True
2022-08-31
Sulle cure un anno di ritardo. E altre sberle sulle miocarditi
iStock
Ricordate il monito degli esperti ai giovani, spaventati dal rischio di miocarditi e pericarditi post vaccino? Correte all’hub, esortavano, perché il pericolo di infiammazioni cardiache è superiore dopo il Covid rispetto a dopo l’iniezione. Eppure, come su molti altri che ci sono stati propinati apoditticamente, anche su questo dogma esiste un vivace dibattito scientifico.
«quantificare i pericoli»
Cominciamo da un recente studio, uscito su Circulation, rivista specializzata nelle malattie cardiovascolari. L’indagine, condotta sui vaccinati dai 13 anni in su in Inghilterra, fino a metà dicembre 2021, conferma per l’ennesima volta l’incremento dell’incidenza di miocarditi, in particolare negli uomini al di sotto dei 40 anni e specialmente a 28 giorni dalla seconda dose di Moderna. Un aspetto molto importante della ricerca è che essa dimostra una connessione delle miocarditi non solo con i preparati a mRna, ma anche con il farmaco ad adenovirus, cioè Astrazeneca.
Sono gli stessi autori dello studio a sottolineare che, «complessivamente, il rischio di miocarditi è maggiore dopo l’infezione che dopo l’inoculazione», ma che è opportuno soppesare l’utilità del vaccino per gli under 40: «Sebbene il beneficio netto della vaccinazione non debba essere definito solo in rapporto ai rischio di miocardite, quantificare tale rischio è importante, soprattutto nei giovani, che hanno meno probabilità di essere colpiti dalla malattia grave con l’infezione da Sars-Cov-2». Un approccio cristallino, laico, equilibrato, ben distante dalla propaganda terroristica con la quale, per mesi, insieme al ricatto del green pass, milioni di italiani sono stati trascinati all’hub e denigrati come negazionisti o assassini, se esitavano a porgere il braccio.
Sarebbe poi utile approfondire la questione del nesso tra il coronavirus e le infiammazioni alle membrane del cuore. In fondo, è il motivo per cui abbiamo invitato i ragazzi a vaccinarsi.
Uno studio israeliano, uscito lo scorso aprile sul Journal of clinical medicine, esaminava l’incidenza delle miocarditi e delle pericarditi in quasi 200.000 pazienti Covid non vaccinati. Il risultato era sorprendente: «I nostri dati», si leggeva nel paper, «suggeriscono che non c’è alcun aumento nell’incidenza di miocardite e pericardite nei pazienti che si sono ripresi dal Covid-19, a confronto» con il gruppo di controllo dei non infetti, composto da quasi 591.000 adulti, abbinati per sesso ed età. Il rapporto di causalità di questi disturbi con il Sars-Cov-2 non pare così solido come si è sempre sostenuto. Quello d’Israele è un esempio isolato? Non si direbbe.
Nel numero di luglio del Journal of cardiovascular medicine è stato inserito un saggio, vergato da un gruppo di scienziati che operano nel nostro Paese. L’analisi è limitata alle province di Pisa, Lucca e Livorno, ma è stimolante, perché paragona i tassi d’incidenza di miocarditi e pericarditi nel periodo pre Covid a quelli registrati durante la pandemia, fino a maggio 2021. Cioè, quando la popolazione più giovane - più esposta agli effetti collaterali cardiaci dei vaccini - non era ancora stata massicciamente inoculata. Ebbene, anche stavolta le conclusioni lasciavano interdetti: «L’incidenza annuale di miocarditi era significativamente più elevata nel periodo pre Covid che in quello Covid», con una «riduzione netta del 27% dei casi». Ed essa si è abbassata in modo ancora più sensibile nella classe d’età 18-24 anni. L’incidenza delle pericarditi, invece, è rimasta sempre sostanzialmente invariata. Dunque, sia la popolazione generale, sia i ragazzi, si ammalavano di più di miocardite prima della comparsa del coronavirus. Allora, ci domandiamo noi, come mai i televirologi si sono profusi in accorati appelli pro puntura, spiegando che i giovani rischiavano più infettandosi che vaccinandosi?
