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2022-01-31
Vanno all'asta 15 immobili all’ora. Chi ci guadagna?
Una ogni quattro minuti, più di trecento al giorno, oltre 126.000 nell’arco di dodici mesi. Sono tante le unità immobiliari oggetto di asta giudiziaria nell’anno appena trascorso. Numeri impressionanti che testimoniano un ritmo martellante quelli relativi alle esecuzioni immobiliari nel 2021, e condivisi con il nostro quotidiano dal Centro studi AstaSy Analytics di NPLs RE_Solutions. Vertiginoso anche il controvalore delle proprietà, pari a 18,74 miliardi di euro, poco meno dell’importo di una normale legge di Bilancio, con offerte minime pari a 14,05 miliardi. Quello delle aste, dunque, è senza dubbio un piatto ricco. Ma chi ci mangia e chi ci perde?
Partiamo da uno sguardo d’insieme sul fenomeno. Le cifre relative al 2021 sono in aumento dell’8,10% rispetto all’anno della pandemia, ma risultano comunque sensibilmente inferiori (-38,4%) rispetto al 2019, quando il numero delle esecuzioni toccò quota 204.632 unità. «Il mondo “giudiziale”, causa Covid, ha totalizzato circa 380 giorni di stop per un mancato recupero di oltre nove miliardi di euro», ha dichiarato a margine della presentazione del «Report aste 2021» Mirko Frigerio, presidente di AstaSy Analytics e vicepresidente di NPLs RE_Solutions. Nel 2020 infatti, ci spiega Frigerio, l’impulso a riaprire le procedure si è verificato a fine giugno, ma le prime aste si sono viste solo a settembre.
Sul piano regionale, dei 126.083 immobili all’asta, il 42,15% si concentra al Nord, il 27,75% al Centro, il 14% al Sud e il 12% nelle Isole. Prima in classifica la Lombardia (23.493 aste, pari al 18,6% del totale), seguita dalla Sicilia (12.547 aste, 9,95%) e dal Lazio (9.638 aste, 7,64%). Colpisce il dato relativo alla concentrazione delle esecuzioni a livello territoriale. Le aste relative a cinque regioni (oltre alle prime tre già citate, Toscana e Veneto) da sole costituiscono il 50% del totale nazionale, mentre 15 province generano il 38% delle aste complessive. Riguardo alla tipologia, meno di una unità immobiliare su due (46,34%) è riconducibile alla categoria residenziale, vale a dire appartamenti, ville e villette, attici e mansarde, cui si somma un ulteriore 9,3% relativo a posti auto e autorimesse. Una su dieci (10,71%), in aumento rispetto al passato, appartiene alla categoria negozi, uffici e locali adibiti a uso commerciale, ai quali si aggiungono il 4,42% di capannoni industriali e il 7,31% di magazzini. Ultima ma non meno importante la quota relativa ai terreni (11,51%) tra i quali, segnala il rapporto, «pezzi importanti nelle zone dei vini d’Italia», come le terre del Brunello di Montalcino e del Nero d’Avola.
criminalità organizzata
Ma è concentrandosi sul valore degli immobili messi in vendita che si inizia a realizzare la gravità della situazione. Quasi nove esecuzioni su dieci (88,96%), pari al 37,39% del valore complessivo di tutti i beni posti in asta nel 2021, riguardano beni il cui valore d’asta proposto è inferiore a 250.000 euro. Verosimilmente, dunque, si tratta di case appartenenti al ceto medio. Cosa ancor più grave, aggiunge il rapporto AstaSy Analytics, «il valore medio base asta degli immobili granulari si è ulteriormente abbassato a 62.471 euro contro il valore medio degli anni passati, il che sta certamente a significare che gli immobili vengono aggiudicati a valori notevolmente inferiori al passato dei reali valori di mercato, creando un’ulteriore perdita di valore e di ricchezza».
