Il Prosecco è salvo, il vino un po’ meno. In una giornata - quella di giovedì - in cui sull’Italia dall’Europa è piovuto di tutto: dalle accuse di omofobia all’altolà sui balneari, abbiamo raccolto due successi significativi. Il Parlamento di Strasburgo si è convinto che la Dop economy, vale 80 miliardi, è un beneficio per tutti e 27 i paesi dell’Unione. Noi con 19 miliardi facciamo un quarto del fatturato dei prodotti Dop e Igp, ma francesi, spagnoli, greci hanno tutto l’interesse a cercare di difendere queste «specialità» dalle grinfie della Commissione che vorrebbe azzerare le produzioni agricole perché «sono nemiche dell’ambiente». Gli eurodeputati evidentemente pensano il contrario e hanno dato uno stop. Lo sanno anche i croati che appena entrati nell’Unione hanno piantato la grana Prosek. È un vino passito che si fa nel sud della Dalmazia con uve Bogdanuša, Maraština, Vugava e Plavac Mali. È un prodotto tradizionale (al massimo si arriva a 50.000 bottiglie) ma ha un vantaggio: si chiama più o meno come il nostro Prosecco (1 miliardo di bottiglie, quasi 3 miliardi di fatturato tra Conegliano-Valdobbiadene, Asolo e Prosecco Doc di cui due terzi dall’export) e fare uno spumantino dalmata per stare in scia con il «colosso» italiano poteva essere molto conveniente. Perciò pretendevano di tutelare il loro nome e cancellare le nostre bollicine. Invece Strasburgo ha dato loro torto grazie al lavoro di tessitura diplomatica fatto dai parlamentari italiani e in particolare dal relatore della commissione agricoltura, l’onorevole Paolo De Castro (è stato ministro agricolo in Italia) che - malgrado sia eletto nel Pd - ha sempre criticato la maggioranza Ursula in fatto di politiche agricole. Il Parlamento europeo ha votato nel pacchetto di emendamenti sulle nuove regole per i prodotti Dop e Igp una norma che dice: «È vietato anche per i prodotti tradizionali evocare in etichetta nomi di prodotti a denominazione d’origine protetta o a indicazione geografica protetta». Così Prosek bocciato e Prosecco salvo. Le novità sono molte e hanno messo in salvo i vini e tutti gli altri prodotti dalla certificazione dell’ufficio brevetti, hanno restituito ai consorzi dei produttori la piena potestà sulle denominazioni snellendo anche le procedure per la modifica dei disciplinari e incoraggiando il turismo, hanno esteso la protezione dei marchi anche online. C’è un passaggio che suona come una smentita delle politiche sin qui caldeggiate dalla von der Leyen. Sottolinea Paolo De Castro: «La natura stessa delle Ig e la loro tradizione secolare confermano come questi prodotti siano sostenibili di per sé. È stata eliminata la delega alla Commissione per le norme di sostenibilità perché andrebbe contro la tutela delle specificità delle singole produzioni e filiere». È il primo vero altolà che la Commissione subisce sul «delirio green». Se l’opera fatta a Strasburgo porta un po’ di respiro le cantine vedono il bicchiere mezzo vuoto. I costi indotti dalle norme europee sul green hanno fatto lievitare i prezzi di tutto: dal vetro all’energia e c’è l’incognita sugli imballaggi che - come denunciato dalla presidente di Federvini Micaela Palini - rischia di dare una pesante mazzata ai bilanci. A fronte di ciò c’è una caduta dei consumi. Nella grande distribuzione i primi tre mesi vanno in archivio con un calo del 5%. Ma anche l’export è fermo: è sotto i livelli del primo trimestre dello scorso anno che ci ha fatto segnare il record di 8 miliardi. Lo certifica la Commissione europea - anche se non può dirlo è molto soddisfatta di ciò visto che ha promosso le etichette allarmistiche dell’Irlanda - che scrive: «I consumi di vino si attesteranno in Europa a 22,5 litri pro capite annuo, un livello inferiore del pre pandemia e al di sotto della media degli ultimi cinque anni». In Italia Federvini segnala: «Il 2023 non sarà un anno facile: costi lievitati, vendite in flessione anche a seguito degli allarmi diffusi dall’Europa, crollo della redditività. Il Mol - margine operativo lordo - sarà di 530 milioni di euro contro il miliardo e 400 milioni del 2022 e i 3,4 miliardi del 2021». Le cantine guadagneranno molto meno, ma non fanno come in Francia, si tengono stretto il vino che hanno stoccato: circa una vendemmia e mezzo (più o meno 60 milioni di ettolitri). A Bordeaux invece è previsto l’espianto di 10.000 ettari di vigna per arginare il surplus della produzione. Emmanuel Macron ha offerto 6.000 euro a ettaro di compensazione, i vigneron ne vogliono il doppio. Lo stesso vale per il Rodano. La Francia vuole perdere il 10% dei suoi vigneti e avviare una campagna di distillazione del vino eccedente. I produttori chiedono un indennizzo pari a 200 milioni di euro. Il ministro agricolo Marc Fesneau ha 40 milioni, il resto lo chiede all’Europa, però ha concesso la dilazione del rimborso dei finanziamenti che le cantine hanno ricevuto durante la pandemia fino a 10 anni. Bruxelles su questi aiuti di Stato tace. In Europa la legge non è uguale per tutti.