E non finisce qui. All’inizio del 2022, su Annual review of medicine, era comparsa una relazione sulle miocarditi da Covid «clinicamente sospette» e «provate da una biopsia». All’epoca, gli autori della revisione ribadivano che non c’era ancora «una prova definitiva derivante da biopsia endometriale/autopsia che il Sars-Cov-2 causi un danno diretto al miocardio in associazione con miocardite istologica». Gli scienziati, quindi, esortavano a impiegare criteri medici più rigorosi, per evitare «un’inaccurata stima dell’incidenza di miocarditi basata su diagnosi errate». D’altronde, alcuni mesi prima, una ricerca compiuta su materiale autoptico, pubblicata su Cells, aveva portato a concludere: «Al di fuori del tratto respiratorio, non è stato possibile attribuire nessuna specifica alterazione (isto)morfologica all’infezione da Sars-Cov-2».
eventi fatali
Naturalmente, tutto ciò non significa che non esistano miocarditi e pericarditi da Covid. Vuol dire solo che, su questa malattia, forse non si sa ancora abbastanza per pronunciare sentenze mediatiche, spacciate per inscalfibili verità scientifiche. Sui vaccini negli under 40, un po’ di prudenza in più non avrebbe guastato. L’altro ieri, ad esempio, l’ex Cts Sergio Abrignani pontificava: «Non c’è stato alcun evento avverso mortale direttamente associato ai vaccini a mRna». Se avesse letto il British medical journal di maggio 2022, saprebbe che nel Regno Unito erano stati segnalati 4 decessi da miocardite post vaccino, negli Usa 62, nell’Ue 56. Il nesso causale, è ovvio, va stabilito con certezza. E nel frattempo? Non è che, con la scusa di Centaurus e dell’ondata autunnale, a qualcuno verrà in mente di proporre ai giovani un’altra tornata di punturine?
Sulle cure Pregliasco è in ritardo di un anno
Ormai abbiamo imparato persino a vincere lo stupore suscitato dal fatto che abbiano ancora il coraggio di parlare. Quando leggiamo la milionesima intervista a una delle tante virostar che ancora affollano il video, per un secondo ci assale lo sconforto, e ci chiediamo come mai - dopo tutte le castronerie ripetute negli ultimi due anni - ancora ci si ostini a dar voce a certi soggetti. Poi, però, tutto passa, e l’angoscia si tramuta in accettazione. Ma a tutto c’è un limite, soprattutto alla disinvoltura con cui i medici Vip, ultimamente, si sono messi a discutere di cure. Qualcuno ha evidentemente la memoria corta, però noi rammentiamo l’ostilità e la rabbia con cui, anche solo un anno fa, questi fenomeni negavano ostinatamente l’esistenza di farmaci che potessero contrastare il virus. Insultavano, gridavano, sghignazzavano di fronte ai (pochi) colleghi che tentavano di dialogare.
Tra i luminari dall’aggressione facile c’era, ad esempio, Fabrizio Pregliasco, uno che sotto l’aspetto da orsacchiotto nasconde le zanne, e pure adesso non trascura di mostrarle alla bisogna. Nel corso dei mesi è capitato ripetutamente che fosse invitato in programmi tv per smentire l’esistenza di cure per il virus, o comunque per screditare chi le proponeva. Più volte l’ho sentito (poiché ero presente) giustificare i protocolli ministeriali. A chi oggi dichiara che «tachipirina e vigile attesa» è una «invenzione dei no vax» suggeriamo di riascoltare alcuni interventi di Pregliasco o di rileggere le interviste che rilasciava nel 2021 per difendere il paracetamolo e spiegare che «vigile attesa significa monitorare».