Un dato che, tra le righe, suggerisce come nel mondo delle aste giudiziarie il rischio di speculazione si nasconda sempre dietro l’angolo. Tra i casi, apparentemente più innocui, rientra quello delle agenzie immobiliari che acquistano immobili a basso prezzo per ristrutturarli e rivenderli a un prezzo decisamente più alto. Non si tratta di una pratica illegale, ma senza dubbio eticamente discutibile. Ma i pericoli non si fermano qui, tutt’altro. Lo scorso agosto la Commissione Antimafia ha lanciato l’allarme, denunciando «l’ingresso della criminalità organizzata nei mercati finanziari con l’acquisto di crediti deteriorati, condotta che prelude all’acquisizione di asset societari di particolare interesse e, soprattutto, di quelli maggiormente colpiti dalla pandemia». Un’ottica nella quale, proseguono i membri della Commissione, l’usura rischia di rappresentare il «grimaldello delle mafie per entrare nel mondo economico, per immettere capitali “sporchi” nell’economia legale, in un sordido circolo vizioso di riciclaggio e reimpiego, ma anche per arrivare a una sorta di “esproprio” delle imprese coinvolte». Commentando preoccupato le conclusioni dell’organo parlamentare, il presidente della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti ha auspicato la realizzazione di un «database degli acquirenti nelle aste immobiliari e fallimentari». Obiettivo finale, la creazione di una vera e propria «white list degli acquirenti» utile a «prevenire quell’intreccio sempre più inestricabile fra mafie, evasori fiscali, società anonime costituite nei paradisi fiscali, professionisti asserviti, prestanome che in questi anni ha inquinato il mercato delle aste immobiliari». Sempre più spesso la cronaca ci riporta esempi di aste pilotate e ricatti. Qualche mese fa, a novembre, gli inquirenti hanno disposto nel barese 24 arresti nei confronti di un gruppo di malavitosi. L’accusa è quella di aver truccato le esecuzioni per l’aggiudicazione di immobili e terreni. Verso la fine del 2020, l’operazione «Report» con più di cento militari del Comando provinciale della Guardia di finanza di Catania. Nel mirino, il sistema delle aste gestito dai clan locali, che contemplava aste deserte, minacce agli offerenti e accordi sottobanco, oltre a un meccanismo di rotazione che consentiva alle varie cosche della zona di accaparrarsi a turno una fetta degli affari. «Con la distorsione delle organizzazioni criminali si effettua macelleria sociale», ha dichiarato ad Avvenire il criminologo Giacomo Di Gennaro, «dato che dopo la prima battitura d’asta il prezzo cala del 25% ed è interesse di chi acquista effettuarne altre».
affaristi senza scrupoli
C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare, quello relativo agli operatori esteri presenti sul nostro mercato. Spiega Frigerio alla Verità, «delle circa 1.100 società veicolo operanti in Italia in questo settore, almeno un quinto sono straniere». Esiste - aggiungiamo noi - il rischio pericolo concreto che un pezzo importante del patrimonio residenziale e imprenditoriale del nostro Paese, frutto del duro lavoro e dei sacrifici degli italiani, finisca per essere svenduto a qualche affarista senza scrupoli.
«Fenomeno distruttivo per tutti. Paghiamo errori di vent’anni fa»
Dottor Mirko Frigerio, presidente di Astasy Analytics, ci fa capire le origini della situazione attuale delle aste giudiziarie in Italia?
«Occorre tornare agli anni precedenti alla crisi degli anni Duemila, quando si è verificato quello che io chiamo “eccesso di accesso al credito”. In due parole: troppa finanza. Per un Paese che, fino a qualche anno prima assorbiva in media 6-700.000 compravendite l’anno, nel 2006 si è toccato il picco di 845.000 compravendite. Una bolla molto diversa da quella americana, perché da noi le persone più che la casa compravano il mutuo. Questo è stato il grosso errore delle banche: vendere un finanziamento ai propri correntisti anziché educarli dal punto di vista finanziario. C’era perfino un istituto di credito che pubblicizzava in vetrina il “mutuo al 110%”».
Poi però è saltato tutto.
«È successo che le banche hanno smesso di erogare finanziamenti perché non riuscivano a dimostrare alla Bce di essere in grado di gestire i crediti che avevano in pancia, fattore che ha peggiorato la possibilità di finanziarsi da Francoforte. C’è stato un dolorosissimo rimbalzo della bolla che ha fatto crollare i consumi. A partire dal 2012 abbiamo assistito a una vera e propria esplosione delle aste giudiziarie. Pensi che, trascorso un decennio, ancora abbiamo aste attive relative a quel periodo».
Partiamo dalle basi: come si arriva a un’asta giudiziaria?
«Chiariamo subito una cosa. Un immobile finisce all’asta perché qualcuno non ha pagato qualcosa, non perché un cliente è antipatico alla banca. Quest’ultima, per garantire interessi bassi e una garanzia temporale tanto lunga, fino a trent’anni, chiede la garanzia di un’ipoteca, cioè essere informata della vendita del bene. Quindi si parte sempre da un debito contratto da qualcuno, da un bene pignorabile e da un creditore che deve recuperare il dovuto. E non si tratta sempre della banca».
Può spiegare?
