2021-03-13
Un formaggio occitano stregò Carlo Magno
La dorsale piemontese di valli al confine transalpino è caratterizzata da una cucina povera di montagna, solidale per tradizione. L'oro bianco del territorio sono l'aglio di Caraglio, strategico per la bagna cauda, e un prodotto caseario d'eccellenza: il castelmagnoNel mosaico di contaminazioni di popoli, usi e costumi del nostro Paese non poteva mancare l'Occitania, quella dorsale piemontese di valli al confine transalpino che, un tempo, facevano parte di un'area estesa sino ai Pirenei, definita tale per aver sostituito allo «oui» parigino un più sbrigativo «oc». Da lì il patois, un dialetto provenzale alpino giunto sino a noi. Terre di montagna con residenti resistenti allo scorrere del tempo tanto che, tra gli addetti ai lavori, un mantra ricorrente recitava «il mangiare più diffuso nella valli occitane era la cinghia», con la ciliegina sul piatto «la fame è un'ottima cuoca», ovvero quando, da mane a sera, era necessario far di necessità virtù, di tutto. Una cucina custodita gelosamente nelle memorie di famiglia. Il primo testo conosciuto scritto ai primi dell'Ottocento da Madeleine Mouston-Jahier, riscoperto in anni recenti da un mestolo illuminato quale Walter Eynard. Vite alpine, in cui fare i conti con il quotidiano. Tra le cose in dote a una giovane sposa una madia per fare il pane, custodendone il lievito. Un rocchetto per filare la canapa, indispensabile per confezionare i teli utili a conservare i sacchi di grano e altri cereali. Agli sposi fortunati veniva regalata una capra, per aiutarli nei primi momenti di avviamento della vita coniugale, anche perché il suo latte era utile ai bimbi con qualche intolleranza a quello vaccino. Nelle famiglie patriarcali il reparto notte era affiancato alle stalle, per uno scambio di calorosi flussi, anche se, in autunno, nelle varie fiere zootecniche, ogni famiglia esponeva in vendita quei capi che sapeva non esser in grado di mantenere con le diete invernali frutto del fieno messo da parte. La proprietà bovina era una sorta di redditometro. Un capo significava essere ai limiti della povertà, con cinque non avere problemi. Ma la solidarietà tra famiglie era consolidata. Qualora un capo fosse venuto meno, per malattia o incidente al pascolo, si contavano le bestie di una comunità. Della vittima si facevano altrettanti mucchi di carne poi, ognuno, ne avrebbe acquistati in base alla sua quota di «mandria comune». Così, nelle famiglie, si aveva modo di mettere un po' di carne sul piatto e ricompensare, in qualche modo, chi l'aveva perduta. Tra queste valli si è creata una lodevole filiera della memoria, attraverso una serie di piccoli musei etnografici che raccontano molto di storie e memorie condivise con l'epicentro in Valle Maira. Da qui partivano gli anciuè, i venditori di acciughe, un tempo stagionali che, cessata la stagione d'alpeggio, si recavano prevalentemente a Genova, o nei principali mercati di pianura, per fare incetta di acciughe sotto sale. Come ha ben sottolineato Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food, avevano una «profonda conoscenza del mestiere, tanto da essere montanari che conoscevano il pesce come marinai». Eroi del loro tempo. Sul carretto un sacco di tela che serviva per infilarsi a dormire, magari ospiti di un fienile amico. «Abiti comodi, resistenti al sale e all'umidità. Un panciotto dalle ampie tasche», sorta di cassaforte ambulante. Il forno condiviso, nei villaggi, al ritmo dello tsalendal. Ogni famiglia, nella stagione invernale, procedeva ad una sola infornata. Quando le forme uscivano, sugli assi di legno, i giovani del posto, con complicità reciproca, ne prendevano una dalle rispettive competenze e andavano poi a far festa, «far la pes», nelle stalle, in buona compagnia di bacco (e non solo). Pane che si conservava sulle tsavilhià, sorta di assi sospese in ambienti ben areati, tanto da tenere lontani malintenzionate muffe o roditori. Era un pane barbarià, frutto della macina di farine