2025-11-07
Riparte la litania catastrofista di Ocse & C.
Gli obiettivi imposti sono rifiutati perché deleteri e insostenibili. Farebbero meglio a seguire i consigli di Bill Gates.L’appuntamento è fisso e il corollario di allarmi sulla imminente fine del mondo arriva puntuale. Alla vigilia della Cop30 - la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre - il fronte allarmista globale ha rinnovato il coro catastrofico con la pubblicazione di due rapporti cruciali. L’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha diffuso il suo State of the Global Climate Update 2025, mentre l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha pubblicato il suo Climate Action Monitor 2025.Il messaggio che emerge dai due rapporti è univoco: il mondo non riesce a fermare il vento con le mani. I dati presentati dai due organismi vorrebbero essere probabilmente, nel loro insieme, un atto d’accusa contro l’inerzia della politica cattiva, prigioniera di lobby malvagie. Ma non fanno altro che registrare, invece, il totale fallimento delle politiche seguite sinora, come una medicina che non funziona. La narrazione catastrofista però insiste: se non funziona, è perché ce ne vuole di più, in una spirale senza ritorno.Il Wmo avverte che il 2025 è destinato a essere il secondo o terzo anno più caldo mai registrato, continuando una tendenza eccezionale per cui il periodo dal 2015 al 2025 conterrà gli undici anni più caldi nei 176 anni di registrazioni osservative. Le concentrazioni dei principali gas serra (Ghg) hanno raggiunto livelli record osservati nel 2024 e continuano a salire nel 2025. L’Ocse aggiunge che l’azione globale per il clima, misurata dal suo Measurement Framework (Capmf), è aumentata solo dell’1% nel 2024, confermando un rallentamento nel progresso registrato dal 2021. Questo «calo di slancio», dice l’Ocse, non può più essere attribuito a shock esterni come il Covid o le guerre, ma riflette «barriere strutturali più profonde». Se ne sono accorti, a quanto pare.Il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, non ha certo contribuito ieri a distendere gli animi, parlando di «fallimento morale e negligenza mortale» e avvertendo che anche un superamento temporaneo dell’obiettivo di 1,5 gradi celsius avrà «conseguenze drammatiche». Guterres ha ribadito che ogni anno al di sopra di 1.5 gradi «distruggerà le economie, approfondirà le disuguaglianze e infliggerà danni irreversibili». L’impiego di questa retorica tremendista nasconde il cuore del problema: gli obiettivi di decarbonizzazione imposti sono irraggiungibili e insostenibili per le società, e come tali rifiutati.L’Ocse stima che, per allinearsi all’obiettivo di 1,5 gradi, le emissioni globali di gas serra dovrebbero diminuire entro il 2035 del 63% rispetto ai livelli del 2023. Obiettivo assurdo: nel 2023, le emissioni aggregate dei soli Paesi Ocse e partner (che contano per il 78% del totale) erano già l’8% più alte del livello necessario per essere in linea con gli impegni al 2030.Di fronte a questo abisso tra retorica e fattibilità, qualche crepa nel fronte dei massimalisti climatici comincia a farsi vedere. L’Unione europea, pur dichiarando di voler mantenere la leadership green, mercoledì ha approvato un obiettivo di taglio delle emissioni del 90% al 2040, ma introducendo una flessibilità fino al 10% e con clausola di revisione ogni due anni. Gli Stati Uniti, sotto la guida di Donald Trump (che ha definito il cambiamento climatico «la più grande truffa» del mondo), stanno ultimando il ritiro dall’Accordo di Parigi. La decisione di Trump è fondata sul rifiuto di «mettere a repentaglio la sicurezza economica e nazionale del Paese per perseguire obiettivi climatici vaghi che stanno uccidendo altre nazioni».Emblematica è la doppiezza del Paese ospitante. Il Brasile, con il presidente Lula che promette una «tabella di marcia per... superare i combustibili fossili» e che ha convocato la «Cop della verità», sta contemporaneamente espandendo la sua produzione di idrocarburi.Secondo i dati ufficiali, nel giugno scorso in Brasile la produzione di petrolio greggio ha raggiunto un nuovo record di 3,8 milioni di barili al giorno. Petrobras, l’azienda petrolifera nazionale, ha in programma di investire 111 miliardi di dollari entro il 2029 per aumentare la capacità a 4,5 milioni di barili al giorno e ha ottenuto l’approvazione per l’esplorazione di petrolio alla foce del Rio delle Amazzoni. La Cina viene proclamata campione dell’energia «pulita» mentre l’82% della sua energia primaria è ancora di origine fossile.Questo scenario di allarmismo e ipocrisia conferma le tesi di chi, come Bill Gates, sostiene che il catastrofismo non sia una strategia vincente. La vera via d’uscita per un futuro climaticamente ed economicamente sostenibile, ha scritto il fondatore di Microsoft pochi giorni fa, non sono i tagli forzati e le restrizioni ideologiche, ma l’innovazione e l’adattamento. Un riposizionamento piuttosto clamoroso, non a caso sottaciuto dalle agenzie informative internazionali.È necessario abbandonare il ricatto morale degli obiettivi impossibili e concentrare le risorse sull’adattamento, dice Gates, per non sacrificare la crescita sull’altare della transizione ideologica.Ormai è chiaro che più catastrofica e moralista è la narrazione, meno questa fa presa sulle masse, soprattutto quelle in Occidente, stanche dei sensi di colpa alimentati a piene mani. La minaccia della fine del mondo e lo spettro del Tina (There is no alternative, non c’è alternativa) non funzionano più di fronte alla realtà, fatta di inflazione, costi alle stelle, controllo cinese delle filiere, insicurezza degli approvvigionamenti, sussidi pubblici e impraticabilità tecniche.
Giovanni Pitruzzella (Ansa)
Henry Winkler (Getty Images)
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