D’estate, sotto il Montello, gli agricoltori sparano alle nuvole con i mortai per paura della grandine. E ricordando la Grande guerra sussurrano ai turisti sorpresi dai boati: «Sono i nostri ragazzi che stanno facendo neri gli austriaci». In quell’angolo magico di Veneto rurale nascono bollicine da record. Le produce Giancarlo Moretti Polegato, titolare di un primato in controtendenza: mentre il mondo boccheggia ancora per la pandemia, lui ha chiuso il 2021 con un fatturato di 121 milioni. Con un +33% che consente a Villa Sandi, la storica azienda vinicola di famiglia, di superare la barriera dei 100 per la prima volta nella storia. Piove Prosecco. Un exploit quasi paradossale per chi non produce farmaci, mascherine e non opera nel settore sanitario. Un caso che sfugge alla narrazione del momento e che conferma un antico motto contadino: «Sotto la neve il pane». Mentre tutto è immobile, chi sa lavorare dietro le quinte, innovare, aprirsi varchi in settori non esplorati, finisce per vincere.
Presidente Moretti Polegato, come spiega il record?
«Non è un caso ma la conferma del buon lavoro passato. È la somma di tre positività: la buona semina degli anni scorsi, la qualità dei processi produttivi, un prodotto evidentemente vincente. È anche il risultato della copertura capillare del consumo. In casa e all’estero, dove va il 70% delle nostre bollicine. Guardi che la spinta non è finita: il primo bimestre 2022 sta andando in continuità».
D’accordo, ma qualcosa avrà fatto la differenza. Una coincidenza, un’idea.
«Come tutti siamo stati bloccati sui viaggi, contatti diretti zero. Non potendo viaggiare noi, abbiamo fatto viaggiare il vino, che non aveva bisogno di tamponi o mascherine. Abbiamo superato la crisi con incontri online, accordi via Internet, degustazioni negli Stati Uniti con sommelier di laggiù e commentate via Skype. Da due anni a questa parte, la prima fiera in presenza è stata a Parigi la scorsa settimana. Non potevamo aspettare il vento, siamo andati a cercarlo. Adesso i mercati più interessanti per noi, oltre all’Italia, sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Francia, Estremo Oriente».
Avete cavalcato la rivoluzione digitale?
«Abbiamo scoperto, presidiato e implementato l’ecommerce, ci siamo affidati alle grandi catene di distribuzione digitale, abbiamo organizzato produzioni 4.0. Una transizione che senza emergenza sarebbe durata il triplo, è stata completata in un anno. Ora il sistema è strategico. Il business non aspetta chi dorme».
Detto così sembra perfino semplice.
«Abbiamo lavorato duro e dormito poco: per parlare con l’Austrialia e la California devi stare alzato la notte. Siamo gli unici a produrre i tre tipi storici di prosecco: il Conegliano Valdobbiadene, il Prosecco Asolo e il Prosecco interregionale. Più il rosè che ci ha dato un incremento del 15%. Più il cru Cartizze, un gioiello: da 12 anni abbiamo i tre bicchieri del Gambero rosso. Ma è stata dura: abbiamo comprato un ettaro e mezzo di collina 15 anni fa, era di nove proprietari e abbiamo dovuto metterli d’accordo tutti».
Nella vigna la tradizione resta un valore assoluto?