«Negli ultimi quattro anni c’è stato un aumento di pignoramenti da parte di soggetti non bancari, come ad esempio i condomini che non riescono più a riscuotere le quote e si trovano costretti a pignorare l’immobile perché altrimenti, per effetto dalla nuova normativa, l’amministratore deve rispondere in solido».
E poi?
«Premetto che, mediamente, una banca impiega dai due ai tre anni prima di pignorare l’immobile. Quindi non c’è nessuna volontà di accanirsi contro il proprio cliente».
Una volta pignorato l’immobile cosa succede?
«Spesso chi si trova nell’incapacità di pagare un debito cade in preda alla vergogna, perché si tratta di un circostanza imbarazzante. Chi non ce la fa a pagare il mutuo non riesce a dirlo nemmeno al coniuge, o ai propri familiari più stretti. Si arriva perfino a mentire a sé stessi, magari attribuendo le colpe alla banca».
Quali strade ci sono per uscire da questo tunnel?
«Molti non sanno che la vendita è possibile anche quando l’immobile è all’asta. Secondo il sistema italiano, a differenza di quello americano, il pignorato resta titolare della proprietà dell’immobile, il quale in qualsiasi momento può trovare un acquirente, recarsi in banca e chiudere il debito. Nel 2019, l’11% degli immobili finito in asta si è concluso a seguito di un accordo stragiudiziale. Una percentuale bassa dal punto di vista assoluto, ma comunque molto più alta rispetto agli anni precedenti».
Cosa ha influito nel maggior ricorso a questo tipo di accordi?
«I servicer, cioè le società esterne che gestiscono i crediti per conto delle banche, hanno capito che occorre parlare con il debitore e trovare un’intesa: facciamo valutare l’immobile da un agente immobiliare, troviamo un acquirente, sospendiamo il debito e chiudiamo la posizione. Da due anni, la Bce ha incentivato le banche a lavorare gli Utp (unlikely to pay, cioè i crediti per i quali risulti improbabile il recupero, ndr), perciò lo scopo è gestire il precontenzioso ed evitare di arrivare all’asta che è distruttiva per tutti. Sia per il debitore, sul piano psicologico, che per il creditore, dal momento che mediamente si recupera il 56% del valore iniziale con costi legali di gestione altissimi, pari al 25% del totale».
Si va verso una gestione più «umana» delle aste?
«Stiamo gestendo la più grande operazione di finanza immobiliare etica: cento case all’asta su tutto il territorio, tutti immobili residenziali con proprietari persone fisiche e creditori banche e condomini, acquistate da una cordata di imprenditori che si impegnano a favorire un accordo tra il debitore e il creditore. Senza intento speculativo».
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La crisi ha colpito il ceto medio, costretto a vendite al ribasso. Un mercato da 18 miliardi di euro che fa gola agli speculatori.L’esperto Mirko Frigerio: «Negli anni Duemila le banche hanno esagerato nel dare accesso al credito, così è scoppiata la bolla. E oggi sono nei guai i condomini, che pignorano gli appartamenti di chi non salda le quote».Lo speciale contiene due articoli.Una ogni quattro minuti, più di trecento al giorno, oltre 126.000 nell’arco di dodici mesi. Sono tante le unità immobiliari oggetto di asta giudiziaria nell’anno appena trascorso. Numeri impressionanti che testimoniano un ritmo martellante quelli relativi alle esecuzioni immobiliari nel 2021, e condivisi con il nostro quotidiano dal Centro studi AstaSy Analytics di NPLs RE_Solutions. Vertiginoso anche il controvalore delle proprietà, pari a 18,74 miliardi di euro, poco meno dell’importo di una normale legge di Bilancio, con offerte minime pari a 14,05 miliardi. Quello delle aste, dunque, è senza dubbio un piatto ricco. Ma chi ci mangia e chi ci perde?Partiamo da uno sguardo d’insieme sul fenomeno. Le cifre relative al 2021 sono in aumento dell’8,10% rispetto all’anno della pandemia, ma risultano comunque sensibilmente inferiori (-38,4%) rispetto al 2019, quando il numero delle esecuzioni toccò quota 204.632 unità. «Il mondo “giudiziale”, causa Covid, ha totalizzato circa 380 giorni di stop per un mancato recupero di oltre nove miliardi di euro», ha dichiarato a margine della presentazione del «Report aste 2021» Mirko Frigerio, presidente di AstaSy Analytics e vicepresidente di NPLs RE_Solutions. Nel 2020 infatti, ci spiega Frigerio, l’impulso a riaprire le procedure si è verificato a fine giugno, ma le prime aste si sono viste solo a settembre.Sul piano regionale, dei 126.083 immobili all’asta, il 42,15% si concentra al Nord, il 27,75% al Centro, il 14% al Sud e il 12% nelle Isole. Prima in classifica la Lombardia (23.493 aste, pari al 18,6% del totale), seguita dalla Sicilia (12.547 aste, 9,95%) e dal Lazio (9.638 aste, 7,64%). Colpisce il dato relativo alla concentrazione delle esecuzioni a livello territoriale. Le aste relative a cinque regioni (oltre alle