere quasi del tutto nuda. È un successo insperato e imprevedibile: tutta la Parigi gaudente parla e spettegola della donna misteriosa che dice di venire da remote zone del mondo. Mata Hari, furbissima, arricchisce il proprio passato con episodi intriganti... Ed esplode la sua fama, dal Trocadero al Café des Nationes, dall'Olympia al Moulin Rouge. Fino all'estero: nel 1906 una tournée in Spagna diventa un grande trionfo. Viene definita la «donna che è lei stessa la danza», l'«artista sublime», che «riesce a dare il senso più profondo e struggente dell'anima indiana». Irrompe sulle prime pagine di tutta Europa ed è desiderata dagli uomini più ricchi, molti sono suoi devoti amanti che riempiono le camere in cui alloggia, che la sommergono di costosissimi regali. Questa favola è interrotta dalla prima guerra mondiale: per Mata Hari, la perdita di ogni bene.
Nomade, apolide e in ristrettezze economiche, vive grazie alla beneficenza dei suoi amanti: un banchiere, un colonnello degli ussari olandesi, un maggiore dell'esercito belga e un capitano dell'aviazione russa. L'ennesima svolta avviene con la frequentazione del console tedesco Alfred von Kremer, anch'egli suo amante, che le propone di diventate una spia dell'Impero austro-ungarico. Lei accetta, più per desiderio e necessità di denaro che per le sorti dell'Austria-Ungheria, e viene arruolata nelle file segrete del Kaiser.
È addestrata prima a Berlino e poi ad Anversa sotto la guida della misteriosa Fräulein Doktor, ovvero Elsbeth Schragmüller, una delle prime donne laureate in Germania e considerata una delle spie più importanti durante la Prima guerra mondiale.
Mata Hari ha il compito di ottenere informazioni in Olanda e soprattutto in Francia per riferirle ai tedeschi: il nome in codice che le viene assegnato è agente H21. Margaretha si trasforma di nuovo, è una spia: giunta in Francia, vuole guadagnare ancor di più arruolandosi anche per i servizi segreti francesi e fornendo loro informazioni riguardanti il fronte nemico. Una doppia vita, pericolosa, con rapporti segreti con due nazioni avversarie. Spionaggio e controspionaggio.
Sarà la sua fine. Su di lei sono puntati i servizi segreti di tre paesi: i Deuxième Bureau di Parigi, i primi a insospettirsi e a pedinarla, gli Abteilung di Berlino e infine i Secret Intelligence Service di Londra. I tedeschi sono i primi ad avere le prove del suo tradimento e vogliono che anche i francesi la scoprano per eliminarla.
La fine arriva nel 1917, quando viene arrestata con l'accusa di spionaggio in favore della Germania. Al processo le uniche prove presentate erano quelle che dimostravano il suo stile di vita «immorale»: uno dei poliziotti incaricati di pedinarla a Parigi raccontò delle sue spese folli e dei suoi vari amanti.
Processo rapido, a porte chiuse. Dichiarata colpevole e condannata a morte. Quattro giorni dopo la fucilazione, anche Georges Ladoux, l'uomo che aveva ripetuto con monotona durezza il suo j'accuse, fu arrestato per spionaggio a favore della Germania.
Per quali motivazioni fu giustiziata Mata Hari? Probabilmente solo per una pura e cruda ragion di stato: dopo la battaglia di Verdun, occorreva spiegare come mai l'intelligence francese non avesse compreso le mosse del nemico.
Quindi, era necessario offrire capri espiatori all'opinione pubblica, che aveva iniziato a criticare ferocemente capi militari e autorità politiche, vista la disperata situazione sociale e economica della Francia.
Mata Hari fu arrestata nella camera 131 del Palace Hotel, al n. 103 degli Champs Elisées. Una curiosità sulla fucilazione. Come mai otto colpi, su undici, andarono a vuoto? Imperizia, incapacità, clemenza dei soldati? No: un fucile, secondo la regola, era caricato a salve perché ogni soldato potesse pensare di non essere stato lui a tirare il colpo mortale.