Ebbene, sembra proprio che negli ultimi tempi il nostro dolce Fabrizio abbia cambiato idea. Già la scorsa primavera, quando i giornali riportarono che Mario Draghi si era preso il Covid, il medico del Galeazzi di Milano si lasciò sfuggire una dichiarazione curiosa: «È probabile che abbia preso Omicron 2, ora deve fare almeno sette giorni di isolamento e gli consiglierei di prendere degli antinfiammatori due volte al giorno, anche se è asintomatico». Capito? All’improvviso il nostro teledottore preferito parlava di cure, e le consigliava addirittura al premier. Era il 20 aprile del 2022: all’epoca, i ragionamenti di questo tipo non erano così diffusi sui giornali e sul piccolo schermo. Oggi, invece, sappiamo che parlare di cure è concesso, almeno da quando Giuseppe Remuzzi e colleghi, il 25 di agosto, hanno pubblicato su Lancet un robusto studio sugli antinfiammatori. Lo stesso Pregliasco, giusto ieri, a Repubblica ha spiegato che, nei prossimi mesi (oltre al solito vaccino) «sarà fondamentale anche un uso rapido dei farmaci antivirali per i soggetti fragili, nel momento in cui dovessero infettarsi. Perché possano convivere con questa malattia nel modo più sicuro possibile».
I difensori d’ufficio del governo e i fedeli adepti della Cattedrale sanitaria che amano correggere i colleghi giornalisti diranno che è tutto normale. Il tempo passa, arrivano nuovi studi, nuove possibilità emergono, dunque ci sta che Pregliasco prima demonizzasse le cure e ora le promuova. Ecco, a tal proposito avremmo qualcosa da obiettare. È vero che la scienza è una sorta di flusso, un divenire. Ma è vero pure che ci sono persone che contribuiscono al divenire cercando di agire come catalizzatori e altre che invece il flusso fanno di tutto per bloccarlo, per imbrigliarlo in un paradigma costruito dalla politica, e non dalla scienza. Così ha agito la stragrande maggioranza degli esperti italici. Costoro non mostravano dubbi: negavano con decisione che esistessero cure. Adesso, per giustificarsi, si nascondono dietro le riviste: bisogna aspettare che gli studi fossero pubblicati, che ci fossero maggiori certezze, dicono. Bene, posizione sacrosanta. Ma come mai, allora, lo studio di Remuzzi è uscito su Lancet pochi giorni fa e Pregliasco citava gli antinfiammatori già ad aprile? Il motivo, probabilmente, è molto semplice: che gli antinfiammatori funzionassero si sapeva da almeno un anno. Risale al 18 settembre del 2021 una intervista che Fredy Suter, uno degli studiosi che hanno firmato assieme a Remuzzi il lavoro su Lancet, concesse al Corriere della Sera edizione di Bergamo. Nell’articolo si raccontava come Suter avesse curato centinaia di persone, a partire da aprile 2020, con un protocollo a base di antinfiammatori.
«Sono gli antinfiammatori cosiddetti Fans, come il nimesulide, in pratica l’Aulin, o il celecoxib, che inibiscono l’enzima Cox-2, che gioca un ruolo importante nello sviluppo delle infezioni da Covid. Ma funzionano anche altri principi attivi come quelli dell’Aspirina o ibuprofene e ketoprofene», diceva Suter nella conversazione. «I dati ci danno ragione. Complessivamente, tutti i medici coinvolti e che hanno utilizzato questo tipo di farmaci, anche indipendentemente dallo studio scientifico, hanno un tasso di ospedalizzazione dei malati Covid intorno al 2%. Chi è rimasto a casa con farmaci diversi, non strettamente antinfiammatori, come la Tachipirina, ci dice il database del Mario Negri, è invece finito all’ospedale nel 14% dei casi, sette volte tanto».
Preveniamo le obiezioni: Suter non ha mai suggerito che il suo protocollo fosse alternativo al vaccino. Ma, a ben vedere, nessuno dei sostenitori delle cure precoci ha mai detto una cosa del genere. A confondere le acque, semmai, sono stati i sostenitori delle punture a oltranza: silenziavano il dibattito sulle cure con la scusa che «così si danneggia la campagna vaccinale». Mettiamo a tacere anche chi continua a gridare che nei protocolli ministeriali gli antinfiammatori erano previsti. Diceva Suter nel settembre del 2021: «Sì, il ministero della Salute ha ora inserito anche gli antinfiammatori nel protocollo delle cure di base, accanto al paracetamolo. Gli effetti più gravi del Covid si evitano intervenendo in anticipo. È fondamentale che queste cure siano tempestive, che inizino anche prima del tampone e sotto il controllo di un medico». Già: il ministero aveva inserito i Fans nelle linee guida ad aprile 2021, a 5 mesi di distanza dalle prime indicazioni sul paracetamolo. Lo aveva fatto, probabilmente, anche perché dei risultati delle ricerche di Remuzzi e Suter si discuteva insistentemente nel sottobosco. In ogni caso, un rapido accenno ai Fans (peraltro consigliati in caso di febbre o dolori) non è esattamente una promozione delle cure. E infatti né il ministero della Salute né i servetti della Cattedrale sanitaria ne hanno mai parlato sui media fino all’altro giorno (memorabile quel conduttore che gongolava: «Io mi faccio bastare il vaccino»). Di più: nel 2021 Suter raccomandava di agire rapidamente, e a quell’epoca nessuno lo faceva. L’idea di somministrare antinfiammatori prima del tampone era considerata roba da no vax.
