A volte c’è bisogno di fermarsi e ponderare bene le parole e le emozioni, devo essere cauto e freddo per poter dare le mie spiegazioni e sostenere allo stesso tempo un progetto in cui credo. Prendere la decisione di abbandonare la missione della Flotilla è stato durissimo. Ma credo di conoscere bene il valore del rischio. Sono sempre stato disposto a correrlo, ma solo sotto ideali e regole che condivido pienamente. Il mio viaggio con la flottiglia si è concluso a Creta. Ho deciso di sbarcare. Ora mi trovo nei pressi di Lerapetra, insieme a una ventina di persone, tra cui alcuni membri degli equipaggi: gente di mare, che il mare lo rispetta e ne conosce le regole. Alcuni dei comandanti e marinai più esperti, si sono trovati, come me in disaccordo con alcune scelte tecniche di navigazione e con le modalità operative della missione. In un’operazione come questa, bisogna essere allineati al 100%. È fondamentale avere fiducia nelle decisioni prese, sentirsi sicuri del proprio equipaggio, di chi traccia la rotta, guida la flottiglia, media con gli altri attori coinvolti. Io sono pronto a rischiare l’arresto, le difficoltà e i pericoli, ma non a rischiare la vita senza un’analisi seria delle modalità con cui si arriva a quella capitolazione, senza una reale possibilità di successo per Gaza, e senza una strategia concreta per proteggere la vita dei volontari e delle persone coinvolte in questo progetto. La barca su cui ero imbarcato, la Snap, si è rotta, dopo la mia decisione di abbandonare (quasi un segno per me, l’ho trovata in rada nella stessa baia dove ho trovato un alloggio). È stata portata nel porticciolo di Makrys Gialos, dove sono sceso ieri mattina. Anche la Family, la barca ammiraglia della missione, è danneggiata ed è stata abbandonata qui e temo che anche altre imbarcazioni che hanno ripreso il mare, lasceranno la missione perché non in condizioni di affrontarlo. Mi servirebbe mezza giornata per raccontarvi nel dettaglio come sono arrivato a questa scelta difficilissima - una scelta che per me è come rinunciare alla vetta di una montagna quando sei ormai sotto il crinale. Proverò però a spiegarvela così. Mi dedico a questo progetto 24 ore al giorno dal 25 agosto con conseguente perdita di lavoro, difficoltà personali e ritardi dell’altro progetto umanitario a cui dedico tempo e su cui invece ci sono effettivi risultati. Questa causa è indubbiamente molto più grande e importante di un lamento o uno sfogo ma ognuno comunque sa ciò che può permettersi di dedicare e tutti hanno un limite.
A settembre sono volato a Catania da qui a Creta per preparare la partenza, inizialmente prevista per il 4. Da allora, i problemi, i ritardi, le incomprensioni non sono mai mancate. Ma quando ti prepari ad andare incontro all’arresto o al fuoco per una causa come quella palestinese, chiudi un occhio su queste cose. Anche riparare una crepa con dello scotch va bene, fino a quando quella crepa non rischia di allagare una barca dove ci sono persone che non sono mai state in mare. Abbassi tutti gli standard, ingoi e vai avanti. Intanto quella che doveva essere una missione di 15 giorni è diventata un viaggio di un mese, e non sono sicuro che problemi, incidenti e deviazioni siano finiti.
Durante la navigazione da Portopalo sono state prese decisioni sbagliate e pericolose, da persone che non avevano le competenze per farlo. Quando si naviga per oltre 1.000 miglia solo all’andata, le decisioni devono essere prese da professionisti del mare. Quando si parla di cybersicurezza, servono esperti di comunicazione. Quando si governa una barca, servono capitani, e i marinai non possono essere cuochi o ballerini, per quanto pieni di entusiasmo. Se a bordo ci sono persone che rappresentano delegazioni internazionali, devono essere addestrate, competenti e stabili mentalmente.
Ognuno di noi ha messo in conto rischi e obiettivi. Io, come sempre, traccio delle linee rosse ogni volta che intraprendo una missione. Queste linee non riguardano solo i rischi, ma anche il modo in cui si affrontano, e tutte le possibili variabili che vanno previste e gestite in anticipo. Tutto deve essere pianificato, automatizzato, condiviso. Se questa preparazione non c’è, e le persone sotto la mia responsabilità non sono pronte, allora non si parte.
Anche se non sono più a bordo, cercherò di fare da ponte con chi ha deciso di restare, condividendo ciò che so sull’evoluzione della missione. Ce ne saranno altre? Spero di no. Spero che questa sia sufficiente a cambiare le sorti del genocidio. Ma temo che, purtroppo, ce ne dovranno essere altre ed io mi impegnerò per mettermi a disposizione.
Il fotoreporter Niccolò Celesti: «A bordo mancano trasparenza e rispetto, servirebbe meno protagonismo. Sul “Manifesto” hanno cercato di farmi passare per un instabile. Ho solo segnalato che non hanno calcolato pericoli e imprevisti».