Di Silvana Pampanini mantengo un ricordo piacevole, incancellabile. Più di vent'anni fa ebbi l'incarico di intervistarla e scriverne a lungo. La invitai a cena. Era un settembre ancora tiepido, il mite congedo, a Roma, dal violento caldo di agosto. Quando arrivammo al ristorante Il Bolognese, in piazza del Popolo, frequentato dalle persone famose e come sempre da tante altre che vogliono vedere a due passi di distanza le persone famose, sentii gli occhi di tutti su di noi.
Che importa l'età? Silvana Pampanini è stata una delle donne più belle del mondo, miss Italia nel 1946, interprete di decine di film che hanno turbato (senza nudo e senza volgarità) i desideri segreti di milioni di maschi vogliosi. E quel giorno, come sempre, era una diva: perché, come è noto, divi si nasce.
Alta e forse altera, magra, imperiosa, ingioiellata, un imponente casco di capelli, gli occhi enormi incuriositi da tutto, sorrideva, salutava e si muoveva come se fosse in palcoscenico, con le luci dei riflettori accese sulle sue memorabili curve.
L'avevo appena conosciuta e già ne ero conquistato. Mi invitò a darci subito del tu. Silvana era una donna allegra, coinvolgente, di simpatia irresistibile. Liquidò le ordinazioni rapidamente. Adorava il bollito, ma rinunciò perché non c'era la testina, di cui era soprattutto ghiotta. Intanto spazzolava via, con prese rapide e regali, un piatto di mortadella, in quadratini, che Il Bolognese offre ai suoi clienti, per ingannare l'attesa (e, siccome ero occupato a prendere appunti, si scusava e ironizzava per i miei sguardi invidiosi). Pasta, carne e lambrusco freddo. E mai un'intervista è filata via, come quella volta, libera e sincera, tra la suggestione dei ricordi, le battute, le staffilatine alle rivali di ieri e alle eredi del momento, la voglia di togliersi fastidiosi sassolini dalle scarpe: con coinvolgente allegria e qualche inevitabile attimo di malinconia.
Se ricordo bene - era una mia curiosità da sempre - le chiesi subito chi l'avesse chiamata, per primo, Nini Pampan.
«II direttore del Figaro, che voleva fare un titolo scherzoso. I giornali mi volevano bene. Mio padre, Francesco, era direttore della tipografia dove si stampava Il Momento sera di Realino Carboni, un quotidiano popolare di Roma, spesso irriverente. Ai miei esordi pubblicarono una recensione simpatica su di me, poi i giornalisti dissero a mio padre: “Non sapevamo che fosse tua figlia, non sapevamo che avessi una figlia cosi bella!". E mio padre, che era stato anche un grosso pugile, agitò le mani: “Se ne aveste scritto male, avreste dovuto fare i conti con queste". II bello è che mio padre non voleva che facessi spettacolo. Papà non voleva, mamma nemmeno, come dice la canzone, e al concorso di Miss Italia, che allora si teneva a Stresa, arrivai timidamente: per la prima volta, pensa un po', con i tacchi alti e le calze lunghe. Una ragazzina che scatenò un finimondo».
Ecco cos'era successo: una giuria aveva premiato un'altra ragazza e il pubblico si scatenò per protesta: pugni, spintoni, le sedie che volavano… Furono costretti a rifare il verdetto e a proclamare Silvana vincitrice ex aequo, ma neanche questo bastò a riportare la calma.
Silvana ha fatto girare la testa a milioni di uomini, ma non si è mai sposata. «Vedi, io penso che il matrimonio sia una cosa seria. E bisognerebbe sposarsi solo per amore e io ho avuto tanti corteggiatori, ma non li ho mai né sfruttati né accettati».
