2019-05-16
Una serie riapre il caso del mostro di Udine
Una docufiction di Sky riporta alla luce gli omicidi di un dimenticato serial killer italiano, la cui identità è ancora avvolta nel mistero. Colpì tra il 1971 e il 1989, uccidendo giovani donne. E ora i parenti delle vittime chiedono di riprendere in mano il fascicolo sui delitti.Marina Lepre aveva un occhio aperto ed uno chiuso, come a volerlo vedere solo di sguiscio lo strazio del proprio corpo abbandonato nella fredda campagna che circonda Udine. Se ne stava prona, quando l'hanno trovata, malamente adagiata su un fianco. L'abito a fiori, con la trama allegra di una primavera ancora lontana, era intriso di sangue: le calze calate fino alle caviglie, le mutande abbassate. In viso, aveva l'espressione stupefatta che lascia la morte, sul collo, un taglio da macellaio. È stata scannata nella notte del 26 febbraio 1989, Marina Lepre, ma chi abbia posto fine a quella sua esistenza disgraziata nessuno lo ha mai scoperto. La Lepre, una donna di quarant'anni affetta da una sintomatologia di tipo persecutorio, è stata annoverata tra le vittime del cosiddetto mostro di Udine. Qualche foto, qualche titolo di giornale, poi più nulla. Chi fosse il mostro di Udine non è stato mai scoperto e il caso della Lepre è stato archiviato.Allora, nel 1989, non c'è stata grande indignazione. La Lepre sembrava avviata ad un destino certo, vittima di sé stessa prima che del mostro. Il divorzio dal marito, un ingegnere stimato, l'aveva messa in ginocchio. Beveva, Marina, cui il giudice aveva tolto la custodia della figlia, Fedra. Beveva, poi faceva l'autostop. Se ne tornava a Cividale, e al convivente dell'epoca raccontava bizzarre storie di complotti e persecuzioni. Credeva che qualcuno volesse farle del male, lamentava spesso di essere seguita. Era matta, dicevano in paese: una cittadina di serie B, come le tante che, tra il 1971 e il 1989, sono finite preda del mostro.Marina Lepre è stata l'ultima vittima del serial killer. E, a trent'anni dall'archiviazione del suo caso, è una serie tv a chiederne la riapertura. Perché sia fatta giustizia, perché la Lepre e quelle vittime di serie B, prostitute e tossicodipendenti, possano trovare la propria pace. Il mostro di Udine, al debutto su Crime+Investigation (canale 119 di Sky) alle 22 di mercoledì 22 maggio, è stata propedeutica ad una richiesta di riapertura delle indagini. Federica Tosel, legale delle famiglie di Maria Luisa Bernardo e Maria Carla Bellone, l'ha depositata alla procura di Udine dopo che la serie, grazie ad una ricostruzione minuziosa di quanto accaduto, ha portato alla luce nuovi reperti. Reperti che le tecnologie dell'epoca non avrebbero potuto analizzare, reperti che potrebbero portare alla risoluzione dei casi Bernardo e Bellone.Le donne, come Marina Lepre, sono state annoverate tra le vittime del mostro. Maria Luisa Bernardo, uccisa a 26 anni da 22 coltellate, era una prostituta, madre di due figli e moglie di un marito invalido. Maria Carla Bellone, ammazzata barbaramente nel 1980, vendeva il proprio corpo per procurarsi l'eroina. Era una tossica, bazzicava la strada. Spesso, dormiva in stazione. Maria Carla Bellone, 19 anni, è stata trovata in condizioni pressoché identiche a quella di Marina Lepre. La gola era tagliata da orecchio ad orecchio. Un taglio profondo davanti al cui ricordo, nelle quattro puntate della serie Sky, l'ex carabiniere Edi Sanson ancora vacilla. «Si poteva vedere dentro», ricorda, spiegando come tutte le vittime attribuite al mostro di Udine portassero sul ventre segni simili ad una firma.Una, due, tre incisioni, praticate sul corpo delle donne, dallo stomaco al pube evitando l'ombelico. La precisione dei tagli aveva un che di chirurgico. Il segno della lama era preciso, troppo perché a praticarlo potesse essere stata una mano inesperta, armata di un semplice coltello da cucina. Doveva essere un bisturi, si diceva all'epoca, pensando che ad uccidere fosse stato un medico. Uno della Udine bene, un borghese poi morto senza processo. Le indagini, che pur avevano portato all'individuazione di un sospettato, si sono interrotte presto. Allora, si è solo saputo mettere a fuoco l'esistenza di un serial killer, cui, ad oggi, sono attribuite quattro, forse cinque delle tredici morti inflitte a donne friulane tra il 1971 e il 1989.«Il mostro di Udine è quel che chiamiamo un serial killer missionario», spiega, nella miniserie Sky, Cinzia Gimelli, psicologa clinica, giuridica e investigativa, raccontando come l'uomo abbia probabilmente creduto di dover ripulire la società dalla feccia. Dalle prostitute, dalle tossicomane, dalle donne con il vizio dell'alcol. Il mostro di Udine si credeva incaricato di un compito quasi divino. Uccideva in nome del bene, incidendo sulle sue vittime la firma macabra della propria pazzia. Era uno squilibrato, un maniaco. Lo era e, forse, lo è ancora, perché alla storia più sanguinosa che si sia mai consumata nel silenzio borghese di Udine, ancora, non è stato dato un finale.La speranza, come accaduto negli Stati Uniti con la serie Netflix Making a murderer e il caso Steven Avery, è che la produzione di Crime+Investigation possa catalizzare una seconda volta l'attenzione mediatica, contribuendo con ciò ad ottenere una verità processuale. Per le vittime e per chi al mostro di Udine è sopravvissuto, per Fedra Peruch che, a nove anni, quella domenica mattina in cui la madre Marina è stata trovata morta, ha bussato alla sua porta senza ottenere mai alcuna risposta.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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