2020-05-14
Un altro rapito liberato e convertito. Ma su Tacchetto niente show di Stato
L'architetto veneto ha vissuto con la fidanzata canadese lo stesso dramma di Silvia Romano per quasi 18 mesi. È tornato a casa il 15 marzo. Ma nel silenzio. Il padre: «Lui è scappato e ad accoglierlo... nessuno».L'una in parata, l'altro in sordina. Mentre per accogliere Silvia Romano si sono mobilitati i vertici del governo, dal premier Giuseppe Conte al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, per Luca Tacchetto nessuno si è fatto avanti nemmeno per una stretta di mano (virtuale). Nessuno ha suonato la fanfara, nessuno ha suonato nemmeno il citofono. Eppure, entrambi hanno vissuto il dramma della prigionia a opera di gruppi terroristici, quasi per lo stesso periodo: 18 mesi. Ed entrambi sono tornati a casa a distanza di qualche settimana, domenica scorsa Silvia, il 15 marzo invece l'architetto veneto. «Sono davvero contento che la ragazza rapita sia salva», ha confessato il papà di Luca, Nunzio Tacchetto, in una discussa intervista al Mattino di Padova, «ma chissà perché erano tutti schierati ad accoglierla. Ne parla il mondo (…) Una l'hanno liberata, l'altro si è liberato. La differenza è tutta qui (…) Poi però ti dicono che bisogna stare muti». Polemica che il genitore, ex sindaco di centrodestra di Vigonza (Padova) e attuale presidente del Consiglio comunale, ha successivamente cercato di smorzare chiudendosi a riccio. «Per noi tutto è finito il 15 marzo. Il resto non ci interessa (…) quanto appare sul Mattino di Padova è purtroppo un brutto esempio di giornalismo subdolo», ci ha scritto in un messaggio Whatsapp dopo diverse telefonate andate a vuoto. Nessun commento sul ritorno a casa del concittadino pure dal sindaco, Innocente Marangon, alter ego politico di Tacchetto, che al nostro giornale ha evocato il «riserbo delle indagini». Eppure, il fastidio è palpabile nel piccolo Comune veneto. Soprattutto quando si fa cenno alla conversione di Luca Tacchetto, durante la prigionia, proprio come accaduto a Silvia. Lo ha riferito lo stesso giovane architetto agli inquirenti che lo hanno interrogato subito dopo l'arrivo in Italia con barbone d'ordinanza, ed è stato confermato al nostro giornale da fonti diplomatiche: «Non appena liberato ha detto che si era convertito solo perché il compagno di prigionia Nicola Chiacchio (ancora nelle mani dei terroristi, ndr) prima veniva maltrattato e dopo la conversione è stato trattato meglio». Anche uno degli investigatori che si è occupato del caso ci ha confermato la notizia del cambio di fede: «In un posto dove si esercita la violenza in nome della religione è normale che se ti converti vieni trattato meglio. Sì ha detto di essersi convertito. Ma è normale che succeda in quelle situazioni, un po' perché ti senti solo, un po' perché conviene. Poi bisogna vedere se una volta tornato a casa si rimane di quell'idea». Purtroppo il verbale di Tacchetto è stato segretato e nessuno a casa del ragazzo ha voluto toglierci questa curiosità. Anzi, papà Nunzio ha cercato di depistare smentendo la circostanza rivelata, per la prima volta, lunedì scorso proprio da La Verità. Luca, ad aprile, rompendo per la prima e unica volta il silenzio, dopo aver tagliato la barba, ha solo detto in una breve intervista alla Rai di essere preoccupato per i compagni ancora incarcerati, Chiacchio e padre Pier Luigi Maccalli. La famiglia, oltre che per la passione politica, è conosciuta anche per l'impegno nel sociale e per la religiosità. «Sono molto cattolici», ci ha detto il parroco, don Alessandro Spiezia, che però non ha ancora avuto modo di incontrare in chiesa il giovane rimpatriato. «Ma non credo che si sia convertito» azzarda il sacerdote.Luca era partito con la fidanzata canadese Edith Blais, per un viaggio di 10.000 chilometri, tra l'Europa e l'Africa, che avrebbe dovuto concludersi in Togo dove, ad attenderli, c'erano i responsabili di una onlus impegnati nella costruzione di un villaggio. Il tour dei due ragazzi si è drammaticamente interrotto invece il 16 dicembre 2018 quando sei miliziani, armati di kalashnikov di Jnim (Jama'a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin), cellula di ispirazione qaedista, li hanno fermati sull'unica strada asfaltata che collega il Burkina Faso e il Benin. Sotto la minaccia delle armi, i due hanno percorso ottocento chilometri su moto, auto e piroghe, nascondendosi in covi di fortuna e riparandosi tra le dune e sotto le palme. Luca avrebbe nel frattempo imparato l'arabo, e - come ha dichiarato nel corso del faccia a faccia con il pm di Roma, Sergio Colaiocco - si sarebbe abituato a orientarsi guardando le ombre proiettate dal sole e le stelle. Capacità che gli avrebbero consentito, il 13 marzo scorso, di tentare l'evasione. Con scarpe di fortuna, fabbricate con stracci e pezzi di stoffa, lui ed Edith si sarebbero allontanati dalla tana approfittando di una tempesta di sabbia. Dopo una ventina di chilometri percorsi a perdifiato, un camion li avrebbe scortati fino a una base delle Nazioni Unite in Mali. Alla perfetta riuscita del piano, che sembra uscito dalla penna di un romanziere innamorato dei finali a lieto fine, fa da contraltare il dubbio che, pure in questo caso, sia stato in realtà pagato un riscatto grazie alla mediazione dei servizi segreti canadesi che già da tempo stavano trattando il dossier con la collaborazione - riporta il giornale online Africa-Express - di un mediatore politico e di uno militare del Mali. Dopo la liberazione l'architetto non ha mai rivelato in pubblico i dettagli della sua segregazione limitandosi solo a dire di «essere stato trattato bene» dai rapitori.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)