Chissà che ebbrezza e che senso di potere, sentire sempre il desiderio degli uomini. «Non posso negarlo. A parte gli attori e i produttori, quelli dell'ambiente, mi corteggiavano anche alcuni capi di Stato… Mi viene in mente Jimenez, il presidente del Venezuela. E Fidel Castro». Fascinoso? «Macché. Troppa barba».
Nell'ambiente, però, chissà quanti flirt. «Mai». Vorresti dire che hai frequentato gli attori più attraenti e brillanti e non hai mai avuto un flirt? «Che vuol dire flirt? Se dici fare l'amore, avere una storia: mai. Se dici un bacetto, una cosetta: vabbè, si». È incredibile! «Senti: io sono di una famiglia per bene, di principi sani e antichi, come si dice. E Ii ho mantenuti. Ho pubblicato un libro sulla mia vita e ho voluto dargli questo titolo: Scandalosamente per bene. Avrò fatto tanto scandalo, ma sono per bene». Mica fare l'amore con un attore amico significa essere per male. «Ah, no. L'amore si fa solo se si è innamorati. E io mi sono vietata di fare l'amore con personaggi dello spettacolo, di innamorarmi di loro, perché capivo subito che si trattava di cose fragili.... Ho avuto i miei innamoramenti, i miei amori. Ma mai fino al punto di sposarmi. Una sola volta sono arrivata al limite del matrimonio…». Ho voluto saperne di più. «Lui è morto, un mese prima delle nozze. Era gelosissimo. Ma di Silvana, di Silvanella come mi chiamavano gli intimi, non della diva. Ho sempre in mente i suoi occhi con i riflessi verdi…». Le chiesi anche se ci fosse un personaggio che ammirasse, in politica. «Andreotti. Un mio grande ammiratore: questa ragazza, diceva, andrà lontano. Ed è stato l'unico a farsi vivo, di un certo tipo di mondo, quando sono mancati i miei genitori». Hai conosciuto tutti, le dissi. Vorrei quindi i tuoi giudizi sui protagonisti dello spettacolo: visti da vicini, nella quotidianità, fuori dal lavoro. Alberto Sordi, per cominciare. «Un fratellone, un po' tirchio, anzi molto tirchio, ma buono. A proposito di matrimonio una volta lui ha detto che non si è sposato perché io gli ho detto no». Marcello Mastroianni. «Un bambinone capriccioso. Sapevo tutto di lui e lui mi supplicava di tenere il silenzio sulle sue avventure». Federico Fellini. «Grande. Ma anche sporcaccione, con un'idea fissa. Voleva che facessi le porcherie con lui…». Porcherie? «Cosi diceva. Accattivante. E io: non le faccio perché sei uno stronzo. Affettuosamente, s'intende». Mai coinvolta in un'orgetta, una festicciola? Anche solo per curiosità? «Ma insomma, lo vuoi capire o no che tipo di donna sono stata? Io la sera non dormo se prima non dico le preghiere. Nei miei contratti c'è sempre stata una clausola: il nudo, mai. Tanto, per sedurre, basta uno sguardo, un pagliaccetto, mostrare e non mostrare. E a certe ragazze di oggi, anziché scoprirsi, sarebbe conveniente coprirsi. Orge? Anche nel cinema ero attenta: quando girammo Margot di Bourgogne, le orge si sprecavano, ma il corpo non era mio, c'era una controfigura. Se vuoi parlare di nudo, parla con la Sandrelli. Io i film di Stefania Sandrelli non sono mai andata a vederli, ma lei di nudo ne ha fatto tanto». Orge a parte, come sei, quando fai l'amore? «Se sono innamorata, parlo di amore vero e naturale, ci sono tante cosine belle da fare…». Fiera della tua bellezza? «Credo di essere una bellezza rara: di brune come me c'è stata solo Ava Gardner». Andiamo avanti con i ricordi. Luchino Visconti? «Aveva una villa a lschia vicina alla mia. Un marpione di classe». Alain Delon? «Sentimentale, ma un po' carogna. Spregiudicato. Quanto soffriva Romy Schneider, per il suo rapporto con Visconti…». Ma se Delon ha detto di avere avuto solo due rapporti, con Visconti. «Sì, ciao! Lasciamo stare. Parliamo dell'amore tra Alain e Romy, ch'era stupendo, e