Global Sumud Flotilla è la più potente arma di pace e il progetto più significativo per fermare il genocidio a Gaza che sia stato messo in campo negli ultimi tempi. È un’iniziativa capace di smuovere governi, media, televisioni e persino i più critici. Sento di aver fatto parte di una missione che ha già vinto, proprio per questi motivi. Eppure, non posso negare una certa amarezza: avrei voluto condividere pienamente visioni, procedure e modalità operative con l’organizzazione, ma così non è stato. Quello che è accaduto può essere paragonato a una partita di calcio in cui un giocatore viene spostato in un ruolo che non sente suo, e per questo non riesce a esprimersi, a giocare come sa, a segnare. Alla fine si discute, ed è normale lasciare il campo per non entrare in conflitto con la squadra. Per quanto possa sembrare strano, la democrazia interna al movimento non ha previsto un ricambio. Sono stato io a fare un passo indietro. La Global Sumud Flotilla, ovviamente, non è una partita di calcio, ma una missione che coinvolge decine di persone e un’attenzione mediatica altissima. Così, incomprensioni che in altri contesti passerebbero inosservate qui diventano notizia. Ho cercato di anticipare problemi che, a mio avviso, si sarebbero potuti manifestare durante la navigazione. Problemi legati a differenze di approccio e a regole d’ingaggio che - lo dico con chiarezza - non sono mai state del tutto definite. Sono abituato, per lavoro e per le missioni umanitarie che seguo, a calcolare i rischi e ad anticipare gli imprevisti. Per questo ho agito secondo un mio metodo, che però si è rivelato distante da quello dell’organizzazione. Mi dispiace che, in queste ore, ogni parola venga strumentalizzata. Le mie semplici osservazioni sono state lette in chiave politica per attaccarmi. Ma basta guardarsi intorno per vedere che altri hanno lasciato la missione per gli stessi motivi. Questo non significa essere contro o a favore di qualcosa: significa avere una visione personale, e scegliere con responsabilità a chi affidare - o meno - la propria vita. Sul Manifesto è uscito un articolo scritto da un signore che si definisce giornalista. Durante la telefonata con lui, ho capito chiaramente che cercava di farmi passare per una persona instabile, infastidito dal fatto che avessi espresso, in un meeting su Zoom, delle critiche ai vertici del movimento. Critiche espresse per chiedere chiarimenti su decisioni importanti, ma mai rilanciate pubblicamente proprio per non alimentare dibattiti sterili che distoglierebbero l’attenzione da Gaza, che dovrebbe essere il vero centro della questione. Paradossalmente, è stato proprio quel giornalista a rendere pubbliche - per primo - le divergenze interne al movimento, cercando però di attribuirle solo a me. Ma è evidente che non sono l’unico ad aver sollevato dubbi. Ieri, su un altro giornale schierato, un altro signore ha scritto che chi ha lasciato la missione - tra cui molti capitani di barche e altri membri della Flotilla - lo ha fatto per paura, per motivi personali o familiari. Ma non è vero. Se all’interno del movimento ci fosse stata più trasparenza, più rispetto e meno protagonismo, tutto questo probabilmente non sarebbe accaduto. Oggi sono io al centro dell’attenzione. Domani toccherà ad altri: ad attivisti, capitani, giovani che verranno giudicati da chi si nasconde dietro una tastiera. Ma io so da che parte sto. E continuerò a fare la mia parte, con coerenza.
Roma ha retto l’onda d’urto. Ha superato indenne lo sbarco di 166 tra capi di Stato e delegazioni internazionali e la mobilitazione di 400.000 tra fedeli e curiosi disposti lungo il percorso di 6 km scelto per trasportare papa Bergoglio da San Pietro alla basilica di Santa Maria Maggiore. Il viaggio della papamobile è durato circa 25 minuti. Più o meno lo stesso tempo è stato impiegato per la tumulazione del pontefice dentro la basilica. Alle 20, 1.000 fedeli sono potuti entrare a pregare. Cinquantamila persone erano dentro a piazza San Pietro, altre 200.000 nelle immediate vicinanze, ulteriori 150.000 erano distribuite lungo il tragitto.
Numeri che mercoledì, quando 20.000 fedeli avevano dato l’ultimo saluto a Francesco senza che si registrasse una calca eccessiva, non erano prevedibili. Nulla, però, nell’organizzazione, è stato lasciato al caso. Come può testimoniare chi scrive. Ecco un breve resoconto dei preparativi e del corteo funebre. Nelle ore di massimo afflusso, poliziotti in borghese si mescolano in mezzo alla folla, confondendosi tra i pellegrini, mentre sopra i palazzi si scorgono le sagome dei cecchini. Quando in via della Conciliazione, da una strada laterale, sbucano due giovani nomadi e si fermano a fare selfie, intorno a loro si crea il vuoto. Due carabiniere le prendono subito in consegna, seppur rimanendo a breve distanza. Nelle strade intorno al Vaticano i militari hanno a disposizione armi super tecnologiche, come i bazooka antidrone. Il Tevere viene passato al setaccio con l’aiuto dei sommozzatori e le persone che fanno jogging sulle sponde del fiume vengono controllate.