prime tre già citate, Toscana e Veneto) da sole costituiscono il 50% del totale nazionale, mentre 15 province generano il 38% delle aste complessive. Riguardo alla tipologia, meno di una unità immobiliare su due (46,34%) è riconducibile alla categoria residenziale, vale a dire appartamenti, ville e villette, attici e mansarde, cui si somma un ulteriore 9,3% relativo a posti auto e autorimesse. Una su dieci (10,71%), in aumento rispetto al passato, appartiene alla categoria negozi, uffici e locali adibiti a uso commerciale, ai quali si aggiungono il 4,42% di capannoni industriali e il 7,31% di magazzini. Ultima ma non meno importante la quota relativa ai terreni (11,51%) tra i quali, segnala il rapporto, «pezzi importanti nelle zone dei vini d’Italia», come le terre del Brunello di Montalcino e del Nero d’Avola.criminalità organizzataMa è concentrandosi sul valore degli immobili messi in vendita che si inizia a realizzare la gravità della situazione. Quasi nove esecuzioni su dieci (88,96%), pari al 37,39% del valore complessivo di tutti i beni posti in asta nel 2021, riguardano beni il cui valore d’asta proposto è inferiore a 250.000 euro. Verosimilmente, dunque, si tratta di case appartenenti al ceto medio. Cosa ancor più grave, aggiunge il rapporto AstaSy Analytics, «il valore medio base asta degli immobili granulari si è ulteriormente abbassato a 62.471 euro contro il valore medio degli anni passati, il che sta certamente a significare che gli immobili vengono aggiudicati a valori notevolmente inferiori al passato dei reali valori di mercato, creando un’ulteriore perdita di valore e di ricchezza».Un dato che, tra le righe, suggerisce come nel mondo delle aste giudiziarie il rischio di speculazione si nasconda sempre dietro l’angolo. Tra i casi, apparentemente più innocui, rientra quello delle agenzie immobiliari che acquistano immobili a basso prezzo per ristrutturarli e rivenderli a un prezzo decisamente più alto. Non si tratta di una pratica illegale, ma senza dubbio eticamente discutibile. Ma i pericoli non si fermano qui, tutt’altro. Lo scorso agosto la Commissione Antimafia ha lanciato l’allarme, denunciando «l’ingresso della criminalità organizzata nei mercati finanziari con l’acquisto di crediti deteriorati, condotta che prelude all’acquisizione di asset societari di particolare interesse e, soprattutto, di quelli maggiormente colpiti dalla pandemia». Un’ottica nella quale, proseguono i membri della Commissione, l’usura rischia di rappresentare il «grimaldello delle mafie per entrare nel mondo economico, per immettere capitali “sporchi” nell’economia legale, in un sordido circolo vizioso di riciclaggio e reimpiego, ma anche per arrivare a una sorta di “esproprio” delle imprese coinvolte». Commentando preoccupato le conclusioni dell’organo parlamentare, il presidente della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti ha auspicato la realizzazione di un «database degli acquirenti nelle aste immobiliari e fallimentari». Obiettivo finale, la creazione di una vera e propria «white list degli acquirenti» utile a «prevenire quell’intreccio sempre più inestricabile fra mafie, evasori fiscali, società anonime costituite nei paradisi fiscali, professionisti asserviti, prestanome che in questi anni ha inquinato il mercato delle aste immobiliari». Sempre più spesso la cronaca ci riporta esempi di aste pilotate e ricatti. Qualche mese fa, a novembre, gli inquirenti hanno disposto nel barese 24 arresti nei confronti di un gruppo di malavitosi. L’accusa è quella di aver truccato le esecuzioni per l’aggiudicazione di immobili e terreni. Verso la fine del 2020, l’operazione «Report» con più di cento militari del Comando provinciale della Guardia di finanza di Catania. Nel mirino, il sistema delle aste gestito dai clan locali, che contemplava aste deserte, minacce agli offerenti e accordi sottobanco, oltre a un meccanismo di rotazione che consentiva alle varie cosche della zona di accaparrarsi a turno una fetta degli affari. «Con la distorsione delle organizzazioni criminali si effettua macelleria sociale», ha dichiarato ad Avvenire il criminologo Giacomo Di Gennaro, «dato che dopo la prima battitura d’asta il prezzo cala del 25% ed è interesse di chi acquista effettuarne altre».affaristi senza scrupoliC’è poi un altro aspetto da non sottovalutare, quello relativo agli operatori esteri presenti sul nostro mercato. Spiega Frigerio alla Verità, «delle circa 1.100 società veicolo operanti in Italia in questo settore, almeno un quinto sono straniere». Esiste - aggiungiamo noi - il rischio pericolo concreto che un pezzo importante del patrimonio residenziale e imprenditoriale del nostro Paese, frutto del duro lavoro e dei sacrifici degli italiani, finisca per essere svenduto a qualche affarista senza scrupoli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vanno-allasta-15-immobili-allora-chi-ci-guadagna-2656514286.