lui innamoratissimo. Le è sempre stato vicino, fino alla fine». Roberto Rossellini? «Seduttivo, sprecone nei regali: gioielli, pellicce, giocattoli…». Totò? «Mi amava tanto. Sono arrivati a dire che Malafemmena l'ha scritta per me. Mi diceva che avrebbe voluto sposarmi.. e, da vecchio gentiluomo, ne parlò anche con mio padre. Era un rubacuori Totò. Uscivamo spessissimo a cena, ma sempre con mio padre e mia madre. Non ha mai cercato di baciarmi». Vittorio De Sica? «Simpatico, buono, meraviglioso. E quanto giocava, se entrava in un casinò…». Ugo Tognazzi? «Era un gran bravo attore, ma si era montato la testa. Mi dispiace dirlo, ora che non c'è più. Una volta, dopo Il Bixietro, fece finta di non riconoscermi… mi guarda... non mi saluta. E io penso: questo è impazzito. E dire che, se quando giravamo un film, io avessi detto: Tognazzi non lo voglio, lui non avrebbe lavorato». E gli scrittori? Alberto Moravia? «Schivo, riservato. Era difficile avere un dialogo». Pasolini? «Requisito dalla corte dei suoi amici». Sofia Loren? «Faceva la comparsa con me. Fui io a farle avere la prima particina, perché me lo chiese Carlo Ponti. Comparse: come Silvana Mangano, Gina Lollobrigida…» Ecco, la rivalità con la Lollo. «Gina si sente, anche adesso, la più grande, la più bella. Ma da quando si è lasciata con il marito, Milko Skofic, non ha più fatto niente. Per la Bella di notte, erano previste scene di nudo, mio padre e io dicemmo di no e io consigliai: chiamate Gina…». Scusami, ma mi sembra che delle tue ex rivali parli con un po' di aria di superiorità… «Dico le cose come stanno. Gina era una comparsa e la feci prendere io, era vestita da ciociarella, nel Segreto di Don Giovanni. Ma con me… Già d'altezza la sovrasto. E se ha fatto La Bersagliera, lo deve a me», Gratitudine? «Non scherziamo. Certo le persone corrette ci sono: Valentina Cortese: grande classe, amicizia leale, una signora vera, intelligente. Quanto alle altre…. gratitudine!… Non ridiamo. Anche Lynda Christian deve a me il fatto di aver potuto sposare Tyrone Power. Perché io magnanimamente gliel'ho lasciato». E com'era, Tyrone Power? «Due occhi stupendi e una sola cosa infelice: la pelle grinzosa delle mani, come uno scimpanzé. Peccato». Torniamo alle rivali. Silvana Mangano? «Ha fatto quattro figli meravigliosi. Non capisco come un uomo importante e intelligente, De Laurentiis, possa averla lasciata senza pensare al suo avvenire. Per i mezzi economici. Almeno cosi mi hanno detto. Dino mi faceva una corte spietata. Mi mandava a prendere con una limousine pazzesca, per farmi impressione. Una volta c'era Silvana e l'ho pregata di mettersi in mezzo, cosi Dino non poteva fare il furbo…». Allungava le mani? «Tutti allungavano le mani. Il peggiore, Orson Welles: una volta a Roma, gli ho mollato due bei ceffoni in faccia, per farla finita». Ce ne sarà stato uno almeno, educato. «William Holden. Il più bello. Lui portava i pantaloni all'italiana, e non come fanno gli americani, ridicoli, quasi allo stinco!». Accompagnandola a casa, prima di salutarla, le chiesi se avesse un desiderio finale. E lei, seriamente, mi rispose: «Mi piacerebbe, quando arriverà quel giorno, avere accanto qualcuno che mi curasse come io ho curato il mio lui… come ho curato i miei genitori. Qualcuno che mi vesta, come io ho vestito loro, che mi prepari, che mi accomodi nell'ultima casa». Le sussurrai: «Che bel pensiero. E non hai paura della morte?». «Certamente no. Pensa, quanti amici troverò. E pensa alle folle che mi aspetteranno anche lassù, i fotografi, la televisione…». Quel giorno, quello per cui mi aveva confidato il suo ultimo desiderio, è arrivato il 6 gennaio 2015. Silvanella si è spenta a Roma, dov'era nata il 25 settembre 1925, a ottantanove anni.