«Lì conta solo la qualità. Controllare la filiera dalla vigna al vino dev’essere un’operazione maniacale. Ai miei collaboratori dico sempre che la qualità non è un traguardo da raggiungere ma un’asticella da alzare un po’ alla volta, dal grappolo fino alla cantina».
Dopo Champagne e Franciacorta, ecco il Prosecco. Cosa sta cambiando in tavola?
«Il Prosecco è vincente, ma non si pone come concorrente di Franciacorta e Champagne. Ha contribuito piuttosto a cambiare le abitudini del consumatore, che oggi beve bollicine tutto l’anno. Nel mondo notiamo un consumo quotidiano, non solo legato a ricorrenze o celebrazioni. Insomma si pasteggia a Prosecco».
Proprio sicuro che sua maestà lo Champagne non si offenda?
«Guardi, le faccio un esempio. In gennaio a Saint Moritz abbiamo co sponsorizzato il Campionato del mondo di Polo; l’altro sponsor era una marca di champagne che aveva l’esclusiva da 36 anni, una vera egemonia; Villa Sandi l’ha affiancata senza problemi. Fra bollicine più che concorrenza c’è alleanza».
Tutto nasce dentro una villa palladiana ai piedi delle colline trevigiane.
«Villa Sandi è il luogo del cuore costruito da nobili veneziani nel 1622; quest’anno compie 400 anni. La mia famiglia l’ha acquistata e ristrutturata negli anni Ottanta. Abbiamo scoperto cantine sotterranee in parte realizzate durante la Grande guerra, qui siamo vicini al Piave. Un chilometro e mezzo di gallerie; le abbiamo riportare in vita. Wine Enthusiast ha inserito il tutto fra le cinque location più suggestive del mondo. Oggi ai nostri visitatori proponiamo un connubio perfetto fra vino e arte: qui in anni normali abbiamo fino a 20.000 visitatori».
L’Unesco ha definito il territorio patrimonio dell’umanità. I visitatori potrebbero centuplicare.
«La Regione Veneto ha previsto che nei prossimi anni dovremo fare i conti con un milione di turisti all’anno. Non solo Venezia, Verona, le Dolomiti, il lago di Garda, ma anche noi. Però manca hospitality. Noi abbiamo già due locande con 14 camere, ma bisogna incrementare».
Oltre a digitale, oggi va di moda la parola biodiversità. Come siete messi?
«In questa terra ci sono vigneti dal XV° secolo. Per noi la biodiversità non è una moda ma un modo di essere, un protocollo rigoroso che applichiamo da anni. Rispettiamo flora e fauna, non usiamo diserbanti, incrementiamo la presenza delle api, decisive per l’equilibrio naturale dell’ambiente. Ogni anno arrivano i certificatori e ci danno un punteggio. È sempre ottimo».
È la Sarajevo dell'agroalimentare italiano: l'Europa ci dichiara guerra. Smentendo sé stessa sferra un attacco al Prosecco, lo spumante più venduto al mondo che per noi vale oltre 3,2 miliardi di fatturato di cui 2,3 dall'estero, ma vuole colpire tutto l'agroalimentare. Cinquanta miliardi di export del made in Italy sono difficili da mandar giù per le multinazionali della nutrizione che hanno a Bruxelles due potenti alleati: i paradisi fiscali olandesi e lussemburghesi, protetti dal vicepresidente europeo Frans Timmermans, e la grande distribuzione francese.
Per strada questa lobby trova inaspettati alleati come gli onorevoli «pidistellati» che in commissione agricoltura votano a Strasburgo il via libera al «farm to fork», il programma di sostenibilità agricola dell'Ue. Paolo De Castro che se ne intende e Paola Picerno che va sul sentito dire - entrambi Pd - spiegano che quel voto rimette al centro il reddito degli agricoltori, la biodiversità. La verità come ha fatto notare l'eurodeputata leghista Silvia Sardone è molto più pericolosa: «Pd e 5 stelle danno il via libera al Nutriscore (l'etichetta a semaforo, ndr) e agli insetti commestibili». De Castro fa capire che si arriverà a un compromesso: sì al Nutriscore che piace da matti alla Nestlé, e ci sarà un perché, ma etichetta d'origine per salvaguardare Dop e Igp. Se è così sono comunque a rischio due terzi dei 150 miliardi di fatturato del nostro agroalimentare. Lo scopriremo tra il 17 e il 23 settembre quando tra Firenze e New York si tengono prima il G20 poi l'assemblea generale dell'Onu sul cibo con l'Oms che ha già detto: «Il Nutriscore è la manna dal cielo».
