
Nel 1868 il garibaldino Antonio Carpenè iniziò a fare concorrenza alle bollicine francesi. Fu il profeta della viticultura trevigiana.Duemila anni fa Livia, moglie dell'imperatore Augusto, teneva nel suo armadietto delle medicine, senza farselo mancare mai, il pùxinum, un vino che a parere suo e di Plinio il Vecchio, medico e scienziato, faceva miracoli. Ogni volta che l'imperatrice si sentiva fiacca o soffriva di qualche malessere prendeva la boccia del pùcino dallo scrinium e ne beveva un bel sorso. Gli storici dicono che fu grazie a quella «medicina» che Livia campò fino a 86 anni, un'età considerata a quel tempo più che veneranda.Il pùxinum della divina Augusta ha lasciato ai posteri vignaioli un doppio problema: esiste ancora quel vino? E, se sì, come si chiama oggi il vitigno che produce le uve dalle quali sgorga il succo di vino? Alla prima domanda studiosi, enologi, vignaioli e accademici rispondono in coro: «Esiste». Alla seconda il coro si spacca e il dibattito s'accende. Un po' per colpa dello stesso Plinio che fornì un'indicazione geografica che si adatta a due vini della zona carsica: «Nasce nel seno del mare Adriatico, non lungi dalla sorgente del Timavo».Chino Ermacora, scrittore e poeta friulano, sostenne finché visse che il pùcino è il terrano, vino carsico di color rubino intenso. Paolo Monelli, autore di O.P. il vero bevitore, gli dà ragione: «Mi pare che il terrano-refosco abbia maggiori titoli a vantarsi discendente di un così illustre progenitore che non lo scherzoso prosecco triestino» E subito dopo aggiunge: «Che non va confuso con quello più serio di Conegliano». Monelli ammette anche che il prosecco triestino che si produce nei dintorni del castello di Duino e di quella frazione di Trieste che si chiama, appunto, Prosecco, è un vino più pregiato.Sono molti di più i sostenitori pronti a mettere la mano sul fuoco: è il prosecco il vero discendente del pùxinum. Già nel Cinquecento il medico Pierandrea Mattioli, giurando che gli aveva ridonato il vigore perduto, descriveva entusiasticamente il vino: tenue, clarum, lucidum colore aureum odoratu gustuque gratissimum. Allo stesso Monelli vennero dei dubbi leggendo le ragioni del «dottissimo professore Giovanni Dalmasso, presidente dell'Accademia italiana della vite e del vino» che dà al prosecco la corona di legittimo discendente dal pùcino interpretando la testimonianza di Plinio pro prosecco.Nel corso dei secoli troviamo altri illustri estimatori del vino di Conegliano, a cominciare dall'imperatore Carlo V che transitando nella zona nel 1532 sorseggiò un bicchiere di bianco frizzantino esclamando, leccandosi gli augusti baffi: «Eccellentissimo». Ma a quei tempi il prosecco non era spumante e non era ancora prosecco. Lo diventò, almeno nominalmente, verso la metà del Settecento grazie al poeta Aureliano Alcanti che nel suo Roccolo Ditirambo ne parla come uno dei migliori vini e, per la prima volta nella storia, lo chiama prosecco. Il nome acquista forza con l'accademico veneto Francesco Maria Malvolti che nel 1772 lo descrive in una relazione. Ad avvicinare ulteriormente pùxinum e prosecco ci pensa il medico e botanico toscano Cosimo Giovanni Villifranchi che nel 1773 nell'Oenologia Toscana dichiara che il pùcino corrisponde all'odierno prosecco.Ma i fasti di uno dei vini italiani più venduti al mondo (nel 2013 sorpassò addirittura lo champagne come numero di ettolitri venduti e l'anno scorso sono state vendute 92 milioni di bottiglie del Prosecco Superiore Conegliano Valdobbiadene Docg e 500 milioni tra Prosecco Doc e Prosecco di Asolo) erano tutti di là da venire. Ci voleva un garibaldino a dargli la carica: Antonio Carpenè. Combattente in camicia rossa a Bezzecca, Antonio diventa il Garibaldi del prosecco nel mondo, fondando nel 1868 lo «Stabilimento Vinicolo Trevigiano con annessa distilleria a vapore». Il