Gli addetti alla sicurezza svuotano i bidoni dell’immondizia e chiudono i tombini. Gli agenti ai varchi attrezzati di metal detector non lasciano passare i liquidi, come negli aeroporti. Chi si era portato la sedia da casa deve abbandonarla. La stazione Nbcr dei vigili del fuoco per il contrasto alla minaccia nucleare, batteriologica, chimica e radiologica agita le sue antenne su piazza San Pietro mentre gli inibitori di frequenze affievoliscono il segnale Internet.
Si arriva, così, al giorno delle esequie. Il percorso del corteo funebre è delimitato dalle fettuccine gialle della polizia municipale. Forze dell’ordine e Protezione civile cercano di tenerlo libero. Il passaggio del Papa davanti al Colosseo è preceduto da moto, scooter, auto blu, uomini con radio, capelli al vento e occhiali da sole. A vegliare sopra il serpentone di folla anche l’elicottero bianco del Vaticano, a fianco di quelli di polizia e carabinieri. Migliaia di persone attendono per ore l’arrivo della bara di Francesco assiepate intorno alle transenne che proteggono piazza di Santa Maria Maggiore. Gente di tutto il mondo, come la ragazza di Managua che sfoggia la sua bandiera «Nicaragua Libre» contro il regime del presidente sandinista Daniel Ortega. Sul palazzo del Pontificio seminario lombardo è esposto un grande striscione: «Grazie Francesco».
Verso le 11.30 un cameriere, mentre serve brioche e cappuccini, si fa interprete dello spirito del momento: «Tra un’ora e mezza arriva il Papa, che emozione». Di fianco a lui tre suore seguono la diretta del funerale su un cellulare. Alle 12.03 parte un applauso. Il solito cameriere domanda: «È arrivato il Papa?». Una delle religiose, in versione telecronista, lo tranquillizza: «No, lo stanno caricando adesso. Ecco, lascia il sagrato di San Pietro». Poi, la donna, per prepararsi all’arrivo di Francesco, si arrampica su una transenna. L’auto con la bara lascia il Vaticano poco prima delle 12.30. Dopo circa 25 minuti spunta davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Tutti i presenti alzano i loro cellulari e iniziano a fotografare e a fare riprese. Alle 12.58 la papamobile si allontana, ma la folla applaude pure la vettura vuota. Cinque suorine africane si mettono in posa per un fotografo. Alle 14.30 vengono spostate le transenne e i fedeli iniziano ad affluire nella piazza. Molti giornalisti (2.700 quelli accreditati) iniziano le loro dirette in tutte le lingue. Un gruppo di vietnamiti canta indossando i cappellini dell’agenzia di viaggi che li ha portati lì. Uno spot di livello planetario.
Ma se tutto si è svolto nella più assoluta tranquillità, nonostante l’incredibile concentrazione di governanti, è merito, come detto, di un dispositivo di sicurezza studiato nei minimi dettagli. Il questore di Roma, Roberto Massucci, ha commentato: «Mi è capitato spesso di gestire grandi eventi e c’è sempre qualcosina che potrebbe andare meglio. Questa volta è andato tutto estremamente bene». Il segreto del successo è anche nei numeri. Ieri sono stati mobilitati 2.232 poliziotti, 1.240 carabinieri e 326 finanzieri, ovvero circa 3.800 uomini. Anche la polizia penitenziaria per la prima volta ha contribuito al dispositivo di sicurezza. Sono stati impiegati pure i vigili del fuoco e la polizia locale di Roma.
Sono state utilizzate per ogni giornata 6 unità cinofile, 6 team di tiratori scelti , 10 gruppi di artificieri e 10 equipaggi antiterrorismo. Al conto vanno aggiunti 1.170 militari impiegati in strada per proteggere 118 obiettivi sensibili e 152 dislocati nelle stazioni. Novantaquattro personalità straniere sono state affidate alle cure di 550 uomini di scorta delle tre forze di polizia, mentre altri 390 operatori hanno garantito la viabilità. A Pratica di Mare erano pronti i caccia Eurofighter e, al largo di Fiumicino, un cacciatorpediniere. I droni hanno volato sulla città offrendo immagini in 3D. Come si legge nell’ordinanza di servizio emessa il 24 aprile dalla questura di Roma, intorno al Vaticano sono state allestite tre aree di sicurezza (una di massima sicurezza, una riservata e una di rispetto). L’area riservata, a ridosso del Vaticano, è stata suddivisa in cinque zone di servizio e in ulteriori 22 sottosettori, secondo un piano di «safety» realizzato dalla società Ninetynine, che ha vinto l’appalto da 1 milione per l’organizzazione dei grandi eventi del Giubileo.
Particolarmente sorvegliata la zona intorno a Villa Taverna, l’ambasciata Usa, dove ha soggiornato Donald Trump con Melania e dove non era possibile parcheggiare neppure un monopattino. Alla fine il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha potuto ringraziare tutte «le articolazioni delle forze dell’ordine» per il brillante risultato che ha contribuito a far tornare Roma «Caput mundi anche da questo punto di vista». Quello, decisivo, della sicurezza.