Intanto si comincia con lo spumante che è comunque una Dop. I croati producono un vino dolce nella zona di Zagabria da uve Bogdanuša, Maraština, Vugava e Plavac Mali. Il Prosek è un prodotto tradizionale, la quantità è risibile, la qualità pure. Ebbene i croati hanno scoperto che nel regolamento europeo una denominazione che dimostri tradizionalità può essere tutelata. Hanno avanzato la richiesta di registrazione del Prosek preparandosi poi a trasformarlo in spumante e a farci una concorrenza totale. L'Europa avrebbe dovuto dichiarare irricevibile quella richiesta perché il regolamento continentale vieta che vi siano due denominazioni in concorrenza a maggior ragione se una - come lo spumante italiano che è incardinato a Prosecco, un borgo di confine tra Friuli e Veneto - ha un riferimento territoriale. E invece il commissario europeo all'Agricoltura Janusz Wojciechowski e il presidente Ursula von der Leyen hanno appoggiato la richiesta croata ordinandone la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale europea, sostenendo che la sola omonimia tra prodotti non è condizione di non ammissibilità. Ora restano meno di 60 giorni per bloccare i croati.
Ma ciò che ingigantisce - come se non fosse già abbastanza grosso - il caso Prosecco è che l'Europa ha smentito sé stessa. Nel 2003 dette ragione all'Ungheria che produce il Tokaj (anche quello un vino passito) obbligando i vignaioli del Friuli Venezia Giulia ad abbandonare la denominazione Tocai del loro vino bianco più popolare. Stavolta Bruxelles decide a parti invertite. Basta questo per capire che nel mirino c'è tutto il made in Italy, perché è insopportabile che un Paese che ha lo 0,5% delle terre del pianeta faccia così tanti quattrini con l'agroalimentare.
Il ministro agricolo Stefano Patuanelli, pentastellato e più interessato a Giuseppe Conte che ai contadini, si è per ora limitato a una nota di biasimo. Per fortuna che c'è Gian Marco Centinaio, sottosegretario leghista alle Politiche agricole. Ha convocato per oggi il gruppo tecnico del ministero per preparare l'opposizione alla richiesta croata. «Coinvolgiamo», ha detto Centinaio, «le rappresentanze del Friuli Venezia Giulia, del Veneto, i produttori, le associazioni agricole, il sistema vino per fare squadra e rispondere in modo tempestivo. Se Bruxelles sostiene di voler tutelare le eccellenze dell'Ue allora deve tutelare anche il Prosecco che è un'eccellenza non solo italiana, ma europea». Chi è pronto a fare le barricate è Luca Zaia, presidente del Veneto. Da ministro dell'Agricoltura fece il Prosecco Doc per dare base territoriale alla denominazione e dice: «Non ho parole per commentare quanto accaduto. Di questa Europa non sappiamo cosa farcene. Un'Europa che non difende l'identità dei suoi territori e che dovrebbe conoscere storia e valore del Prosecco. Vale la pena ricordare che le colline del Prosecco sono Patrimonio dell'umanità».
A gridare forte sono anche il presidente del Prosecco Doc Stefano Zanette, quello di Coldiretti Ettore Prandini, che sottolinea come il Prosecco stia facendo +35% di export nel post Covid, l'eurodeputata della Lega Mara Bizzotto, che bolla come «fraudolenta la richiesta croata», e il suo collega Marco Dreosto, «pronto a portare i vignaioli sotto i Palazzi di Bruxelles». Il Nord Est per l'Europa spuma sì, ma di rabbia.
Duemila anni fa Livia, moglie dell'imperatore Augusto, teneva nel suo armadietto delle medicine, senza farselo mancare mai, il pùxinum, un vino che a parere suo e di Plinio il Vecchio, medico e scienziato, faceva miracoli. Ogni volta che l'imperatrice si sentiva fiacca o soffriva di qualche malessere prendeva la boccia del pùcino dallo scrinium e ne beveva un bel sorso. Gli storici dicono che fu grazie a quella «medicina» che Livia campò fino a 86 anni, un'età considerata a quel tempo più che veneranda.