Tre matrimoni, innumerevoli amanti famosi o segreti, una trentina di film, la morte in età giovane e tuttora misteriosa... Marilyn Monroe (Los Angeles, 1 giugno 1926 - Los Angeles, 5 agosto 1962) è ricordata come il sex symbol più famoso dell'epoca moderna. Non solo nel cinema ha superato la sensualità di decine di altre attrici non meno belle e desiderabili, ma anche nella vita quotidiana è stata, e sarà probabilmente ricordata per sempre, come una irresistibile seduttrice.
Perciò è d'obbligo il riferimento iniziale alle due storie d'amore con i fratelli John e Robert Kennedy. Sulla vicenda con il presidente valgono le confidenze fatte da Marilyn al giornalista Jean Marcilly. Ci sono versioni contrastanti. Si dice che, dopo un aborto, il matrimonio di M.M. con Arthur Miller era in crisi: sarebbe stato Frank Sinatra a combinare il primo incontro. Secondo altri, invece, Marilyn incontrò John in una festa a casa del suo agente Charles Feldman nel 1954 e poi si incontrarono di nuovo nel 1957 (e in seguito molte altre volte) con la complicità dell'attore Peter Lawford. Marilyn non smentì mai, al contrario di quanto fece nel 1959 - addirittura in una conferenza stampa - a proposito delle voci di un legame clandestino con Yves Montand, protagonista con lei del film Facciamo l'amore. Con Kennedy si incontrò senza problemi all'Holiday house hotel di Malibu e anche a Santa Monica a casa di Lawford. Ci furono investigatori (non si capisce bene incaricati da chi), camerieri e cronisti di giornali di gossip a cercare le prove di una relazione sempre più sulla bocca di tutti, nel mondo politico e in quello del cinema. Indizi davvero deboli, come quello sulla serata - 14 luglio 1960 - in cui John Kennedy tenne un famoso discorso al Coliseum. L'attrice arrivò e si sistemò a un tavolo con Sammy Davis jr, poi Davis sparì e al suo posto arrivò il futuro presidente (eletto il 20 gennaio 1961). Un altro giornalista, con cui Marilyn si sarebbe confidata, riferì che l'attrice non chiamava John mai per nome, ma lo citava sempre come «il presidente». Altre rivelazioni? I due si incontrarono al Carlyle di New York e perfino sull'Air Force One (ufficialmente si diceva che si trattava della segretaria di Peter Lawford). E nel novembre del 1961 il presidente ebbe un appuntamento con Marilyn al Beverly Hilton hotel. Ma fu una delle ultime volte: la relazione era troppo imbarazzante e John si staccò.
Marilyn Monroe gli regalò un rolex d'oro con su scritto «with love as always Marilyn» («con amore come sempre»): il prezioso dono fu poco nobilmente riciclato a un dipendente ed è stato venduto nel 2004 per 4,7 milioni di dollari.