Ulteriore curiosità. Dal 12 al 14 settembre 2021, a Roma, si svolse l’International Covid Summit, un convegno tutto dedicato alle cure. In parte fu ospitato dal Senato, e se ricordate ciò scatenò un piccolo putiferio. Si gridò allo scandalo per la «riunione no vax» patrocinata dalle istituzioni, furono girate decine di servizi televisivi indignati. Tra le varie ricerche esposte c’era anche quella di Suter, che presentò i risultati ottenuti, e fu a sua volta lambito dalle polemiche. A poco meno di 12 mesi di distanza, quel che lo studioso bergamasco aveva detto a Roma viene ripetuto addirittura da Pregliasco su Repubblica.
Resta solo una domanda: dipende dall’evoluzione della ricerca scientifica o dal fatto che certa gente ha la faccia scolpita nel bronzo? Scegliete.
Continua a leggereRiduci
Uno studio conferma che, nei maschi under 40, i problemi al cuore aumentano più col siero che con l’infezione. Intanto, altre ricerche rimettono in dubbio il nesso tra Sars-Cov-2 e infiammazioni alle membrane cardiache.Dopo aver difeso paracetamolo e vigile attesa, il telemedico invoca le terapie. Eppure, già a settembre 2021, Fredy Suter del Mario Negri spiegava l’utilità degli antinfiammatori, inseriti nei protocolli pochi mesi prima. Allora i custodi del regime sanitario li ignoravano.Lo speciale contiene due articoliRicordate il monito degli esperti ai giovani, spaventati dal rischio di miocarditi e pericarditi post vaccino? Correte all’hub, esortavano, perché il pericolo di infiammazioni cardiache è superiore dopo il Covid rispetto a dopo l’iniezione. Eppure, come su molti altri che ci sono stati propinati apoditticamente, anche su questo dogma esiste un vivace dibattito scientifico. «quantificare i pericoli»Cominciamo da un recente studio, uscito su Circulation, rivista specializzata nelle malattie cardiovascolari. L’indagine, condotta sui vaccinati dai 13 anni in su in Inghilterra, fino a metà dicembre 2021, conferma per l’ennesima volta l’incremento dell’incidenza di miocarditi, in particolare negli uomini al di sotto dei 40 anni e specialmente a 28 giorni dalla seconda dose di Moderna. Un aspetto molto importante della ricerca è che essa dimostra una connessione delle miocarditi non solo con i preparati a mRna, ma anche con il farmaco ad adenovirus, cioè Astrazeneca. Sono gli stessi autori dello studio a sottolineare che, «complessivamente, il rischio di miocarditi è maggiore dopo l’infezione che dopo l’inoculazione», ma che è opportuno soppesare l’utilità del vaccino per gli under 40: «Sebbene il beneficio netto della vaccinazione non debba essere definito solo in rapporto ai rischio di miocardite, quantificare tale rischio è importante, soprattutto nei giovani, che hanno meno probabilità di essere colpiti dalla malattia grave con l’infezione da Sars-Cov-2». Un approccio cristallino, laico, equilibrato, ben distante dalla propaganda terroristica con la quale, per mesi, insieme al ricatto del green pass, milioni di italiani sono stati trascinati all’hub e denigrati come negazionisti o assassini, se esitavano a porgere il braccio.Sarebbe poi utile approfondire la questione del nesso tra il coronavirus e le infiammazioni alle membrane del cuore. In fondo, è il motivo per cui abbiamo invitato i ragazzi a vaccinarsi. Uno studio israeliano, uscito lo scorso aprile sul Journal of clinical medicine, esaminava l’incidenza delle miocarditi e delle pericarditi in quasi 200.000 pazienti Covid non vaccinati. Il risultato era sorprendente: «I nostri dati», si leggeva nel paper, «suggeriscono che non c’è alcun aumento nell’incidenza di miocardite e pericardite nei pazienti che si sono ripresi dal Covid-19, a confronto» con il gruppo di controllo dei non infetti, composto da quasi 591.000 adulti, abbinati per sesso ed età. Il