Il pùxinum della divina Augusta ha lasciato ai posteri vignaioli un doppio problema: esiste ancora quel vino? E, se sì, come si chiama oggi il vitigno che produce le uve dalle quali sgorga il succo di vino? Alla prima domanda studiosi, enologi, vignaioli e accademici rispondono in coro: «Esiste». Alla seconda il coro si spacca e il dibattito s'accende. Un po' per colpa dello stesso Plinio che fornì un'indicazione geografica che si adatta a due vini della zona carsica: «Nasce nel seno del mare Adriatico, non lungi dalla sorgente del Timavo».
Chino Ermacora, scrittore e poeta friulano, sostenne finché visse che il pùcino è il terrano, vino carsico di color rubino intenso. Paolo Monelli, autore di O.P. il vero bevitore, gli dà ragione: «Mi pare che il terrano-refosco abbia maggiori titoli a vantarsi discendente di un così illustre progenitore che non lo scherzoso prosecco triestino» E subito dopo aggiunge: «Che non va confuso con quello più serio di Conegliano». Monelli ammette anche che il prosecco triestino che si produce nei dintorni del castello di Duino e di quella frazione di Trieste che si chiama, appunto, Prosecco, è un vino più pregiato.
Sono molti di più i sostenitori pronti a mettere la mano sul fuoco: è il prosecco il vero discendente del pùxinum. Già nel Cinquecento il medico Pierandrea Mattioli, giurando che gli aveva ridonato il vigore perduto, descriveva entusiasticamente il vino: tenue, clarum, lucidum colore aureum odoratu gustuque gratissimum. Allo stesso Monelli vennero dei dubbi leggendo le ragioni del «dottissimo professore Giovanni Dalmasso, presidente dell'Accademia italiana della vite e del vino» che dà al prosecco la corona di legittimo discendente dal pùcino interpretando la testimonianza di Plinio pro prosecco.
Nel corso dei secoli troviamo altri illustri estimatori del vino di Conegliano, a cominciare dall'imperatore Carlo V che transitando nella zona nel 1532 sorseggiò un bicchiere di bianco frizzantino esclamando, leccandosi gli augusti baffi: «Eccellentissimo». Ma a quei tempi il prosecco non era spumante e non era ancora prosecco. Lo diventò, almeno nominalmente, verso la metà del Settecento grazie al poeta Aureliano Alcanti che nel suo Roccolo Ditirambo ne parla come uno dei migliori vini e, per la prima volta nella storia, lo chiama prosecco. Il nome acquista forza con l'accademico veneto Francesco Maria Malvolti che nel 1772 lo descrive in una relazione. Ad avvicinare ulteriormente pùxinum e prosecco ci pensa il medico e botanico toscano Cosimo Giovanni Villifranchi che nel 1773 nell'Oenologia Toscana dichiara che il pùcino corrisponde all'odierno prosecco.
Ma i fasti di uno dei vini italiani più venduti al mondo (nel 2013 sorpassò addirittura lo champagne come numero di ettolitri venduti e l'anno scorso sono state vendute 92 milioni di bottiglie del Prosecco Superiore Conegliano Valdobbiadene Docg e 500 milioni tra Prosecco Doc e Prosecco di Asolo) erano tutti di là da venire. Ci voleva un garibaldino a dargli la carica: Antonio Carpenè. Combattente in camicia rossa a Bezzecca, Antonio diventa il Garibaldi del prosecco nel mondo, fondando nel 1868 lo «Stabilimento Vinicolo Trevigiano con annessa distilleria a vapore». Il trentenne giovanotto, laureatosi in chimica a Pavia, è dinamico, ha le idee chiare, poggia la sua cultura su solide basi positivistiche, ma non dimentica che senza un pizzico di sana utopia i sogni non lievitano, svaniscono. Il suo sogno si appoggia sul credo: Patria, Terra e Vite (Dio e famiglia sono sottintesi).
Cosa ha in mente l'ex garibaldino? Nientepopodimeno di far concorrenza ai francesi. Bollicine contro bollicine. Ma prima che quelle di Antonio Carpenè siano pronte a combattere c'è tanto da fare, tanto da lavorare. Un censimento di metà Ottocento rivela che nella zona c'è un solo filare di vite sperduto in un mare di foraggio, gelsi, colture di mais.