di frumento e segale. Una sinergia necessaria in quota. Le segale, meno costose, ma sensibili ai venti d'alpeggio, e quindi sostenute dal più robusto frumento. Ma il mix delle loro radici fa la differenza, nello scambio di minerali, ed ecco così nascere la zuppa mitouna, o le cajette, gnocchi di pane raffermo, con patate, salame e uova. Vi sono due patate occitane custodite nella dispensa. La piatlina (appiattita) e la ciarda (cioè rossa, tradotta dall'occitano). Sono le protagoniste degli gnocchi di Castelmagno. Ambasciatore dei loro tuberi Lucio Alciati, un illuminato valorizzatore delle eccellenze valligiane. Un tempo vi era una curiosa usanza. Le patate di valle spuntavano in piena estate, come tali venivano portate negli alpeggi in quota, quale merce di scambio, posto che lì, il tubero, maturava più tardi. A seguire il percorso inverso. Parte delle patate montanare tornavano poi a valle, perché qui più produttive per la stagione seguente. Protagoniste della festa dell'Immacolata, detta anche la Madonna delle cujette (gli gnocchi). Alciati è testimone anche di altre storie, come l'aglio di Caraglio, l'oro bianco della valle. Un aglio «gentile», cioè senza «effetti collaterali», strategico per la bagna caoda. Leggenda vuole che, in tempo di pestilenze, le famiglie si rifugiassero nelle cantine cibandosi di quello, lontani dal mondo. La vigilia di san Giovanni una tradizione radicata. Presso la chiesa si allestiva una culla di legno con varie teste d'aglio infiocchettate. Ne veniva dato omaggio a ogni nuovo nato nell'anno, con relativa foto. Che però viene consegnata, solo brevi manu, a chi si presenta anche l'anno dopo. A Caraglio hanno riscoperto lo zafferano. Nel medioevo usato per produrre tinture, ripescato nel tempo da cultori certosini. Antonio del Puy, premiato a una fiera di Torino nel 1870 e poi, in anni recenti, Mauro Rosso. Il fagiolo del babi, con la traduzione letterale, reciterebbe «fagiolo del rospo». Un fagiolo pigro che, nonostante trovi pertiche di castagno alte cinque metri per aiutarlo a crescere, tende sempre «al pian dei babi», cioè là dove strisciano i rospi. Veronelli, quando lo incrociò lungo i suoi percorsi, così ne scrisse «da un rospo del campo a un principe nel piatto». Ottimo con l'ula al furn, un passato di verdure tradizione dell'Epifania. Ula che sta per pentola di terracotta. Qui vige la prova del cucchiaio (di legno). Quando questo resta in piedi, al centro della ula, il piatto è pronto. Del maiale è nota la generosità, dona tutto. La sua vescica veniva gonfiata e appesa per farla essiccare. Tornava utile come borsa del ghiaccio, magari per un mal di denti galeotto. Innumerevoli le preparazioni, più o meno ortodosse. Curiosa la mica della val di Susa, un macinato che, per risparmiare sul budello, si lavorava in superficie con farina di segale e pepe nero, pressato dentro gli stampi usati per le tome, tanto da passare per un cacio stagionato a lungo. Sui formaggi non c'è storia, il castelmagno ha stregato generazioni di palati, tradizione vuole a partire da Carlo Magno, anche se è risorto a nuova vita grazie a Gianni De Matteis, giornalista e sindaco che ha coinvolto come testimonial nomi quali Mario Soldati o Giorgio Bocca. Un capitolo a parte lo meriterebbe il bruss (derivato dall'occitano «bruciare»), un misto di formaggi fermentati così coinvolgente al palato da far recitare «solo l'amore è più forte del bruss». La carta dei dolci è una lista di peccati di gola, come i droneresi o il biscotto Giolitti, frutto dell'estro di Giuseppe Galletti, pasticcere e sindaco di Dronero, o la torta amara della Vallera. Il saluto della staffa, spalmabile a tutto menù, è con i gofri, cugini delle miacce di terra walser. Un tempo il cibo dei poveri. Una pastella leggerissima resa cialda croccante su piastre di ghisa (le goffriere) unte con olio e lardo, farcite a piacere. Le superfici a nido d'ape tanto che, ancora una volta, ci soccorre la matrice occitana, laddove, per goffre, si intende il favo del miele.