2022-03-07
Kiev, la resistenza delle sarte antiproiettile
Viaggio nel bunker segreto dove un laboratorio di abbigliamento è stato trasformato in fabbrica di giubbotti protettivi per i miliziani. In certi quartieri si combatte ma cibo e farmaci non sono scomparsi dai negozi: chi è rimasto cerca di condurre una vita normale.Ieri mattina nevicava forte a Kiev. Fuori, lungo il grande viale che si vede dalla finestra del nostro appartamento, lo scenario era cambiato. Siamo a pochi chilometri da Irpin dove tutto sta avvenendo. In quel quartiere si combatte di casa in casa come nella peggiore delle guerre, e per questo il camion con le longarine di ferro saldate per bloccare la strada dispone nuovi posti di blocco. Usciamo in macchina per cercare dove sia caduto un missile o, ci fermiamo più volte davanti alle file di gente che cerca di comprare qualcosa al supermercato. Ci sono persone che portano i cani al parco. Nei supermercati alcuni scaffali sono vuoti, ma il cibo si trova così come l’acqua e le medicine. Per ora non mancano neanche luce e gas. Funzionano pure tv e Internet.Andando verso il centro incrociamo due uomini che fanno jogging passando davanti a un check point. Ci fermiamo a bere un caffè e mangiare un hot dog in un chiosco. La città ha perso il 70% della popolazione, ma chi è rimasto cerca di condurre una vita normale. La barista, di circa vent’anni, serve sorridendo, dice di non voler andare via e che al massimo scenderà in un bunker. C’è una famiglia, padre madre con un cagnolino e due figlie, anch’esse sui vent’anni. Una delle due dice che rimangono in città, ma non fa in tempo a continuare che viene strattonata via dal padre. Ci sono ancora tanti giovani in giro, c’è aria di normalità anche se si sentono distintamente le bombe fuori città e la guardia civile è sempre più numerosa. La gente preferisce vivere fuori dai bunker, usare la Rete, vedere la luce. In una delle soste in cui chiediamo informazioni ai locali, veniamo fermati da un poliziotto in borghese che ci chiede i documenti e fotografa noi e la nostra vettura. Continuiamo il nostro viaggio dirigendoci poi verso un bunker dove la resistenza sta confezionando i giubbotti antiproiettile per l’esercito. È un posto a cui abbiamo accesso in esclusiva, ci dicono, perché li lavora la madre del nostro contatto a Kiev, colui che rende un po’ più semplici gli spostamenti, le traduzioni, il filtro delle informazioni (lo chiameremo Max ma è un nome di fantasia).Veniamo continuamente fermati a ogni posto di blocco: le mani sul tetto della macchina, le gambe divaricate, i militari urlano come forsennati. Si percepisce la grandissima tensione, ogni giornalista può essere un sabotatore. Oggi la situazione è peggiorata, i russi sono sempre più vicini così come i rumori delle bombe. Ora non sembrano più un lontano temporale.Arriviamo all’appuntamento. Ci fanno entrare dentro un piazzale adiacente a un check point. Finalmente siamo i benvenuti: c’è un lungo abbraccio tra Max e sua madre che vive vicinissimo a dove i russi stanno cercando di sfondare. La esorta più volte a non tornare a casa, a dormire nel bunker dove lavora, ma lei è ferma nella sua decisione, è una delle poche persone che entra ed esce tutti i giorni, pronta a indossare ciò che fabbrica e a utilizzare un fucile per combattere come un militare esperto. All’interno dell’edificio si percorre un tunnel dove sono stoccate alcune macchine da cucire e materiali. Qui una ventina tra civili e militari segue il confezionamento dei giubbotti, è una sartoria a tutti gli effetti, ma con i fucili pronti a sparare. Molti all’interno di questo posto vivono da giorni sottoterra, dormono al piano più basso dove sposteranno le macchine se i russi entreranno in città. I civili all’interno sono dipendenti di tre diverse aziende di abiti di Kiev; i titolari si sono uniti in un unico gruppo e sostenuti dall’esercito hanno trasformato la produzione da giubbotti e borse, alle protezioni personali per i soldati, passamontagna compresi.Non ci sono orari di lavoro, si mangia, si dorme e si lavora, in una bolla illuminata al neon dove non si ha nessuna percezione di ciò che succede all’esterno. Il cibo arriva dall’esterno ogni due-tre giorni, le armi sono dentro, probabilmente nell’unica stanza a cui non abbiamo accesso. Ci sono anche due gatti. Sono di Ania e Dimitri, fidanzati e proprietari di un brand di intimo per donna. Ania ha occhi azzurri e un fisico da modella, chiusa in una stanza da sola con i suoi gatti produce circa cento passamontagna al giorno. Mentre parla i cellulari, collegati ad una o più applicazioni sviluppate di recente, rilanciano l’allarme antiaereo. La linea proviene da un sistema di wifi mobile, questo è forse l’unico contatto con l’esterno. Dimitri ci raggiunge, anche lui è un bel ragazzo di 34 anni, alto, palestrato, indossa un’aderente maglietta nera, è molto cordiale e in inglese spiega il funzionamento della catena di produzione che hanno messo su. È anche un riservista, uno di quelli con una specializzazione che mette i brividi: è un cecchino. Dice che uscirà quando ce ne sarà più bisogno, cioè quando il conflitto si sposterà nelle strade del centro. Per il momento gestisce la baracca.Ci sono altri ragazzi e ragazze tutti intenti a cucire il più velocemente possibile. Katia è una sommelier, è stata più volte in Italia e ci parla di Brunello, di Barbera, di Chianti classico: «Ho una bottiglia di vino italiano qui a casa, ma non posso tornarci dunque la berrò a guerra finita». Poi grida: «Slava Ukarine! (viva l’Ucraina)». La nostra visita ha portato un po’ di allegria all’interno di questo sotterraneo e altri ragazzi ci tengono a raccontare che hanno tutti voglia di venire in Italia. Vladimiro aveva comprato un biglietto per Pisa poco prima della guerra, Julia racconta del viaggio a Roma e Milano. Usciamo per andare alla torre della televisione dove qualche giorno fa c’è stato un attacco e che i russi stanno cercando di sabotare quotidianamente. I militari sul posto puntano i fucili su tutte le macchine, le accompagnano nel mirino lungo tutto il viale. Dopo una svolta su un strada in discesa fra due palazzi, una macchina della polizia che proviene dalla direzione opposta ci sbarra la strada, così come una dietro: escono 8 poliziotti armati da guerra, ci puntano le armi, ci trascinano fuori dal veicolo, urlano, ci sbattono in terra a faccia in giù sul marciapiede, ci montano sopra sono inferociti. Pensano che siamo sabotatori. Ci strattonano, ci perquisiscono e ci strappano tutte le attrezzature, i documenti e le tessere non servono a togliere il sospetto. Non ascoltano neanche l’autista e il traduttore. Passano così 10 minuti in cui urlano senza ascoltare fino all’arrivo di una terza macchina dove c’è un supervisore. Inizia un lungo controllo di documenti di domande incrociate, di analisi delle schede e delle fotografie dei cellulari. Capiscono che siamo lì per raccontare la guerra e non per sabotare. Il loro sguardo pieno d’odio cambia improvvisamente e diventa di amicizia, chiedono scusa. Il superiore mostra le foto che ci aveva fatto la mattina il poliziotto in borghese: «Vi stiamo cercando da 3 ore, pensavamo che foste sabotatori». Uno dei poliziotti che aveva picchiato il nostro autista ha gli occhi lucidi, si affaccia al finestrino, gli stringe la mano e ci chiede ancora scusa.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)