Il profeta della viticultura trevigiana, l'Isaia del prosecco deve reclutare un esercito di vignaioli convinti a cambiare. Ce la fa. E il paesaggio anno dopo anno, anche dopo la morte del profeta avvenuta nel 1902, cambia: i colli si ricoprono di filari di glera, il nuovo nome del vitigno che concorre a fare il prosecco nella misura del 90 per cento. In 150 anni i colli della Marca Gioiosa diventano un oceano verde, ondulato, lavorato e custodito dai pronipoti di quei contadini che risposero all'appello del profeta garibaldino. Il quale, da lassù, ammira orgoglioso quello che noi vediamo da quaggiù: un paesaggio meraviglioso, unico al mondo, proclamato nel luglio dello scorso anno Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco.
Fu una sua intuizione vincente anche la Scuola enologica di Conegliano anticamera della sezione universitaria che Padova ha aperto in città intitolandola a lui.
Antonio Carpenè, il pioniere, fu il primo di una stirpe spumantistica venuta direttamente dal Risorgimento. Dopo di lui prese in mano l'azienda il figlio Etìle. Un altro figlio lo chiamò Rubidio. Se avesse potuto avrebbe battezzato con una provetta chimica tutti i rampolli che mise al mondo. Non riuscì a chiamare Enocianina la figlia perché la moglie lo minacciò di brutto. La bimba fu chiamata Maria, ma nacque col «vizio» del babbo: messo al mondo un bimbo lo chiamò Iridio. La stirpe venuta dal Risorgimento è alla quinta generazione. L'albero genealogico della Carpenè Malvolti dopo Etìle ebbe un altro Antonio, un secondo Etìle (ora settantaseienne, ma tenacemente a capo della spa di famiglia) e, ultima erede, una donna con un nome «normale»: Rosanna, presidente di una Fondazione che aiuta i giovani enologi. La sesta generazione, la figlia di Rosanna, cammina ancora su gambette incerte, ma ha l'avvenire nel nome: Etìlia.
Le colline Patrimonio dell'Umanità, il vino spumeggiante che nel 1969 ottenne il riconoscimento Doc e nel 2009 la Docg, la suggestione del paesaggio richiamano frotte di turisti alla ricerca della bellezza, dell'arte, delle bontà enogastronomiche. Ovvio che anche i vip ci abbiano messo sopra gli occhi. L'ultimo in ordine di tempo è sir Elton John, mostro sacro della musica mondiale. Radio Montecarlo ha riferito di una sua visita a Conegliano; voce confermata in questi giorni, al Congresso dell'Assoenologi organizzato da Vinitaly e Fiera di Verona, presente il governatore Luca Zaia. Una compaesana del baronetto rock, la top model inglese Cara Delevingne (nomen omen) si è già lanciata nell'avventura del prosecco con le sorelle Poppy e Chloe, in collaborazione con Foss Marai, la tenuta della famiglia Biasiotto. Porta aperta per Bruno Vespa. Il conduttore televisivo e produttore di vino ha già preso in affitto un ettaro da Giancarlo Moretti Polegato (Villa Sandi) con l'intenzione di produrre prosecco Docg con l'enologo Riccardo Cottarella.
Ultimo a convertirsi, anche se possedeva già un'azienda di 25 ettari sulle colline di Conegliano, Alex Del Piero, l'uomo dell'uccellino e dell'acqua che fa fare tanta plin plin. Pensa seriamente di produrre prosecco con una sua etichetta.
In tempi di tassi nulli o negativi alziamo il tasso alcolico dell'investimento. Il vino in questo momento sembra essere un bene rifugio tornato di moda. Lo è per chi ha ingenti capitali da investile, lo è anche per chi intende levarsi qualche soddisfazione. Anche perché, come diceva Gianni Agnelli, «investire in vino conviene: male che vada te lo bevi». La frase fu pronunciata quando l'Avvocato andò alla conquista di Chateau Margaux, che è come dire il sancta sanctorum del vino di Bordeaux. Erano gli anni in cui l'Italia poteva permettersi di fare shopping oltre frontiera.