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fenomeno-distruttivo-per-tutti-paghiamo-errori-di-ventanni-fa" data-post-id="2656514286" data-published-at="1643582840" data-use-pagination="False"> «Fenomeno distruttivo per tutti. Paghiamo errori di vent’anni fa» Dottor Mirko Frigerio, presidente di Astasy Analytics, ci fa capire le origini della situazione attuale delle aste giudiziarie in Italia? «Occorre tornare agli anni precedenti alla crisi degli anni Duemila, quando si è verificato quello che io chiamo “eccesso di accesso al credito”. In due parole: troppa finanza. Per un Paese che, fino a qualche anno prima assorbiva in media 6-700.000 compravendite l’anno, nel 2006 si è toccato il picco di 845.000 compravendite. Una bolla molto diversa da quella americana, perché da noi le persone più che la casa compravano il mutuo. Questo è stato il grosso errore delle banche: vendere un finanziamento ai propri correntisti anziché educarli dal punto di vista finanziario. C’era perfino un istituto di credito che pubblicizzava in vetrina il “mutuo al 110%”». Poi però è saltato tutto. «È successo che le banche hanno smesso di erogare finanziamenti perché non riuscivano a dimostrare alla Bce di essere in grado di gestire i crediti che avevano in pancia, fattore che ha peggiorato la possibilità di finanziarsi da Francoforte. C’è stato un dolorosissimo rimbalzo della bolla che ha fatto crollare i consumi. A partire dal 2012 abbiamo assistito a una vera e propria esplosione delle aste giudiziarie. Pensi che, trascorso un decennio, ancora abbiamo aste attive relative a quel periodo». Partiamo dalle basi: come si arriva a un’asta giudiziaria? «Chiariamo subito una cosa. Un immobile finisce all’asta perché qualcuno non ha pagato qualcosa, non perché un cliente è antipatico alla banca. Quest’ultima, per garantire interessi bassi e una garanzia temporale tanto lunga, fino a trent’anni, chiede la garanzia di un’ipoteca, cioè essere informata della vendita del bene. Quindi si parte sempre da un debito contratto da qualcuno, da un bene pignorabile e da un creditore che deve recuperare il dovuto. E non si tratta sempre della banca». Può spiegare? «Negli ultimi quattro anni c’è stato un aumento di pignoramenti da parte di soggetti non bancari, come ad esempio i condomini che non riescono più a riscuotere le quote e si trovano costretti a pignorare l’immobile perché altrimenti, per effetto dalla nuova normativa, l’amministratore deve rispondere in solido». E poi? «Premetto che, mediamente, una banca impiega dai due ai tre anni prima di pignorare l’immobile. Quindi non c’è nessuna volontà di accanirsi contro il proprio cliente». Una volta pignorato l’immobile cosa succede? «Spesso chi si trova nell’incapacità di pagare un debito cade in preda alla vergogna, perché si tratta di un circostanza imbarazzante. Chi non ce la fa a pagare il mutuo non riesce a dirlo nemmeno al coniuge, o ai propri familiari più stretti. Si arriva perfino a mentire a sé stessi, magari attribuendo le colpe alla banca». Quali strade ci sono per uscire da questo tunnel? «Molti non sanno che la vendita è possibile anche quando l’immobile è all’asta. Secondo il sistema italiano, a differenza di quello americano, il pignorato resta titolare della proprietà dell’immobile, il quale in qualsiasi momento può trovare un acquirente, recarsi in banca e chiudere il debito. Nel 2019, l’11% degli immobili finito in asta si è concluso a seguito di un accordo stragiudiziale. Una percentuale bassa dal punto di vista assoluto, ma comunque molto più alta rispetto agli anni precedenti». Cosa ha influito nel maggior ricorso a questo tipo di accordi? «I servicer, cioè le società esterne che gestiscono i crediti per conto delle banche, hanno capito che occorre parlare con il debitore e trovare un’intesa: facciamo valutare l’immobile da un agente immobiliare, troviamo un acquirente, sospendiamo il debito e chiudiamo la posizione. Da due anni, la Bce ha incentivato le banche a lavorare gli Utp (unlikely to pay, cioè i crediti per i quali risulti improbabile il recupero, ndr), perciò lo scopo è gestire il precontenzioso ed evitare di arrivare all’asta che è distruttiva per tutti. Sia per il debitore, sul piano psicologico, che per il creditore, dal momento che mediamente si recupera il 56% del valore iniziale con costi legali di gestione altissimi, pari al 25% del totale». Si va verso una gestione più «umana» delle aste? «Stiamo gestendo la più grande operazione di finanza immobiliare etica: cento case all’asta su tutto il territorio, tutti immobili residenziali con proprietari persone fisiche e creditori banche e condomini, acquistate da una cordata di imprenditori che si impegnano a favorire un accordo tra il debitore e il creditore. Senza intento speculativo».
Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Dite che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona? Forse non avete tutti i torti. Però è esattamente quello che è successo. Alla XVIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori, Mattarella si è lasciato possedere dallo spirito di Kaja Kallas e ha impugnato lo spadone: «Permane l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina», ha detto, «con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa. Infrangere questo principio è un’azione ritenuta irresponsabile e inammissibile già oltre cinquanta anni addietro nella Conferenza di Helsinki sulla cooperazione e sicurezza nel continente». Quindi anche il bombardamento di Belgrado era già un’azione «ritenuta irresponsabile e inammissibile»...
Ma il particolare non ha turbato l’uomo del Colle, che ha proseguito bellicoso: «Appare, a dir poco, singolare che, mentre si affacciano, in ambito internazionale, esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti dell’Unione europea, alterando la verità e presentandola, anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà». Oplà: sistemati anche i nemici della meravigliosa e infallibile Unione europea «apprezzata dall’intero Occidente». Intero. E pazienza se anche alcuni scudieri del sovrano del Quirinale, segnatamente Enrico Letta e Mario Draghi, si sono recentemente azzardati a criticare anche aspramente l’architettura parasovietica allestita a Bruxelles. Per Mattarella è l’ora delle decisioni irrevocabili: «È evidente che è in atto un’operazione, diretta contro il campo occidentale, che vorrebbe allontanare le democrazie dai propri valori, separando i destini delle diverse nazioni. Non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori».
Ecco, non sono consentiti errori. E allora perché, proprio mentre si tratta a Berlino, il presidente della Repubblica compie un’invasione di campo così clamorosa? Come mai è tanto ansioso di metterci in rotta di collisione con la Russia da superare in oltranzismo i Volenterosi e persino lo stesso Zelensky, ormai pragmaticamente orientato a discutere per evitare la catastrofe finale al suo popolo stremato? Che cosa hanno in testa Mattarella e il suo consigliere Francesco Saverio Garofani, che siede ancora con lui (e con Giorgia Meloni) nel Consiglio supremo di Difesa malgrado le imbarazzanti frasi, rivelate dalla Verità, su «provvidenziali scossoni» per impedire alla stessa leader di Fratelli d’Italia di rivincere le elezioni e, orrore, magari insediare qualcuno non di sinistra sul Colle più alto di Roma?
Il Quirinale, con la docile stampa al seguito, si è affrettato a far calare una cappa di silenzio su quella voce dal sen fuggita che rivelava desideri e trame di chi sussurra all’orecchio di Mattarella. Ma ora è il capo dello Stato in persona a uscire allo scoperto. È lui a dare sulla voce al premier, che pochi giorni fa, accogliendolo a Roma, ha parlato a Zelensky della necessità di fare «dolorose concessioni». È lui a dare una linea alternativa (anche al sé stesso più giovane) in politica estera, esondando dalle sue funzioni. Ennesima dimostrazione che l’opposizione vera a questo governo si fa sul Colle. E che forse Garofani non esprimeva solo considerazioni personali.
