2025-11-07
Il Belgio si è sbarazzato di Siska, la giovane malata di depressione
Siska de Ruysscher (Facebook)
Praticata l’eutanasia alla ragazza che da anni lottava senza ricevere adeguate cure.«Io sono il prodotto di un sistema fallimentare». È un reportage dall’Aldilà, è il grido di dolore di una giovane donna che poteva (doveva) essere salvata. È il testamento morale di Siska De Ruysscher, fiamminga, che a 26 anni è stata uccisa dalla cultura dell’eutanasia. E che lascia una lettera (sotto forma di post su Instagram) sulla quale medici allegri, psicologi intrisi di ideologia, attivisti frementi, politici pavidi, giudici al calduccio dentro la loro casta dovrebbero riflettere a lungo. Siska è morta domenica scorsa semplicemente perché il sistema sanitario belga, che ha pianificato il suicidio assistito come se fosse una semplice sequenza di passaggi tecnici, è privo di retromarcia, di paracadute, in definitiva di umanità.Siska se n’è andata in un ospedale di Anversa, vittima dell’ineluttabilità di un procedimento meccanico di eliminazione legalizzata. La giovane aveva subito violenza a 14 anni e da allora soffriva di depressione cronica come «disturbo da stress traumatico». Aveva tentato più volte il suicidio, era stata avviata a programmi di recupero. Con risultati descritti così da lei stessa: «Posso contare su una mano i buoni operatori sanitari che ho incontrato, ma purtroppo quelli cattivi potrebbero riempire diverse mani». Ricoverata in psichiatria, si è ritrovata circondata «da persone con ogni tipo di problema e bisogno: depressione, dipendenza, anoressia, autismo, disturbi comportamentali e altro ancora. Tutti erano avviati allo stesso programma».L’incubo psichiatrico è stato l’inizio della fine, fra sonniferi e antidepressivi con aumenti progressivi di dosaggio. Per riuscire a ottenere un programma meno impersonale, la ragazza ha dovuto cominciare lo sciopero della fame. Il suo racconto sembra uscito da un film psycho-horror: è aumentata di 20 chili e dopo un altro tentativo di togliersi la vita è stata messa in isolamento. «Mi vedevano come un numero, non come una persona». Da allora ha cominciato a maturare in lei l’idea di chiudere per sempre la parabola esistenziale. «Mi hanno etichettata come vittima di un fallimento terapeutico e alla fine ho deposto le armi». Stanca di lottare, disgustata dal sistema sanitario e ormai in balia dei fantasmi, Siska ha deciso di morire per infelicità. Ed è stata accompagnata da protocolli che ammettono per legge l’eliminazione delle persone fragili. Un sistema agghiacciante nell’Europa che si considera culla della civiltà. Come accade in tutti i paesi che hanno prima depenalizzato e poi legalizzato l’eutanasia, anche in Belgio si è partiti da pochi casi (30-40 nel 2002) riservati agli «oncologici terminali» per arrivare ai 6.000 di oggi. La valanga è sempre la stessa: le difese sociali si indeboliscono, gli argini cadono e si arriva alla diaspora dalla vita alla morte. In Canada il bilancio è di 10.000 persone all’anno, recentemente nell’Ontario è stata proposta una legge per far sì che i bambini assistano al suicidio dei parenti; la normalizzazione dell’omicidio, con bevuta finale, di un essere umano. Scena peraltro ben rappresentata dal film del 2003 Le invasioni barbariche di Denys Arcand, profetico nell’inquadrare proprio la barbarie di civiltà e al tempo stesso nel lanciare la moda dell’ultimo viaggio. Come se fosse una crociera con sconto comitive. Dal diritto alla cura al diritto alla morte. Il passaggio è esemplificato proprio dalla parabola di Siska, che nell’ultimo post non rinuncia a firmare la sua denuncia. «Al mondo che lascio vorrei dire: siate comprensivi, non sottovalutate la gravità della vulnerabilità psicologica. Ascoltate. Ai curanti vorrei dire: abbiate il coraggio di mettervi in discussione. E alle persone che si riconoscono in questa situazione: raccontate la vostra storia. Questo può fare la differenza». La differenza fra la vita e la morte di Stato.
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