Oggi le cose vanno in modo assai diverso. Sono gli stranieri a venire a comprare in Italia. Un male? Mah. Di certo è una soddisfazione vedere i francesi che cominciano a comprare vigne italiane. Nel mirino hanno messo la Toscana: Bolgheri e Montalcino in particolare. A Montalcino tre anni fa i Descours, sono i signori dello champagne proprietari della Piper Heidsieck, si sono comprati per una cifra mai precisata, si parla di 300 milioni, la Biondi Santi che è la «casa» che ha creato il Brunello. Non contento pare che monsieur Charles Descours stia cercando di fare un altro colpo. Intanto c'è la possibilità che la Cantina sociale di Montalcino (non ha vigna, ma produce 300.000 bottiglie di Brunello) sia in procinto di passare di mano per una ventina di milioni di euro. Una cosa è sicura: Montalcino è in cima agli appetiti immobiliari dei grandi del vino anche perché stanno per andare in commercio tre annate straordinarie e comprare oggi le cantine con il vino in affinamento vuol dire portarsi a casa del valore aggiunto considerevole.
«Non c'è dubbio», spiega Alessandro Regoli, direttore del sito Winenews, «che Montalcino oggi sia molto attrattivo per gli investimenti. Ci sono trattative in corso e anche i grandi marchi del lusso mondiale (e si pensa subito a Bernard Arnault e Francois Pinault che hanno nei loro portafogli prestigiosissime cantine, ndr) si sono affacciati su questo territorio. Ma più in generale sembra che stiano riprendendo gli investimenti soprattutto in tre territori: Barolo, Bolgheri e Montalcino».
Winenews ha stilato una classifica dei territori da vino dove il valore è massimo, con incrementi che negli ultimi anni sono stati superiori all'8% all'anno. Ancora Regoli sottolinea: «Nel Barolo si parla di oltre 1,2 milioni di euro a ettaro, cifra che triplica nei cru più prestigiosi; a Bolgheri, in pochi anni, si è arrivati ai 500.000; a Montalcino un ettaro a Brunello quota sui 900.000 euro a valori di mercato diversi dalle stime del Crea, per esempio, che calcola una forbice tra i 250.000 e i 700.000 euro ad ettaro».
Ma se volessimo guardare alle medie nazionali potremmo dire che in Italia un terreno agricolo vale sui 20.000 euro a ettaro, uno a vigna oscilla tra i 30 e i 50.000. E questo sembra l'anno buono della fiammata dei prezzi proprio per l'arrivo d' investitori stranieri. Molto attivi il fondo americano Krause che sta investendo nella zona del Barolo e il fondo belga-olandese Atlas Invest che ha scelto la Toscana. A dire che il mercato è in effervescenza è la creazione di un fondo internazionale che investe solo in vigneti; è Wineyard & Terroir fund che ha già raccolto 50 milioni di euro per investire solo in tre zone del mondo: Borgogna, Bordeaux e Italia. Anche in casa nostra cominciano a esserci operatori che guardano a queste forme di investimento. Sergio Dagnino - per 16 anni a capo di Caviro - ha lanciato Made in Italy fund, il fondo di private equity di Quadrivio & Pambianco, che investe nel settore vitivinicolo attraverso Prosit spa.
Ma c'è un'alternativa meno onerosa e di ampia soddisfazione: investire in bottiglie. L'Indice Live ex che misura le performance dei migliori vini del mondo ha stabilito che le bottiglie italiane negli ultimi due anni hanno reso di più di quelle francesi e che il vino supera gli andamenti medi di Borsa. Il vino italiano comincia a essere percepito ormai come un bene rifugio. Proprio il Liv ex, che ha assicurato rendimenti dell'8% annui fino al 2018, nei primi nove mesi del 2019 ha accusato flessioni importanti dei vini francesi con lo champagne che è rimasto piatto e i vini di Borgogna che hanno fatto -5%, mentre i vini italiani hanno messo a segno un +3% che in tempo di rendimenti zero non è affatto male.
Questo anche perché i pesi del paniere del Liv ex sono un po' cambiati. Bordeaux «vale» meno, sale la Borgogna, ma cresce soprattutto l'Italia che piazza dieci cantine tra le cento blue chips del vino mondiale.
Anche in forza delle performance di alcune etichette con Masseto (Bolgheri, cantina Ornellaia: è un Merlot), ottavo per prezzo medio per cassa, Sassicaia (Bolgheri, Cabernet Sauvignon e Franc, Tenuta San Guido), il vino più scambiato, e il Barolo di Giacomo Conterno, +24,4% su base annua. Ora il dubbio è: tenerselo o berlo?