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Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
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Se per i Maya erano oggetto di venerazione quasi religiosa, tanto era il loro riconosciuto valore non solo economico, per gli europei coltivare il cacao era troppo complesso e, in seguito, ci si «accontentò» di mangiarne le fave importate in forma di cioccolata. L’Europa iniziò a conoscere per bene la cioccolata in tazza dopo il 1517. In quell’anno il conquistatore spagnolo Hernàn Cortés era sbarcato anch’egli sull’attuale Messico e l’imperatore azteco Montezuma II gli aveva fatto conoscere la «chocolatl», il trito di fave di cacao e mais cotto con acqua e miele che l’imperatore beveva come afrodisiaco. Quando Cortés, morto Montezuma II e conquistato l’impero azteco, divenne governatore, esportò stabilmente la cioccolata presso la corte spagnola di Carlo V. Da lì, la squisita bevanda divenne in breve tempo una specie di ambrosia dei nobili poiché consumarla voleva dire acquisire un vero e proprio status symbol: solo il nobile poteva bere l’esotica e buonissima cioccolata quando voleva. Pensate che Carlo V la mandava come regalo di nozze quando un familiare sposava un nobile di altra nazione e, addirittura, questo farne dono fu il primo modo di diffusione della cioccolata nel resto d’Europa. Inoltre, un po’ come un vero chef, Carlo V non dava la sua ricetta e perciò si svilupparono diverse varianti. E perfino diversi luoghi dedicati dove trovarla per berla, quando era diventata accessibile anche ai borghesi. A Londra, nel 1657 nacque la prima Chocolate house, sulla scia delle Coffee house, e poi in tutta la Gran Bretagna si diffusero tante altre chocolate house, oggi in Italia le chiameremmo cioccolaterie, luoghi nei quali bere la cioccolata e intrattenersi. Dai Maya a noi la cioccolata calda ha fatto tanta strada in ogni senso. Un po’ come la pizza o la pasta, la cioccolata calda è diventata un’icona pop che più passa il tempo più espande la sua costellazione di innovazioni che insieme la confermano e la mutano.
La cioccolateria contemporanea ci ha dato innanzitutto la cioccolata calda fatta con cioccolato diverso da quello al latte o fondente: c’è la cioccolata calda bianca fatta con cioccolato bianco, che a sua volta può essere aromatizzata e quindi possiamo trovare anche la cioccolata calda di colore verde e al sapore di pistacchio, per esempio. E c’è la cioccolata calda rosa realizzata col cioccolato ruby, un cioccolato fatto con fave di cacao provenienti da Ecuador, Costa d’Avorio e Brasile che contengono naturalmente pigmenti rosa. La cioccolata si può preparare sia con il cioccolato tritato, in questo casa potrà essere al latte, fondente, bianca oppure ruby, sia con il cacao. Al di là del tipo di materia prima usata, la cioccolata calda si può poi ormai declinare in mille modi, non solo nel laboratorio della propria cucina, dove basta aggiungere una spolverizzata di cacao oppure di cannella in cima, sia che ci sia panna, sia che non ci sia. O di peperoncino oppure, perché no?, di pepe. I cafè nei quali si beve cioccolata calda hanno i propri mix oppure offrono il menu completo dei mix pensati da produttori artigianali o industriali di preparati per cioccolate in busta. Il marchio apripista in questa direzione fu Eraclea, fondato a Milano circa 50 anni fa e passato dal 2010 al gruppo Lavazza. Quel preparato in busta che decenni or sono era pioneristico oggi è diventato un genere di prodotti e molti fanno il proprio, dalla storica pasticceria Marchesi di Milano al pasticcere torinese Guido Gobino passando per Antonino Cannavacciuolo e le sue choco bomb, versione solida e sferica del preparato, e il Ciobar, l’offerta per preparare una squisita cioccolata in tazza a casa seguendo semplicemente le istruzioni sulla confezione degli ingredienti predosati è vastissima e spazia fin dove si può spaziare. Cioccolata con tocco crunchy? Basta aggiungere granella di nocciole, di pistacchi, perfino bacche di Goji. Cioccolata salata (parzialmente)? Nessun problema, c’è la cioccolata con caramello salato. Cioccolata vegana (recentemente anche la gelateria Grom, artefice di una cioccolata in tazza super cremosa, ha modificato la ricetta per renderla vegana)? Ancora nessun impedimento, basta sostituire il latte con bevanda vegetale. La più sorprendente è sicuramente quella che sembra la negazione della cioccolata calda: la cioccolata fredda. In realtà, si tratta di una versione che destagionalizza la cioccolata calda, disponibile in concomitanza con l’arrivo del freddo per tutta la stagione autunnale e invernale, fino alla primavera. La cioccolata fredda si oppone a questa stagionalità e rendendola estiva attua l’estensione della cioccolata calda a tutto l’anno, naturalmente però raffreddandola. Si prepara con gli stessi ingredienti, ma poi si fa freddare in frigo e si gusta quando fa caldo per rinfrescarsi, non quando fa freddo per riscaldarsi. A proposito di riscaldarsi, sapevate che in montagna è prassi bere una cioccolata calda per contrastare il clima chiaramente molto freddo e riprendere energia dopo una giornata di sci alpino? Deriva da questo l’idea che l’ora della cioccolata calda sia le 16:30, in (giocosa) differenziazione rispetto alle 17, l’ora del tè.