trentenne giovanotto, laureatosi in chimica a Pavia, è dinamico, ha le idee chiare, poggia la sua cultura su solide basi positivistiche, ma non dimentica che senza un pizzico di sana utopia i sogni non lievitano, svaniscono. Il suo sogno si appoggia sul credo: Patria, Terra e Vite (Dio e famiglia sono sottintesi).Cosa ha in mente l'ex garibaldino? Nientepopodimeno di far concorrenza ai francesi. Bollicine contro bollicine. Ma prima che quelle di Antonio Carpenè siano pronte a combattere c'è tanto da fare, tanto da lavorare. Un censimento di metà Ottocento rivela che nella zona c'è un solo filare di vite sperduto in un mare di foraggio, gelsi, colture di mais.Il profeta della viticultura trevigiana, l'Isaia del prosecco deve reclutare un esercito di vignaioli convinti a cambiare. Ce la fa. E il paesaggio anno dopo anno, anche dopo la morte del profeta avvenuta nel 1902, cambia: i colli si ricoprono di filari di glera, il nuovo nome del vitigno che concorre a fare il prosecco nella misura del 90 per cento. In 150 anni i colli della Marca Gioiosa diventano un oceano verde, ondulato, lavorato e custodito dai pronipoti di quei contadini che risposero all'appello del profeta garibaldino. Il quale, da lassù, ammira orgoglioso quello che noi vediamo da quaggiù: un paesaggio meraviglioso, unico al mondo, proclamato nel luglio dello scorso anno Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Fu una sua intuizione vincente anche la Scuola enologica di Conegliano anticamera della sezione universitaria che Padova ha aperto in città intitolandola a lui.Antonio Carpenè, il pioniere, fu il primo di una stirpe spumantistica venuta direttamente dal Risorgimento. Dopo di lui prese in mano l'azienda il figlio Etìle. Un altro figlio lo chiamò Rubidio. Se avesse potuto avrebbe battezzato con una provetta chimica tutti i rampolli che mise al mondo. Non riuscì a chiamare Enocianina la figlia perché la moglie lo minacciò di brutto. La bimba fu chiamata Maria, ma nacque col «vizio» del babbo: messo al mondo un bimbo lo chiamò Iridio. La stirpe venuta dal Risorgimento è alla quinta generazione. L'albero genealogico della Carpenè Malvolti dopo Etìle ebbe un altro Antonio, un secondo Etìle (ora settantaseienne, ma tenacemente a capo della spa di famiglia) e, ultima erede, una donna con un nome «normale»: Rosanna, presidente di una Fondazione che aiuta i giovani enologi. La sesta generazione, la figlia di Rosanna, cammina ancora su gambette incerte, ma ha l'avvenire nel nome: Etìlia.Le colline Patrimonio dell'Umanità, il vino spumeggiante che nel 1969 ottenne il riconoscimento Doc e nel 2009 la Docg, la suggestione del paesaggio richiamano frotte di turisti alla ricerca della bellezza, dell'arte, delle bontà enogastronomiche. Ovvio che anche i vip ci abbiano messo sopra gli occhi. L'ultimo in ordine di tempo è sir Elton John, mostro sacro della musica mondiale. Radio Montecarlo ha riferito di una sua visita a Conegliano; voce confermata in questi giorni, al Congresso dell'Assoenologi organizzato da Vinitaly e Fiera di Verona, presente il governatore Luca Zaia. Una compaesana del baronetto rock, la top model inglese Cara Delevingne (nomen omen) si è già lanciata nell'avventura del prosecco con le sorelle Poppy e Chloe, in collaborazione con Foss Marai, la tenuta della famiglia Biasiotto. Porta aperta per Bruno Vespa. Il conduttore televisivo e produttore di vino ha già preso in affitto un ettaro da Giancarlo Moretti Polegato (Villa Sandi) con l'intenzione di produrre prosecco Docg con l'enologo Riccardo Cottarella.Ultimo a convertirsi, anche se possedeva già un'azienda di 25 ettari sulle colline di Conegliano, Alex Del Piero, l'uomo dell'uccellino e dell'acqua che fa fare tanta plin plin. Pensa seriamente di produrre prosecco con una sua etichetta.
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