rapporto di causalità di questi disturbi con il Sars-Cov-2 non pare così solido come si è sempre sostenuto. Quello d’Israele è un esempio isolato? Non si direbbe. Nel numero di luglio del Journal of cardiovascular medicine è stato inserito un saggio, vergato da un gruppo di scienziati che operano nel nostro Paese. L’analisi è limitata alle province di Pisa, Lucca e Livorno, ma è stimolante, perché paragona i tassi d’incidenza di miocarditi e pericarditi nel periodo pre Covid a quelli registrati durante la pandemia, fino a maggio 2021. Cioè, quando la popolazione più giovane - più esposta agli effetti collaterali cardiaci dei vaccini - non era ancora stata massicciamente inoculata. Ebbene, anche stavolta le conclusioni lasciavano interdetti: «L’incidenza annuale di miocarditi era significativamente più elevata nel periodo pre Covid che in quello Covid», con una «riduzione netta del 27% dei casi». Ed essa si è abbassata in modo ancora più sensibile nella classe d’età 18-24 anni. L’incidenza delle pericarditi, invece, è rimasta sempre sostanzialmente invariata. Dunque, sia la popolazione generale, sia i ragazzi, si ammalavano di più di miocardite prima della comparsa del coronavirus. Allora, ci domandiamo noi, come mai i televirologi si sono profusi in accorati appelli pro puntura, spiegando che i giovani rischiavano più infettandosi che vaccinandosi? E non finisce qui. All’inizio del 2022, su Annual review of medicine, era comparsa una relazione sulle miocarditi da Covid «clinicamente sospette» e «provate da una biopsia». All’epoca, gli autori della revisione ribadivano che non c’era ancora «una prova definitiva derivante da biopsia endometriale/autopsia che il Sars-Cov-2 causi un danno diretto al miocardio in associazione con miocardite istologica». Gli scienziati, quindi, esortavano a impiegare criteri medici più rigorosi, per evitare «un’inaccurata stima dell’incidenza di miocarditi basata su diagnosi errate». D’altronde, alcuni mesi prima, una ricerca compiuta su materiale autoptico, pubblicata su Cells, aveva portato a concludere: «Al di fuori del tratto respiratorio, non è stato possibile attribuire nessuna specifica alterazione (isto)morfologica all’infezione da Sars-Cov-2».eventi fataliNaturalmente, tutto ciò non significa che non esistano miocarditi e pericarditi da Covid. Vuol dire solo che, su questa malattia, forse non si sa ancora abbastanza per pronunciare sentenze mediatiche, spacciate per inscalfibili verità scientifiche. Sui vaccini negli under 40, un po’ di prudenza in più non avrebbe guastato. L’altro ieri, ad esempio, l’ex Cts Sergio Abrignani pontificava: «Non c’è stato alcun evento avverso mortale direttamente associato ai vaccini a mRna». Se avesse letto il British medical journal di maggio 2022, saprebbe che nel Regno Unito erano stati segnalati 4 decessi da miocardite post vaccino, negli Usa 62, nell’Ue 56. Il nesso causale, è ovvio, va stabilito con certezza. E nel frattempo? Non è che, con la scusa di Centaurus e dell’ondata autunnale, a qualcuno verrà in mente di proporre ai giovani un’altra tornata di punturine? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vacilla-un-altro-mito-degli-esperti-piu-miocarditi-da-vaccini-che-da-virus-2657969699.