A seguire, la relazione di Marilyn con il fratello di John, Bob. Secondo molte fonti, l'ultimo amante e, di più, avrebbe promesso di sposarla. Marilyn (ingenua?) ne era convinta - illusione frequente nelle storie d'amore d'ogni giorno - e ne parlava spesso con amici amiche, e collaboratori sul set: il chiacchiericcio favoriva pettegolezzi ed esagerazioni di tutti i tipi. Ma John e il fratello non erano uomini comuni, ma pura élite. Nelle ultime settimane prima di morire, la grande star diceva tranquillamente, senza problemi, che si sarebbe sposata con Bob. Si incontravano sempre a casa Lawford, rieccolo! Marilyn confidava a tutti di essere incinta, c'era chi sosteneva che avesse - ancora - abortito, con l'aiuto di un medico che la seguì a Tijuana, città della Baja California, in Messico. Ma l'autopsia non confermò: forse perché l'aborto, naturale o provocato, era avvenuto settimane prima della morte dell'attrice.
Nonostante la debolezza delle possibili prove, gran parte dell'opinione pubblica, sia negli anni Sessanta sia nei decenni successivi, è convinta che i due potentissimi fratelli Kennedy ebbero un ruolo poco chiaro, e forse decisivo, nella fine di Marilyn: misteriosa, ufficialmente archiviata come un suicidio.
Tony Curtis, partner con Jack Lemmon nel film A qualcuno piace caldo, ha rivelato pubblicamente la sua «storia» con l'attrice quasi quarant'anni dopo la sua scomparsa. Molti sono convinti perciò che molte relazioni sentimentali di M.M. siano rimaste segrete. Lei addirittura avrebbe scandalosamente rivelato che all'inizio della sua carriera era pronta a far l'amore con chiunque potesse esserle utile (cameraman, sarto, parrucchiere…) per avere successo. Mi limito dunque alle certezze. Tre mariti, ben scelti a tutto campo: a sedici anni, Jim Dougherty, un giovane da cui divorziò dopo quattro anni; poi un campionissimo dello sport, Joe Di Maggio, e infine un raffinato intellettuale, il commediografo Arthur Miller: la depressione di Marilyn, intimamente infelice, li portò al divorzio. Prima, durante e dopo ci vorrebbe una voluminosa agenda per tener conto di flirt, avventure e capricci vari: i fotografi, che l'aiutarono come modella, Andrè de Dienes e Laszlo Willinger, Henry Rosenfield (stilista newyorkese) e Johnny Hyde, vicepresidente di un'importante agenzia di Hollywood, che ottenne per lei le prime scritture. Si dice che Hyde morì per il dolore provocato dall'abbandono di Marilyn. Ma anche divi mondiali come Marlon Brando (una relazione continuamente interrotta e ripresa) e Frank Sinatra. Amori passeggeri, tranne quello del fenomenale asso del baseball Joe Di Maggio, che le fu vicino per tutta la vita. Lui voleva una famiglia normale con tanti bambini, era figlio di italiani. proprietari di un ristorante popolare. Ma lei no, era concentrata soprattutto sulla sua carriera.
Da citare anche Colin Clark. Un giovane di 23 anni, che ebbe la fortuna di incontrare Marilyn sul set e di vivere con la diva un'innocente storia d'amore, dalla quale ricavò due libri. Uno è My week with Marilyn, da cui è tratto il film con cui Michelle Williams fu candidata all'Oscar nel 2012.