La cioccolata calda è considerata un comfort food e insieme un peccato di gola. Conosciamone meglio le caratteristiche e come trarne il massimo beneficio per la nostra salute ed il nostro benessere.
In 100 ml di cioccolata calda preparata con cioccolato, latte intero, zucchero, un po’ di addensante (qualunque farina oppure amido o fecola) troviamo circa 90 calorie, per il 60% derivanti da carboidrati, per il 25% da grassi e per il 15% da proteine. Fate attenzione perché spesso le tazze sono da 200 ml, quindi considerate 180 calorie. Inoltre, più la cioccolata è densa, più è calorica. Per diminuire i carboidrati si può eliminare lo zucchero, per diminuire un po’ di proteine e di grassi si può usare l’acqua al posto del latte, per diminuire tutto, grassi, proteine e carboidrati, si può usare il cacao magro al posto della cioccolata. Un cucchiaio raso di panna montata aggiunge circa 20 calorie. Durante la stagione fredda, caratterizzata anche dalla diminuzione delle ore di luce, la cioccolata calda è sicuramente un momento di piacere gastronomico, ma anche una spinta energetica per il nostro organismo e per il nostro umore. I flavonoidi hanno effetto antiossidante che aiuta anche la salute del sistema cardiocircolatorio. Grazie a triptofano, feniletilamina e teobromina di cacao o cioccolato, che stimolano la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità) e le endorfine (che riducono dolore e stress), una cioccolata in tazza solleva il nostro umore, funge da antistress e ci dona serenità anche nei giorni no. Migliorano anche la memoria e la concentrazione e aumenta un pochino il livello di alcuni sali minerali (potassio, rame, magnesio e ferro). Inoltre, abbiamo sollievo se abbiamo la gola secca e ci scaldiamo: la bevanda, infatti, scalda la bocca, la trachea, lo stomaco e quindi il nucleo centrale del nostro organismo, la parte interna costituita dal busto, che protegge gli organi e che in inverno va protetta dal freddo per mantenere la sua temperatura ottimale di circa 37 gradi centigradi. Inoltre, la cioccolata calda ci dà l’energia che serve al nostro organismo per attuare le sue pratiche anti freddo. Funziona così: il nostro guscio periferico (capo, arti, pelle, muscoli, grasso) cerca di minimizzare la dispersione termica dovuta al fatto che la temperatura esterna è molto bassa tramite la vasocostrizione che diminuisce il flusso sanguigno. Il calore che serve a mantenere il nostro nucleo centrale a 37 gradi (pena malanni o malesseri anche letali se la temperatura scende di troppo) viene prodotto nel nucleo centrale attraverso il metabolismo, che trasforma il cibo in kilocalorie e si trasferisce verso il guscio. Quando fa freddo, il corpo riduce questo trasferimento per conservare il calore centrale, a scapito della temperatura periferica. Tutto questo è un lavoro continuo del nostro organismo, di cui non ci accorgiamo e che richiede molte kilocalorie. Le pratiche che il nostro organismo mette in atto per riscaldarci in inverno ci richiedono e ci fanno consumare molte più calorie di quelle che esso mette in atto per disperdere il calore in estate, perciò mangiamo di più in inverno, perché consumiamo più kilocalorie per mantenere la nostra temperatura interna a circa 37 gradi di quante ne consumiamo in estate per non farla aumentare troppo oltre i 37 gradi. Non bisogna certamente esagerare nel bere cioccolata calda, soprattutto pensando ai grassi (per riscaldarsi va bene anche un tè caldo senza zucchero), ma concedersi una cioccolata di tanto in tanto non può che fare bene. Ultimi consigli. Se avete mal di gola o in generale siete raffreddati, aggiungete in cima alla vostra cioccolata calda polvere di peperoncino, di cannella, di curry, di curcuma. Se avete problemi digestivi, polvere di té verde, di té matcha o di semi di finocchio.
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