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sulle-cure-pregliasco-e-in-ritardo-di-un-anno" data-post-id="2657969699" data-published-at="1661891492" data-use-pagination="False"> Sulle cure Pregliasco è in ritardo di un anno Ormai abbiamo imparato persino a vincere lo stupore suscitato dal fatto che abbiano ancora il coraggio di parlare. Quando leggiamo la milionesima intervista a una delle tante virostar che ancora affollano il video, per un secondo ci assale lo sconforto, e ci chiediamo come mai - dopo tutte le castronerie ripetute negli ultimi due anni - ancora ci si ostini a dar voce a certi soggetti. Poi, però, tutto passa, e l’angoscia si tramuta in accettazione. Ma a tutto c’è un limite, soprattutto alla disinvoltura con cui i medici Vip, ultimamente, si sono messi a discutere di cure. Qualcuno ha evidentemente la memoria corta, però noi rammentiamo l’ostilità e la rabbia con cui, anche solo un anno fa, questi fenomeni negavano ostinatamente l’esistenza di farmaci che potessero contrastare il virus. Insultavano, gridavano, sghignazzavano di fronte ai (pochi) colleghi che tentavano di dialogare. Tra i luminari dall’aggressione facile c’era, ad esempio, Fabrizio Pregliasco, uno che sotto l’aspetto da orsacchiotto nasconde le zanne, e pure adesso non trascura di mostrarle alla bisogna. Nel corso dei mesi è capitato ripetutamente che fosse invitato in programmi tv per smentire l’esistenza di cure per il virus, o comunque per screditare chi le proponeva. Più volte l’ho sentito (poiché ero presente) giustificare i protocolli ministeriali. A chi oggi dichiara che «tachipirina e vigile attesa» è una «invenzione dei no vax» suggeriamo di riascoltare alcuni interventi di Pregliasco o di rileggere le interviste che rilasciava nel 2021 per difendere il paracetamolo e spiegare che «vigile attesa significa monitorare». Ebbene, sembra proprio che negli ultimi tempi il nostro dolce Fabrizio abbia cambiato idea. Già la scorsa primavera, quando i giornali riportarono che Mario Draghi si era preso il Covid, il medico del Galeazzi di Milano si lasciò sfuggire una dichiarazione curiosa: «È probabile che abbia preso Omicron 2, ora deve fare almeno sette giorni di isolamento e gli consiglierei di prendere degli antinfiammatori due volte al giorno, anche se è asintomatico». Capito? All’improvviso il nostro teledottore preferito parlava di cure, e le consigliava addirittura al premier. Era il 20 aprile del 2022: all’epoca, i ragionamenti di questo tipo non erano così diffusi sui giornali e sul piccolo schermo. Oggi, invece, sappiamo che parlare di cure è concesso, almeno da quando Giuseppe Remuzzi e colleghi, il 25 di agosto, hanno pubblicato su Lancet un robusto studio sugli antinfiammatori. Lo stesso Pregliasco, giusto ieri, a Repubblica ha spiegato che, nei prossimi mesi (oltre al solito vaccino) «sarà fondamentale anche un uso rapido dei farmaci antivirali per i soggetti fragili, nel momento in cui dovessero infettarsi. Perché possano convivere con questa malattia nel modo più sicuro possibile». I difensori d’ufficio del governo e i fedeli adepti della Cattedrale sanitaria che amano correggere i colleghi giornalisti diranno che è tutto normale. Il tempo passa, arrivano nuovi studi, nuove possibilità emergono, dunque ci sta che Pregliasco prima demonizzasse le cure e ora le promuova. Ecco, a tal proposito avremmo qualcosa da obiettare. È vero che la scienza è una sorta di flusso, un divenire. Ma è vero pure che ci sono persone che contribuiscono al divenire cercando di agire come catalizzatori e altre che invece il flusso fanno di tutto per bloccarlo, per imbrigliarlo in un paradigma costruito dalla politica, e non dalla scienza. Così ha agito la stragrande maggioranza degli esperti italici. Costoro non mostravano dubbi: negavano con decisione che esistessero cure. Adesso, per giustificarsi, si nascondono dietro le riviste: bisogna aspettare che gli studi fossero pubblicati, che ci fossero maggiori certezze, dicono. Bene, posizione sacrosanta. Ma come mai, allora, lo studio di Remuzzi è uscito su Lancet pochi giorni fa e Pregliasco citava gli antinfiammatori già ad aprile? Il motivo, probabilmente, è molto semplice: che gli antinfiammatori funzionassero si sapeva da almeno un anno. Risale al 18 settembre del 2021 una intervista che Fredy Suter, uno degli