Marilyn, con il cognome Monroe preso dalla nonna, è il nome d'arte di Norma Jeane. Infanzia terribile, in orfanotrofi o con genitori adottivi. Nonostante il suo status di sex symbol, e i numerosi uomini ai piedi, viene sempre descritta come una donna sola che cercava disperatamente l'amore e la sicurezza di una relazione stabile da coltivare. Nei suoi diari Marilyn sfogava le proprie insicurezze e gelosie. Questo sentirsi inadatta all'amore, secondo molti biografi, ha radici in una molestia sessuale che ha dovuto affrontare nella sua infanzia per colpa di un allora fidato vicino. E affermava di sentire una repulsione per quasi tutti gli uomini che provavano a conquistarla. La relazione sicuramente più curiosa è con Miller: la sua figura di intellettuale ha attratto l'attrice come una falena alla luce. Questo perché, oltre la facciata della «bambola bionda», Marilyn era una donna intelligente, riflessiva, nei propri diari esprimeva il sogno di diventare una scrittrice affermata. Nonostante l'ottima impressione che fece sugli amici di Miller - tra cui Truman Capote e Saul Bellow - l'attrice trovò degli appunti di suo marito che la descrivevano come una delusione e un imbarazzo. Nel proprio diario Marilyn confessa «Sono sempre stata terribilmente terrorizzata di essere davvero la moglie di qualcuno. So che nella vita non si ama mai davvero qualcun altro, mai».
La sua morte, nella notte del 4-5 agosto 1962, suscitò clamore e interesse morboso in tutto il mondo: venne trovata nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, dove viveva da sola con la sua governante Eunice Murray.
La versione ufficiale riporta che la governante, camminando nel corso della notte per il corridoio, vide la luce della stanza da letto della Monroe accesa, bussò alla porta, ma non ebbe alcuna risposta. Erano le 3.30 circa. Poco dopo, preoccupata, chiamò lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Questi entrò nella camera da letto dell'attrice e ne uscì poco dopo, alle 4.25, annunciando la morte della Monroe. E fu chiamato il dipartimento di polizia di Los Angeles.
Marilyn si era suicidata ingerendo una dose letale di pentobarbital, pasticche prese insieme a una dose sconosciuta di idrato di cloralio.
Ma ci furono, e permangono, altre versioni. La più interessante? Secondo quanto scritto nel libro-rivelazione Double Cross da Chuck Giancana, fratello minore di Sam Giancana capo di tutti i capi della Cosa Nostra di Chicago negli anni Sessanta, 4 sicari agli ordini del boss sarebbero penetrati nella villa di Marilyn a Hollywood, nella notte del 4 agosto 1962 poco dopo che Bob Kennedy, allora ministro della Giustizia, aveva lasciato la casa dell'attrice e amante. I quattro malavitosi sarebbero riusciti a immobilizzare Marilyn, a spogliarla e a ucciderla con una supposta velenosa. Il movente sarebbe stato quello di vendicarsi di Bob Kennedy, il quale da ministro aveva promosso un'inchiesta senza precedenti sulla mafia. L'uccisione di Marilyn sarebbe servita, secondo le dichiarazioni di Chuck Giancana, a gettare l'ombra della responsabilità della sua morte su Bob Kennedy e rovinare così per sempre la sua carriera politica.
La supposta avrebbe agito con la stessa rapidità di un'iniezione letale, senza però lasciare tracce sul braccio o sulla gamba che avrebbero insospettito i medici legali durante l'autopsia, che confermò questa ipotesi. Nella parte terminale del colon della Monroe si poteva vedere una sfumatura viola, segno, probabilmente, dell'azione della supposta.
Thomas Noguchi alla morte della Monroe era uno dei vicecoroner della Contea di Los Angeles. Nel 1983 pubblicò un libro, Coroner che descriveva in dettaglio le varie autopsie che aveva eseguito sulla celebrità. Nel mese di ottobre del 1985 dirà all'Abc Eyewitness news che durante l'autopsia non riuscì a spiegare le contusioni su Marilyn ritrovate vicino all'anca e sulla schiena inoltre affermò che lo stomaco era quasi vuoto mentre non aveva trovato tracce di pillole ingerite.
È stata, Marilyn, un'attrice e una cantante straordinaria. Unica. Ricordiamo Niagara in cui fa la vamp. E nei film del «suo» grandissimo regista Billy Wilder. In A qualcuno piace caldo mentre strimpella. E in Quando la moglie è in vacanza dove mette l'intimo in frigorifero. E mentre canta Diamonds are a girl's best friends (dal film Voglio sposare un milionario).