studiosi che hanno firmato assieme a Remuzzi il lavoro su Lancet, concesse al Corriere della Sera edizione di Bergamo. Nell’articolo si raccontava come Suter avesse curato centinaia di persone, a partire da aprile 2020, con un protocollo a base di antinfiammatori. «Sono gli antinfiammatori cosiddetti Fans, come il nimesulide, in pratica l’Aulin, o il celecoxib, che inibiscono l’enzima Cox-2, che gioca un ruolo importante nello sviluppo delle infezioni da Covid. Ma funzionano anche altri principi attivi come quelli dell’Aspirina o ibuprofene e ketoprofene», diceva Suter nella conversazione. «I dati ci danno ragione. Complessivamente, tutti i medici coinvolti e che hanno utilizzato questo tipo di farmaci, anche indipendentemente dallo studio scientifico, hanno un tasso di ospedalizzazione dei malati Covid intorno al 2%. Chi è rimasto a casa con farmaci diversi, non strettamente antinfiammatori, come la Tachipirina, ci dice il database del Mario Negri, è invece finito all’ospedale nel 14% dei casi, sette volte tanto». Preveniamo le obiezioni: Suter non ha mai suggerito che il suo protocollo fosse alternativo al vaccino. Ma, a ben vedere, nessuno dei sostenitori delle cure precoci ha mai detto una cosa del genere. A confondere le acque, semmai, sono stati i sostenitori delle punture a oltranza: silenziavano il dibattito sulle cure con la scusa che «così si danneggia la campagna vaccinale». Mettiamo a tacere anche chi continua a gridare che nei protocolli ministeriali gli antinfiammatori erano previsti. Diceva Suter nel settembre del 2021: «Sì, il ministero della Salute ha ora inserito anche gli antinfiammatori nel protocollo delle cure di base, accanto al paracetamolo. Gli effetti più gravi del Covid si evitano intervenendo in anticipo. È fondamentale che queste cure siano tempestive, che inizino anche prima del tampone e sotto il controllo di un medico». Già: il ministero aveva inserito i Fans nelle linee guida ad aprile 2021, a 5 mesi di distanza dalle prime indicazioni sul paracetamolo. Lo aveva fatto, probabilmente, anche perché dei risultati delle ricerche di Remuzzi e Suter si discuteva insistentemente nel sottobosco. In ogni caso, un rapido accenno ai Fans (peraltro consigliati in caso di febbre o dolori) non è esattamente una promozione delle cure. E infatti né il ministero della Salute né i servetti della Cattedrale sanitaria ne hanno mai parlato sui media fino all’altro giorno (memorabile quel conduttore che gongolava: «Io mi faccio bastare il vaccino»). Di più: nel 2021 Suter raccomandava di agire rapidamente, e a quell’epoca nessuno lo faceva. L’idea di somministrare antinfiammatori prima del tampone era considerata roba da no vax. Ulteriore curiosità. Dal 12 al 14 settembre 2021, a Roma, si svolse l’International Covid Summit, un convegno tutto dedicato alle cure. In parte fu ospitato dal Senato, e se ricordate ciò scatenò un piccolo putiferio. Si gridò allo scandalo per la «riunione no vax» patrocinata dalle istituzioni, furono girate decine di servizi televisivi indignati. Tra le varie ricerche esposte c’era anche quella di Suter, che presentò i risultati ottenuti, e fu a sua volta lambito dalle polemiche. A poco meno di 12 mesi di distanza, quel che lo studioso bergamasco aveva detto a Roma viene ripetuto addirittura da Pregliasco su Repubblica. Resta solo una domanda: dipende dall’evoluzione della ricerca scientifica o dal fatto che certa gente ha la faccia scolpita nel bronzo? Scegliete.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
Continua a leggereRiduci
Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
Continua a leggereRiduci
Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
Continua a leggereRiduci
«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
Continua a leggereRiduci